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Il progetto, oltre a sollevare i dubbi di una certa parte della dottrina 375 , e, soprattutto, della giurisprudenza, che già aveva avuto modo di esprimere perplessità in

merito alla compatibilità con la causa societaria (art. 1697 c.c.) di un organismo che

avrebbe dovuto distribuire i propri guadagni anche ai non soci – così, peraltro,

rischiando di disincentivare, si soggiungeva, l‟investimento di capitali in cooperativa

376

373 In dettaglio, nel contesto della “nuova” società cooperativa, oltre alla generale statuizione,

evidentemente ripresa dalla legge tedesca, del carattere aperto dell‟organismo (“... società composta di un numero

illimitato di soci ...”), si stabiliva: i) l‟intangibilità del diritto di recesso del socio, le cui pretese patrimoniali

venivano però limitate al rimborso del solo valore nominale della quota o delle azioni; ii) la concessione alla società di un privilegio sulle proprie azioni a garanzia dei crediti verso i soci; iii) l‟insequestrabilità della partecipazione da parte dei creditori particolari di questi; iv) l‟inderogabilità del voto capitario (v. COMM. MIN.

PERLA RIFORMADEL COD. COMM., Relazione e verbali, cit.; nonché, in letteratura, RABBENO, Il nuovo progetto di

legge sulle cooperative, Torino, 1896; e PIPITONE, Scopo mutualistico, cit., 25).

374 Cfr. ancora GOBBI, voce Cooperazione, cit., 230. Veniva, in questo modo, applicato alle cooperative il

saggio dell‟interesse legale stabilito dall‟art. 1831 Cod. civ. 1865 in relazione ai prestiti non commerciali, «quasi che i conferimenti fossero appunto da assimilare ai prestiti, dovendo altre risorse essere riservate a procurare [...] vantaggi mutualistici» (BELVISO, Scopo mutualistico, cit., 23). In argomento, v. pure BONFANTE, La

legislazione cooperativa, cit., 55 s., il quale nota come una tale «definizione del fenomeno [...] nasceva dalla

necessità di ricercare nuove regole che superando le strettoie economiche del divieto alle operazioni con i terzi, valessero a neutralizzare l‟effetto potenzialmente degenerante di tale attività. Inoltre, questa formula presentava la novità assoluta per il nostro sistema di diritto di configurare la cooperativa come strumento quasi pubblicistico di lotta all‟intermediazione in sè, al di là della sfera dei soci». E v., infatti, infra, nota n. 376, le resistenze che a quel progetto vennero opposte da parte di certa giurisprudenza, la quale si mostrò particolarmente sensibile verso le richieste “protezionistiche” provenienti dal ceto commerciale.

375 Numerosi riferimenti si trovano in BONFANTE, La legislazione cooperativa, cit., 56, 68; ma v. pure

RODINO, Della necessità di disciplinare, cit., 24 s.

376 Cfr., ad esempio, App. Venezia 23 novembre 1895, cit., secondo cui una cooperativa di consumo non

avrebbe potuto ammettere (neppure per via di adozione della formula conciliativa del risparmio automatico, ossia convertendo il cliente in socio tramite imputazione a capitale della parte di utile spettantegli in ragione dei suoi acquisti) alla cooperazione ed alla corrispondente divisione degli utili se non i membri della compagine sociale, pena lo snaturamento della sua essenza di ente societario. Nello stesso senso già App. Casale 4 giugno 1895, cit., ove si era altresì rilevato quell‟insidioso trade-off, cui accennavamo nel testo, tra benefici e svantaggi di questa formula («Se per società cooperative non si dovessero intendere che quelle nelle quali la funzione esercitata collettivamente serve a soddisfare soltanto i bisogni di coloro che la esercitano, ma intendersi dovessero quelle che esercitano la loro industria per il pubblico, giustamente fu detto che non si potrebbe uscire da questo dilemma: o i soci divideranno gli utili insieme coi loro clienti in egual misura, e cesserà ogni ragione di associarsi alla cooperativa, dacchè si potranno goderne le prestazioni senza le spese e le cure inerenti al vincolo sociale, od i soci si riserveranno una parte maggiore negli utili e risorgerà, sott‟altra forma, l‟impresa capitalistica che specula intromettendosi fra chi produce e chi consuma e cerca di restringere in poche mani il guadagno sociale»). Per ulteriori rilievi intorno al vivace dibattito che questa giurisprudenza stimolò tra gli intepreti, v. MARGHIERI, Delle società, cit., 599; eNAVARRINI, Trattato teorico-pratico, cit., 14 (il

quale, in particolare, al sopra riferito orientamento pretorio, così replicava: «[s]e le cooperative, operando coi terzi comunicano ad essi gli utili che comunicano ai soci, non viene con ciò a rendersi inutile e non desiderabile il vincolo sociale; i vantaggi della società non si esauriscono nella comunicazione di quegli utili: tale comunicazione è fatta nell‟interesse stesso dei soci, onde ottenere, mediante uno smercio più esteso, o, più in generale, una più estesa attività, una diminuzione di costo»). Nello stesso senso, ovviamente, VIVANTE,

Trattato, cit., 540, il quale respingeva l‟argomento dell‟asserita natura non societaria dell‟organismo cooperativo

comunicante il profitto ai terzi sostenendo che «[i]l [...] pericolo svanisce [...] considerando che, sia pure limitato il profitto degli azionisti all‟interesse legale, la cooperativa resterà essenzialmente una società. Resterà tale, perchè la comunicazione dei guadagni agli estranei è sempre una concesssione revocabile, mutevole, subordinata all‟interesse del corpo sociale: l‟assemblea potrà sempre aumentare o restringere la misura dei profitti largiti agli estranei, secondo che le giova di accrescere il numero dei clienti o dei soci: nel primo caso favorirà la massa degli estranei coi lauti benefici, nel secondo il gruppo dei soci con maggiori dividendi. Resterà una società, perché i guadagni che si possono trarre da una società non sono quelli soltanto che si dividono alla fine dell‟esercizio. Sono guadagni patrimoniali, che possono formare oggetto di una società, i vantaggi di impiegare il proprio lavoro, di assicurare le derrate anche genuine ed a buon mercato, di ottenere il credito facile ed a modico saggio; e questi non cessano di essere guadagni perchè si comunicano ai terzi. Resterà una società, perchè il patrimonio sociale, aumentato continuamente dalle riserve, aumenterà a beneficio dei soci, che potranno ridurlo in contanti o colla vendita delle azioni o colla liquidazione totale o parziale dell‟impresa». In questo modo, Vivante (di cui v. pure Le società cooperative e la riforma, cit., 14), come è stato giustamente osservato, esprimeva sì l‟idea del ristorno come forma di ripartizione di un utile prodotto per tramite dell‟attività economica comune, ma, allo stesso tempo, offriva un esempio assai lungimirante del modo di concepire – e, conseguentemente, di remunerare – il “servizio” offerto dalla cooperativa (cfr.

85

, risultò del tutto sgradito ai conservatori sociali e, in particolar modo, all‟ambiente delle

Popolari, le quali, in effetti, ne furono le principali oppositrici

377

.

Fortemente polemica fu, in particolare, la posizione di Luzzatti – il quale, al pari di

Vivante, era membro di quella sottocommissione – rispetto, innanzitutto, ad alcune

specifiche questioni tecniche, prima fra tutte quella relativa alle limitazioni alla facoltà di

concedere anticipazione su azioni proprie

378

. Ma, oltre a ciò, il tema vero del contendere

riguardava le implicazioni politiche sottese alla scelta di “spostare” le Banche popolari

nell‟area della società a capitale variabile, che Vivante – come da più parti si tende a

riconoscere – aveva concepito proprio per dar sistemazione alla grande impresa

cooperativa di credito

379

; scelta nella quale, però, gli esponenti del credito popolare

percepivano chiaro il rischio di veder compromessa l‟egemonia borghese sul

movimento cooperativo a vantaggio del partito socialista.

La critica, infatti, non riguardava tanto l‟opportunità di introdurre, accanto alla

società cooperativa, il tipo della società a capitale variabile

380

, quanto, piuttosto, di

imporre per via legislativa una certa concezione di mutualità capace, di fatto, di rendere

l‟istituto cooperativo funzionale a soddisfare gli interessi economici delle sole classi

meno agiate, vicecersa costringendo le iniziative borghesi a rinunziare, con tutto ciò

che, sotto molteplici aspetti, ne sarebbe derivato, al nomen di cooperative

381

. Per le

BONFANTE, La legislazione cooperativa, cit., 57). Del resto, come pure venne notato dalla letteratura coeva, il sopra citato orientamento giurisprudenziale tradiva alcune preoccupazioni che, al di là delle questioni tecniche, affondavano le proprie radici direttamente nelle scelte politiche sottese alle norme del Cod. comm. 1882, col quale, come abbiamo avuto occasione di sottolineare, si era voluta intenzionalmente “appiattire” la funzione cooperativa sulla logica “tradizionale” del profitto capitalistico (v. supra, nota n. 7). L‟impronta “socialisteggiante” del progetto Vivante, in effetti, oltre a cozzare con gli intenti di coloro i quali, proprio valendosi della posizione di leadership nel tempo assunta dalle Popolari (sulle cui ragioni a difesa dello status

quo, v. infra, nel testo), coltivavano, ancora in quegli anni, la speranza di tenere il movimento cooperativo fuori

dall‟influenza dei partiti di sinistra, preoccupava assai i commercianti per le dinamiche pro-concorrenziali che quella formula di “mutualità esterna” appariva in grado di introdurre nel sistema: «[le] Cort[i sono] impressionat[e] di ciò che la società dei cooperatori si avvantaggi della cooperazione degli estranei. Ciò preoccuperà certamente il minuto commercio: è la lotta inevitabile per la vita. Ma il risultato finale è che la concorrenza della bottega migliora il sodalizio cooperativo e questo quella» (così CABERLOTTO, Delle società, cit., 357 s., che al riguardo cita anche la critica che alla sopra riferita giurisprudenza venne rivolta, in maniera particolarmente sferzante, da Leone Bolaffio, il quale vi leggeva un ingiustificato ostacolo alla realizzazione della vera missione economica e sociale svolta dalle cooperative, consistente, a suo dire, nella «modera[zione] [de]i prezzi usurari delle vendite al minuto a profitto dell‟intera collettività: [esse] sono un benefico calmiere moderno»). Sulla lotta, allora infuriante, tra “bottega” e “magazzino cooperativo”, cfr. pure RODINO, Le

operazioni delle società cooperative coi terzi, cit., 5 ss. Era, questo, un conflitto che – in maniera indiretta, ma

inevitabile – poneva gli interessi della cooperazione di consumo in posizione antagonistica anche rispetto a quelli delle Banche popolari, le quali, nel campo della finanza, del ceto commerciale erano propriamente le principali referenti (v., a tal proposito, quanto già abbiamo avuto modo di osservare ante, §§ 1.8, 1.11, note nn. 186 e 290; nonché, più puntualmente, RODINO, Dei pericoli minacciati, cit., 28, ove si faceva notare come «[l]a

questione venne sollevata specialmente contro le società cooperative di consumo, e, si capisce, sempre dagli esercenti, i quali però ben si guardarono dal fare altrettanto anche contro le banche popolari. In queste trovano il loro tornaconto, senza bisogno di associarvisi»).

377 Cfr. PIPITONE, Scopo mutualistico, cit., 23 ss.; ID., Le banche popolari, cit., 82; BONFANTE, La legislazione

cooperativa, cit., 56; nonché, per la letteratura dell‟epoca, RODINO, Dei pericoli minacciati, cit., passim; ID., Della

necessità di disciplinare, cit., passim.

378 Cfr., in particolare, PIPITONE, Scopo mutualistico, cit., 27, nota n. 32 e testo corrispondente.

379 Ivi, 22; nonché ID., La disciplina giuridica delle banche popolari, cit., 11, nota n. 22. E v., nello stesso senso,

la lettera indirizzata dall‟allora titolare del MAIC Lacava al guardasigilli Bonacci, riportata in RODINO, Dei

pericoli minacciati, cit., 39.

380 V., infatti, quanto al riguardo osservava RODINO, Dei pericoli minacciati, cit., 43 («E‟ giusto il concetto

della istituzione di una nuova forma di società a capitale variabile, anzitutto perchè la società commerciale anonima non deve essere privilegio dei soli capitalisti, i quali pressochè esclusivamente hanno modo oggidì di costituirla, non potendo la medesima che essere a capitale fisso, e occorrendo per essa sovente forti capitali; in secondo luogo, perchè sonvi piccoli rami di commercio, nei quali il capitalista sdegna il concorso de‟ suoi capitali, e il non capitalista non ardisce cimentarsi per la modestia della progettata sua impresa rimpetto all‟importanza in genere della società anonima»). Per ulteriori considerazioni sul punto, cfr. anche ID., Della

necessità di disciplinare, cit., 9.

381 «Ma se trovo giusta e necessaria la sanzione legale della società a capitale variabile, [...] non mi sembra

però giusto, e, tanto meno, necessario il secondo concetto sopra affermato, quello che la cooperazione non debba esistere se non in forma mutua e non debba essere costituita che da persone appartenenti alle classi lavoratrici ed alle classi bisognose in genere»; con le proposte riforme, si sosteneva, «è minacciata l‟esistenza di pressochè tutte le nostre società cooperative, le quali dovrebbero vivere sotto altra forma, con altre disposizioni, perdendo il nome, cui teniamo tanto quanto alla funzione, di società cooperative». Sono, ancora

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Popolari, in particolar modo, questo risultato sarebbe stato una naturale conseguenza