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I. IL QUADRO GIURIDICO FORMALE E IL NODO DEL CONTENDERE

3. I cittadini fuori dalla città

Nonostante l’autonomia pressoché totale conquistata dalla Val Seriana superiore e dalle altre valli bergamasche, la città riusciva in qualche modo a far sentire il proprio peso anche in materia fiscale, seppure in maniera più indiret- ta rispetto alle questioni politiche e giurisdizionali. I cittadini, coloro cioè ai qua- li era riconosciuto il diritto di cittadinanza, godevano di una serie di privilegi che, in un certo senso, conservavano viva la memoria della supremazia - po- litica, sociale, economica - che la città aveva avuto in epoca comunale. Dal pun- to di vista fiscale, i cives erano esentati dalle prestazioni lavorative obbligato- rie e dalla maggior parte degli oneri reali e personali, che costituivano invece per gli abitanti delle campagne un peso particolarmente odioso.

Tutto ciò non avrebbe rappresentato un grosso problema se città e campa- gna fossero state due entità ben separate, e cittadini e rurali due categorie ben distinte, ma così non era. Numerosi cives vivevano fuori dalle mura urbane. Si trattava in molti casi di famiglie di campagna immigrate in città, magari da tem- po, ma che avevano mantenuto interessi e legami nelle comunità d’origine, dove continuavano a trascorrere diversi mesi all’anno. Si trattava anche di cittadini benestanti che per investimento avevano acquistato molte terre, ma- gari concentrate in un’unica località o in più località vicine - ciò era partico- larmente frequente nelle aree di pianura, economicamente e politicamente le- gate al centro urbano -, e costituivano dunque ormai un punto di riferimento ineludibile per le comunità locali. Ma si trattava anche di persone che non mettevano mai piede in città, o vi si recavano molto raramente. Fin dall’età co- munale, infatti, la concessione della cittadinanza era stata utilizzata anche per ricompensare i rurali che si dimostravano particolarmente fedeli alla fazione che in quel momento governava la città, o per legare più strettamente al grup- po dirigente cittadino notabili di campagna dotati di mezzi economici e ca- paci di mobilitare estese clientele tra le comunità del contado. Quest’ultimo ca- so era particolarmente frequente proprio nelle valli, vera e propria spina nel fian- co per le autorità cittadine, le quali soprattutto nel Trecento avevano utilizza- to ampiamente questo strumento per aprirsi dei varchi nella società locale. La cittadinanza era diventata insomma una specie di onorificienza, concessa, in alcuni momenti con una certa generosità, agli amici più fedeli ma a volte an- che ai nemici che si desiderava farsi amici.

Molti dei rurali così beneficiati continuavano a risiedere indisturbati nel- le località d’origine, senza particolari contestazioni da parte del governo cit-

tadino, che aveva tutto l’interesse a che essi conservassero e ampliassero il loro tessuto di relazioni tra la gente del posto. Al momento dell’annessione al- lo Stato veneziano, perciò, era molto frequente, tanto nella pianura quanto nel- la montagna bergamasca, che all’interno della stessa comunità convivessero, non senza problemi e continue frizioni, persone di status profondamente diverso, cit- tadini da una parte e rurali - o «vicini», come venivano definiti nei documen- ti - dall’altra.

Un elemento fondamentale da tenere presente è che le proprietà non veni- vano registrate nell’estimo della località nella quale erano fisicamente situa- te, ma nell’estimo della località nella quale il proprietario aveva la propria re- sidenza fiscale. Ciò significa che i «vicini» di un qualsiasi Comune della Val Seriana superiore iscrivevano i loro beni all’estimo del loro Comune, mentre i cittadini che vivevano in quello stesso Comune iscrivevano tutti i loro beni, anche quelli posti all’interno del territorio comunale, nell’estimo cittadino. Così i cives, pur vivendo quotidianamente fianco a fianco con i «vicini», pa- gavano le imposte dirette con la città, e soprattutto, grazie ai privilegi fiscali connessi allo status di cittadini, non erano soggetti agli oneri reali e persona- li e alle corvèes che affliggevano i rurali. Quest’ultima esenzione è sufficien- te da sola a spiegare perché la cittadinanza era stata, e continuava ancora ad es- sere anche nel Quattrocento, una concessione molto ambita e perseguita da tutti i valleriani che riuscivano ad arricchirsi e a elevarsi al di sopra dei loro compaesani.

Al momento di redigere l’estimo generale di valle la presenza di cittadi- ni nelle comunità era certamente uno degli elementi che venivano presi in considerazione. La quota di ogni singolo Comune veniva cioè calcolata sulla base del numero e della capacità contributiva dei soli «vicini», esclusi i citta- dini, che del resto non comparivano negli estimi comunali, e questo avrebbe dovuto essere sufficiente a evitare grosse ingiustizie. Il problema è che gli estimi generali, per tutte le difficoltà alle quali si è accennato nelle pagine precedenti, non erano aggiornati con regolarità, ma venivano rifatti ogni qual- che decennio. Nel frattempo poteva accadere che alcune persone o intere fa- miglie residenti in un Comune riuscissero a ottenere la cittadinanza. Il Co- mune rischiava di rimanere per anni soggetto a un’aliquota fiscale fissata quando ancora quei cittadini figuravano tra i suoi contribuenti. Ciò significa, per il principio della responsabilità collettiva, che i «vicini» dovevano integra- re di tasca propria le entrate che venivano a mancare in seguito al trasferimen- to di residenza fiscale dei loro compaesani. Una situazione del genere solle-

vava, come è ovvio, grande malcontento, e contribuiva ad attizzare la forte ostilità che da sempre i valleriani nutrivano verso la città.

Rimaneva poi la questione dei dazi. Se ai cittadini fosse stata concessa la possibilità di sfuggire, oltre che alle imposte dirette e agli altri oneri, anche al pagamento dei dazi per i loro consumi alimentari e per le compravendite che concludevano nella valle, le comunità ne avrebbero riportato un danno enor- me. In effetti coloro che ottenevano la cittadinanza appartenevano spesso ai li- velli più alti della società locale, ai gruppi economicamente più dinamici, era- no in molti casi personaggi intraprendenti capaci di accumulare discrete for- tune attraverso spregiudicate compravendite immobiliari, prestiti ai «vicini» in difficoltà e alle comunità sull’orlo della bancarotta, attività mercantili soprat- tutto nel settore dei prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento e dell’indu- stria laniera. I cittadini erano insomma in molte realtà quelli che consumava- no di più, grazie alle loro possibilità economiche, e quelli più impegnati negli scambi commerciali. Sottrarre ai Comuni di valle la riscossione dei dazi dei cit- tadini avrebbe significato decurtarne drasticamente le entrate, mettendo in grave crisi gli equilibri economici e politici locali.

Il governo veneziano ne era probabilmente consapevole. I privilegi conces- si alla Val Seriana superiore nel 1428, al momento dell’annessione allo Stato di Venezia, chiarivano che i cittadini che abitavano in valle non erano in effetti te- nuti a sostenere le taglie e gli altri oneri con i valleriani, ma, per quanto riguar- da i dazi, erano soggetti allo stesso regime dei «vicini», e dovevano pagare le imposte indirette al Comune nel quale vivevano14. La città tentò di convincere

la Dominante a rivedere quest’ultimo punto, ma senza risultato. A differenza di quanto accadde per altre questioni, nei decenni successivi Venezia non tornò sui suoi passi, e quello contenuto nei capitoli del 1428 rimase il riferimento giuri- dico essenziale nelle controversie relative al pagamento dei dazi.