creditore pignoratizio, essa avrebbe dovuto sostenere nel procedere alla vendita della
cosa pignorata
130; per altro verso, avrebbe pure consentito di non dover «spogli[are] il
socio d‟un titolo che suole custodire con gelosia»
131. In questo modo, insomma, sarebbe
riuscito possibile praticare una soluzione massimamente rispondente alle esigenze di
capitalizzazione (e garanzia di stabilità) della banca, la quale, nel mentre avrebbe
continuato ad essere adeguatamente garantita rispetto agli impieghi deliberati a favore
dei soci – ed avrebbe, anzi, potuto “escutere” la garanzia in maniera ben più agevole
rispetto a quanto le formalità in materia di vendita della cosa pignorata le avrebbero
altrimenti imposto –, non avrebbe dovuto rinunciare alla potente attrattiva che la
proprietà di un‟azione immediatamente fruttifera
132e che – salvo, appunto, la pendenza
di impegni non onorati verso la società – permaneva nella piena disponibilità del socio,
era in grado di esercitare su tutta quella massa di operatori economici, di dimensioni e
capacità di investimento variabili, presso cui le Popolari miravano a raccogliere il
proprio capitale di rischio
133.
Forse, con un po‟ d‟azzardo, anche se, in realtà, non crediamo di andare troppo in là
dal vero, potrebbe anche dirsi che la tecnica della garanzia statutaria degli affidamenti ai
soci permettesse di distinguere, all‟interno della medesima fattispecie societaria, tra il
129Cfr. PIPITONE,Scopo mutualistico, cit., 20 s., nota n. 20 e testo corrispondente; ID.,L‟acquisto delle azioni
proprie, cit., 391, ove numerosi riferimenti al tema della garanzia del credito nell‟opera luzzattiana.
130 Cfr., al riguardo, VIVANTE, Del contratto, cit., 392 ss.
131 Sono, una volta di più, parole di VIVANTE, Trattato, cit., 542 («Questo patto, [...] che diffonde fra [i
soci] col suo rigore l‟abitudine della puntualità, va favorito eziandio perchè aumenta presso la società il credito dei soci più poveri e più previdenti, permette loro di provvedersi nelle [proprie] aziende delle derrate, del credito, delle vesti di cui abbisognano, e, agevolando il loro miglioramento economico, favorisce indirettamente anche i loro creditori particolari che pure ne parrebbero pregiudicati»).
132 V., al riguardo, quanto abbiamo detto supra, nota n. 85, nonché quanto veniamo osservando infra, nel
testo.
133 Chiarissime, sul punto, le parole di LEVI, Manuale per le banche popolari, cit., 111, il quale, nel riferirsi alla
prassi del credito concesso in ragione del conferimento, parlava di una «pratica [avente] principalmente per fine
l‟aumento del capitale sociale, ed [...] inspirata al principio che chi si vale largamente della banca deve cooperare ad accrescerne la potenza» (enfasi aggiunta). Un altro ordine di ragioni, di più immediato carattere pratico,
inducevano poi a preferire la tecnica del vincolo statutario. In considerazione, infatti, dell‟alto numero dei soci e della prassi di formazione rateale del conferimento, da un lato, e della breve durata dei prestiti, dall‟altro, sarebbe risultato oltremodo difficoltoso – in questo continuo «incrociarsi dei depositi, che accreditano il socio, coi rimborsi, cogli sconti, coi prestiti, colle malleverie, che lo addebitano, pel continuo movimento d‟interessi che, capitalizzandosi a brevi periodi, producono a loro volta titoli di addebitamento e di accreditamento» (VIVANTE,Trattato, cit., 542) – determinare prontamente ed esattamente la misura di
garanzia di volta in volta necessaria e, quindi, procedere al continuo immobilzzo/smobilizzo delle azioni mediante costituzione/rimozione del pegno. A tale riguardo, può aggiungersi che, in effetti, si davano casi di statuti di Banche popolari in cui era stabilito che non solo le azioni, ma, insieme a queste, ogni altra somma o valore che, a qualunque titolo, si fosse trovato depositato in nome dei soci presso la banca, fosse da reputarsi vincolato a garanzia delle operazioni attive fatte coi soci medesimi (v., in questo senso, la clausola di statuto riportata in FIANO,Del patto statutario, cit., 561, nota n. 1, ai sensi della quale sottratte al vincolo erano
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mero azionista, ossia il socio “inerte”
134, non partecipante (o magari non più
partecipante) – in quanto, di fatto, non interessatovi (o non più interessatovi) – allo
scambio mutualistico e che, non attuandolo, avrebbe conservato integra la disponibilità
(ed il valore) del bene azione
135; ed il socio “cooperatore”, il quale, viceversa, non
limitandosi al solo conferimento di capitale, bensì determinandosi alla conclusione di
distinti ed ulteriori contratti di scambio con la società (mutuo, sconto, etc.), avrebbe
fruito del servizio del credito da essa reso per mezzo di una tecnica giuridica che, fin
tanto che il rapporto mutualistico fosse rimasto pendente, privando l‟azione della sua
altrimenti piena attitudine alla circolazione
136, sarebbe nel contempo valsa a
neutralizzare la possibilità di profittare del relativo «valore commerciale»
137. L‟azione
134 Per l‟impiego di questa espressione per indicare il socio il cui interesse alla partecipazione sociale sia
ricollegabile alla sola percezione (nei limiti di volta in volta consentiti) degli utili prodotti dalla cooperativa, cfr., innanzitutto, VERRUCOLI, La società cooperativa, cit., 269 s., ivi alla nota n. 30; ed ora, tra gli altri, M.C. TATARANO, La nuova impresa cooperativa, cit., 95, nota n. 177 e testo corrispondente (al riguardo v., però, anche quanto veniamo subito precisando nella nota successiva).
135 Nel procedere ad un confronto tra i due modelli d‟origine della Volksbank tedesca e della Banca
popolare italiana, abbiamo avuto modo di rilevare come quella tra socio “cooperatore” e socio “finanziatore” sembrasse distinzione in certo modo già presente nella geniale intuizione schulziana (v. ante, § 1.5, note nn. 244-247 e testo corrispondente). Tuttavia, abbiamo al contempo segnalato la difficile conciliabilità di tale duplicazione di posizioni di interesse con la concezione allora dominante dell‟impresa cooperativa, reputata forma di organizzazione diretta al perseguimento di interessi altri da quelli della pura rendita e dell‟accumulazione di capitale. E‟ sin troppo noto, infatti, come la dottrina della cooperazione, specie quella delle origini, abbia ritenuto di dover assegnare un ruolo secondario al capitale sociale, in ciò anzi pretendendo di individuare uno dei più qualificanti aspetti di un modo di fare economia alternativo a quello, appunto, “capitalistico”. Nella società cooperativa, in altre parole, al capitale sociale veniva riservato un ruolo di mera strumentalità rispetto al momento dello scambio mutualistico ed alla gestione di servizio al socio (vere fonti di “energia alternativa” della cooperativa), onde il capitale sociale non rappresentava più l‟elemento di misurazione fondamentale dei diritti economici e amministrativi del socio (cfr. su questi temi, tra i tanti, VERRUCOLI, La società cooperativa, cit., 184 ss.; e, più di recente, M.C. TATARANO, La nuova impresa cooperativa, cit., 41 ss., 82 ss.). Per queste ragioni, ancora nel periodo che stiamo adesso considerando, un allentamento del principio di identificazione socio-utente di intensità tale da rendere possibile la presenza, nella compagine sociale, di soggetti interessati al solo ritorno sul conferimento ed al capital gain, costituiva argomento di vivace discussione, la dottrina apparendo per lo più propensa a sostenere la soluzione negativa. Importante, per la delicatezza delle questioni teoriche e pratiche che vi sono trattate, il saggio di GOBBI, Sulla ripartizione degli utili
nelle società cooperative, in Riv. ben. pubbl. ist. prev., 1886, X, 856 ss.; rispetto al quale è però doveroso segnalare
che, riproducendo tale scritto la relazione tenuta in occasione del 1° Congresso delle Società cooperative italiane (al quale le Popolari, come già abbiamo notato ante, § 1.11, nota n. 290, non presero parte), le riflessioni che vi si trovano sviluppate, per espressa dichiarazione del suo stesso Autore (ivi, 864), non tengono conto del (e, quindi, a rigore, non potrebbero essere ritenute estensibili al) settore del credito popolare, rispetto al quale, invece, lo stesso Autore non avrebbe in seguito trovato difficoltà alcuna ad affermare che «lo scopo [...] di procurare ai soci il credito alle migliori condizioni» non potesse intendersi pregiudicato «pel fatto che il [...] capitale della banca v[eniss]e rinforzato dal concorso di coloro per cui le azioni [erano] un semplice impiego di risparmio» (ID.,Il carattere cooperativo delle banche popolari, (scritto che
riproduce una relazione del 1926, ma poi ripubblicato in versione definitiva) in La cooperazione dall‟economia
capitalistica all‟economia corporativa, cit., 99 ss.). Un pensiero sicuramente avveniristico (ma che, in realtà,
descriveva assai lucidamente un‟ipotesi del tutto concreta, la quale avrebbe in seguito trovato conferma anche negli studi di autorevole dottrina specialistica: v. infra, nota n. 253) laddove si considerino le perplessità che, ancora sotto il vigore del Cod. civ. 1942 (ed, anzi, a maggior ragione, giusta l‟esordio legislativo, nell‟art. 2511, dello scopo mutualistico quale connotato causale proprio del tipo: v. la Parte IV di questa ricerca), sarebbero state al riguardo espresse dalla dottrina (cfr., ad esempio, BONFANTE, Cooperativa e “porta aperta”, cit., 415; e si rammenti, altresì, il ricorso al concetto di (contratto di) società a “causa mista” successivamente fatto, tra i tanti altri scritti sull‟argomento, da GALGANO, Impresa cooperativa e gruppi di società, in Le società cooperative negli
anni novanta. Problemi e prospettive, Atti del Convengo internazionale in memoria di Piero Verrucoli (Genova 18-
19 maggio 1990), Milano, 1993, 38 ss., nel tentativo di dare ordinata sistemazione dogmatica al quadro che si andava prospettando di fronte alla ventilata scelta del legislatore (poi effettivamente compiuta per mezzo della L. n. 59/92) di istituzionalizzare la figura del socio “sovventore”. Sul tema, cfr., per ulteriori riferimenti, M.C. TATARANO, La nuova impresa cooperativa, cit., 86, nota n. 144 e testo corrispondente. Possiamo, in ultimo,
anche ricordare come alla (già esistente) figura del socio sovventore di mutua assicuratrice (art. 2548 Cod. civ.), il socio “inerte” di cooperativa fosse stato in effetti equiparato già da VERRUCOLI, op. ult. cit., 270, ivi alla nota n. 30).
136 In alcuni statuti ciò era chiaramente detto: v., ad esempio, la clausola statutaria sulla cui validità fu
chiamata a pronunciarsi Cass. Torino, 17 giugno 1904, cit. («le azioni [...] non possono essere cedute, nè sottoposte a vincolo, a pegno se non col consenso del Consiglio di Amministrazione: tale consenso non potrà essere accordato a quei socii, che abbiano in corso operazioni passive colla società»). Ulteriori riferimenti in PIPITONE,Scopo mutualistico, cit., 15, nota n. 13.
137 Questa l‟epressione utilizzata da NAVARRINI,Delle società, cit., 804, per indicare – giusta l‟assenza, al di