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Clifford Owens: from the Ontology of Performance

Torniamo per un attimo indietro a quanto si diceva in merito al reenactment, per chiudere la breve riflessione in questa sede fatta a tal proposito e per dimostrare come, in ambito performativo, il reenactment, nelle sue molteplici sfaccettature e varianti, stia via via prendendo piede, contribuendo ad intensificare la speculazione e la sperimentazione artistica intorno all’ontologia della performance.

Entering, or reenacting, an event or a set of acts (acts of art or acts of war) from a critical direction, a different temporal angle, may be, as Rich suggests, an act of survival, of keeping alive as passing on (in multiple senses of the phrase "to pass"). This keeping alive is not a liveness considered always in advance of death nor in some way after death, as Abramovic might prefer in wanting to monumentalize her work to commemorate her as dead in advance, sealing her, in this way,

into the archive. Rather, it is more a constant (re)turn of, to, from, and between states in animation - an inter-(in)animation (to quote Moten, to quote Donne again). For "survival," to use Rich's word, may be a critical mode of remaining, as well as a mode of remaining critical: passing on, staying alive, in order to pass on the past as past, not, indeed, as (only)

present. Never (only) present.107

Il reenactment dunque può essere di certo considerato, come già evidenziato, un modo tramite cui riuscire a sperimentare una forma di archiviazione della performance, che, ovviamente, nel momento stesso in cui viene realizzata, determina non soltanto un gesto di “sopravvivenza”, ma anche un posizionamento critico dell’atto del rimanere: “un modo critico di rimanere, ma anche un modo di rimanere critici”, appunto. Questa consapevolezza critica nel caso del reenactment implica la necessaria presa di coscienza che per continuare a rimanere in vita, è necessario “trasmettere il passato in quanto passato e non, invece, come (solo) presente”.

Il caso di Clifford Owens, sotto questo punto di vista, appare tanto emblematico quanto esplicativo. Anthology108 è il titolo dell’exhibition che l’ha visto protagonista tra il 13 novembre 2011 e il 7 maggio 2012 al MoMA PS1109 di New York. Questo lavoro di Owens, costituito da fotografie, video, e soprattutto da performances live, è nato dall’idea dell’artista di dar voce, in una maniera diversa dal consueto, a degli artisti/performers afro-americani, non sempre debitamente ricordati. Secondo Clifford Owens infatti alla performance art afro-americana non

107 Rebecca Schneider, Performing Remains. Art and War in Times of Theatrical Reenactment, Routledge, New York, 2011, pp. 6-7.

108 http://momaps1.org/exhibitions/view/340 109

Il MoMA PS1 è una sede affiliata, una sorta di succursale ancora più sperimentale, del MoMA di Manhattan. Il MoMA PS1, geograficamente dislocato nel quartiere del Queens, si è proposto negli ultimi anni, prima ancora che il MoMA stesso lo diventasse, come luogo di sperimentazione per la presenza e la curatela di performances in contesti museali.

è stato per lungo tempo tributato un adeguato riconoscimento e, di conseguenza, la sua storia è rimasta in larga parte non scritta. Per questa ragione Owens, che non era interessato a produrre una vera e propria ricerca accademica al riguardo, ha pensato invece di creare un compendio della performance afro-americana che non avesse precedenti, e che fosse al contempo sia altamente personale sia di natura e di valenza storica. Per perseguire questo suo obiettivo, Owens ha chiesto ad un variegato gruppo di artisti afro-americani di fornirgli degli “scores” per delle performances – letteralmente delle istruzioni scritte o grafiche per delle azioni che lui avrebbe puntualmente eseguito. Anthology è nata dall’esecuzione delle “partiture” ricevute da ventisei noti artisti, la maggior parte delle quali composte ex-novo appositamente per Owens e il suo progetto. In questo modo nell’arco della sua “artistic residency” presso il MoMA PS1 nell’estate del 2011, Owens ha utilizzato l’intero edificio per mettere in atto gli scores delle performances che aveva ricevuto, alcuni dei quali si limitavano a costituire dei comandi piuttosto vaghi, altri invece risultavano essere movimenti ed azioni altamente coreografati. Su una base settimanale, Clifford Owens ha eseguito queste performances in varie locations del museo, dalla sala del seminterrato della caldaia, al tetto e al sottotetto, dimostrando continuamente come, attraverso la sua lettura personale e soggettiva di ciascuno degli “scores”, egli sottolineasse (“underscores” appunto) la mutevolezza e la natura elastica dei set di istruzioni ricevuti. Le fotografie scattate durante queste performances, i video girati, così come anche alcuni degli oggetti impiegati, sono diventati il principale materiale espositivo della mostra, mentre l’artista ha continuato periodicamente ad eseguire dal vivo alcune delle partiture durante l’intero corso della sua exhibition al MoMA PS1110.

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L’Antologia di Clifford Owens, così come i reenactments di Marina Abramović con The Seven Easy Pieces e con The Artist is Present sono dei chiari esempi di come sia possibile provare a “conservare” la performance, e a farne una sorta di storiografia a tratti critica, usandone i codici interni e giocando con essi in maniera consapevole. Nessuno nel fare ciò pretende di cristallizzare il presente performativo: un tentativo di questo genere risulterebbe infatti controproducente oltreché primariamente infondato, data la natura stessa della performance. In questi esperimenti volti a “salvare” la performance, anche per renderla accessibile ad un pubblico “futuro” e più vasto, appare evidente da parte dei performers, l’impiego di una scrittura performativa cosciente della differenza111 esistente tra una performance e il suo reenactment; un reenactment che, reiterando i meccanismi performativi ed identitari intrinseci alla performance stessa, rimanga coerente alla natura ontologica dell’oggetto in questione. Sembra quasi che, almeno al momento, l’unico modo efficiente tramite cui la performance sia riuscita a “conservarsi” sia stato attraverso “l’auto-archiviazione”, vale a dire affidando alla re-performance e al suo consapevole scarto differenziale, il compito di farlo. E questo non soltanto perché, come sostiene la Abramović, “a performance is like a musical piece, an opera, or a piano concert; of course it will be different with each different interpreter after the original voice or virtuoso is gone”112

, ma anche perché il reenactment performativo concepisce il “salvataggio del presente” solo nei termini di una forma di cura del futuro del passato.

MoMA PS1, 2012.

111 Jacques Derrida, L'écriture et la différence, Editions du Seuil; Points Essais,1979.

112 Klaus Biesenbach, Marina Abramović. The Artist Is Present. The Artist Was Present. The Artist Will Be Present, in Klaus Biesenbach, Marina Abramović. The Artist Is Present, The Museum of Modern Art, New York, 2010, p.20.

2.7 Non toccare l’intoccabile: una Convenzione UNESCO per