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E NEL CODICE ZANARDELL

SOMMARIO: 1. L’emersione dell’amministrazione della giustizia come interes- se meritevole di tutela penale nel pensiero giuridico del XVIII e XIX secolo e la rilevanza della ritrattazione come esimente. – 2. La disciplina della ri- trattazione nei codici preunitari. – 3. La disciplina dei delitti contro l’ammi- nistrazione della giustizia e della ritrattazione nel codice penale del 1889. La scelta a favore di una natura giuridica alternativa della ritrattazione: esi- mente/attenuante. – 4. I contrasti sull’inquadramento dommatico e sulla na- tura della ritrattazione sotto la vigenza del codice penale del 1889.

1. L’emersione dell’amministrazione della giustizia come interesse

meritevole di tutela penale nel pensiero giuridico del XVIII e XIX secolo e la rilevanza della ritrattazione come esimente

La individuazione della ‘giustizia pubblica’ come interesse autono- mo e distinto dalla ‘amministrazione pubblica’, meritevole di specifica protezione penale è una conquista abbastanza recente nella nostra cul- tura penalistica. È stato Gaetano Filangieri alla fine del Settecento, nella sua Scienza della legislazione, il primo ad osservare, coerente- mente con la concezione illuminista dello Stato di Montesquieu fon- data sul principio della separazione dei poteri, che fosse opportuno ca- talogare i delitti che intralciavano l’espletamento delle funzioni giudi- ziarie in un autonomo titolo, dal momento che il potere giudiziario non poteva essere assimilato e confuso con la più generica funzione di amministrazione della ‘cosa pubblica’1.

mo dei cittadini alla inviolabilità della giustizia, in argomento, per ulteriori ap- profondimenti, si rinvia per tutti a B. SANTALUCIA, Diritto e processo penale nel-

l’antica Roma, Milano, 1998, p. 56 ss.

2G. FILANGIERI, La scienza della legislazione, cit., vol. II, Parte III, Milano,

1856, p. 40.

3Severe critiche contro la classificazione dei reati di falso basata unicamen-

te sulle modalità di realizzazione dell’azione criminosa erano già state espresse da F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte speciale, vol. IV,

Lucca, 1870, par. 2366. Nella dottrina tedesca le gravi difficoltà classificatorie dei delitti di falso erano già state avvertite da K. BINDING, Lehrbuch des gemeinem

deutschen Strafrecht, Leipzig, vol. II, 1904, p. 180 ss. Più di recente, osservazioni

critiche sull’argomento sono state svolte da E. GALLO, Il falso processuale, pp. 10

e 31; cfr. al riguardo anche G. RUGGIERO, Profilo sistematico delle falsità in giudi-

zio, cit., p. 45 ss.; ID., voce Falsa testimonianza, in Enc. dir., vol. XVI, Milano,

1967, p. 528.

Nel dichiarato tentativo di portare chiarezza in una «parte oscuris- sima della legislazione» e di «mostrare la possibilità di formare un co- dice penale», l’illustre giurista napoletano aveva cercato di classificare i reati proponendone una «divisione generale in titoli» attraverso l’in- dividuazione dei «loro oggetti», operazione all’esito della quale era giunto a delineare all’interno dell’ampia area dei crimini contro l’ordi- ne pubblico una autonoma categoria costituita dai delitti contro la giu- stizia pubblica.

Anzi, secondo quanto è dato desumere dall’opera di Filangieri, que- sta classe di reati avrebbe dovuto rivestire un ruolo centrale nell’ambi- to della sistematica di un futuro codice penale, essendo funzionale a garantire la salvaguardia di uno dei pilastri istituzionali dello Stato moderno: il potere giudiziario. Come si legge in un altro passo della Scienza della legislazione, nell’ottica dell’illuminista partenopeo, «dopo il sovrano, autore delle leggi, vengono i magistrati che ne sono i depo- sitari. I primi omaggi si debbono al re, al senato, alla concione; i se- condi agli amministratori della giustizia»2.

Questa intuizione consentì di avviare un lento processo di definiti- vo abbandono da parte della nostra legislazione penale della tendenza a classificare i reati di falso in base esclusivamente alle modalità di (ed ai mezzi per la) realizzazione della condotta, a prescindere dalla previa individuazione di un oggetto giuridico da tutelare3. Le illuminanti pa-

gine di Filangieri, infatti, raggiunsero in breve tempo l’obiettivo che si erano prefisse: quello di orientare le prime codificazioni penali italia- ne dell’Ottocento. Il concetto di ‘giustizia pubblica’ venne utilizzato in molte delle parti speciali dei principali codici penali italiani preunitari e, soprattutto (come meglio vedremo tra breve), di entrambi i codici post-unitari, costituendo un tratto distintivo ed originale del nostro si- stema penale rispetto ad altre codificazioni europee, costantemente ri-

4Sul punto, per una completa ricognizione dell’evoluzione storica della di-

sciplina dei delitti contro l’amministrazione della giustizia a partire dai primi codici penali dell’inizio dell’Ottocento, fino alle più recenti riforme dell’attuale Titolo III del codice penale del 1930, si rinvia a G. RUGGIERO, Profilo sistematico

delle falsità in giudizio, cit., p. 24 ss.; A. CADOPPI-P. VENEZIANI, Elementi di diritto

penale. Parte speciale. Introduzione e analisi dei titoli, Padova, 2004, p. 109 ss. In

argomento, da ultimo, cfr. F. SIRACUSANO, Studio sui reati contro la giurisdizione,

Torino, 2005, p. 5 ss.

5Sul punto si rinvia, sia per la consultazione della ristampa anastatica del co-

dice, che per alcuni commenti, a Codice per lo Regno delle due Sicilie (1819), Par-

te II, Leggi penali, presentazione di M. DAPASSANO-A. MAZZACANE-V. PATALANO-S.

VINCIGUERRA, Padova, 1996, spec. p. 40, dove è riprodotto il Titolo IV De’ reati

contro l’amministrazione della giustizia e le altre pubbliche amministrazioni.

6In argomento si rinvia, sia per la consultazione della ristampa anastatica

del codice penale sardo, che per alcune note introduttive alla sua lettura, a Co-

dice penale per gli Stati di S. M. il Re di Sardegna (1839), presentazione di S. VIN- CIGUERRA-M. DAPASSANO, Padova, 1993, spec. p. 112.

chiamato e preso ad esempio da molti legislatori continentali anche nelle loro ultime e più recenti riforme di settore.

Tale categoria di delitti contro la giustizia pubblica comparve già nel primo codice penale italiano, il progetto milanese per il Regno ita- lico del 18064, così come in due codici penali di poco successivi, quel-

lo del Regno delle Due Sicilie del 18195e quello sabaudo del 18396, an-

che se molto spesso -pur essendo distinta dalla classe dei delitti contro la pubblica amministrazione- era ad essa accorpata in un unico titolo rubricato De’ reati contro l’amministrazione della giustizia e le altre pub- bliche amministrazioni onnicomprensivo di tutte le condotte di intral- cio all’espletamento delle attività pubbliche.

Dopo aver trovato esplicito accoglimento nelle legislazioni penali di due degli stati più importanti dell’Italia preunitaria, la convinzione dell’esistenza di autonome esigenze di tutela della pubblica giustizia si rafforzò progressivamente al punto tale che, nella seconda metà del se- colo XIX, la dottrina penalistica era pressoché unanime nel condivide- re questa idea ed, anzi, riteneva che la protezione penale della ‘giusti- zia’ fosse una delle esigenze prioritarie dell’intero ordinamento giuri- dico.

Nulla, però, può scandire meglio il livello dell’importanza acquisita da questo interesse giuridico nel pensiero penalistico dell’Ottocento più delle parole dell’introduzione alla trattazione della parte speciale del diritto penale del Programma del corso di diritto criminale del più il- lustre giurista dell’epoca, Francesco Carrara.

Il padre della Scuola Classica nell’affrontare nella sua poderosa opera la parte speciale del sistema penale prendeva le mosse proprio dalla trattazione dei delitti contro la giustizia pubblica, osservando che

7Così, con la consueta lucidità, F. CARRARA, Programma del corso di diritto cri-

minale. Parte speciale, vol. V, Lucca, 1870, par. 2471, p. 11.

8Così F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte speciale, vol.

V, cit., par. 2476, p. 20.

9Così ancora F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte spe-

ciale, vol. V, cit., par. 2478, p. 24.

tale scelta, pur non essendo in sintonia con l’ordine sistematico segui- to nei codici penali dell’epoca, si fondava sul dato ineccepibile che: «Il primo e più immediato fra i beni che alla umanità comparte lo stato di società civile si ravvisa nella costituzione della pubblica giustizia. Qui sta la suprema, ed anzi la unica assoluta ragione di essere della società civile, ossia dello impero: il bisogno cioè della tutela giuridica indi- spensabile al progresso umanitario, e che non può soddisfarsi senza la costituzione di un ordine estrinseco di giustizia che a tutti i cittadini sovrasta, e che mentre tutti raffrena, tutti protegge. Onde è una verità istintivamente sentita da ciascuno che la giustizia pubblica è costitui- ta a benefizio di tutti, e che per conseguenza offende tutti chi offende quella. E così la prima classe dei delitti sociali si presenta spontanea nei reati contro la pubblica giustizia»7.

Tra le differenti accezioni che la parola giustizia può avere, Carrara osservava che, quando di essa si parli come oggetto di tutela penale, dovesse privilegiarsi quella secondo cui la giustizia è «quell’ordina- mento con il quale le leggi dello Stato creano una speciale istituzione alla quale aderiscono certi uomini affinché con atti e forme determi- nati convertano in precetto pratico quella legge astratta, e rendano giu- stizia secondo giustizia quantunque volte il bisogno lo richiede. (…) e così la classe dei reati che diciamo contro la giustizia pubblica viene a contenere tutti quei fatti mediante i quali si aggredisca con un atto malvagio quella istituzione, o nei suoi cardini, o nei suoi movimenti, sia col negare di riconoscerne i primi, sia con l’opporsi ai secondi, sia con osteggiare il fine della istituzione medesima»8.

In questa classe di delitti, proseguiva il giurista toscano, «l’offesa fe- risce il diritto universale dei consociati e non un diritto particolare de- gli individui governanti; i quali dopo avere in adempimento ad un do- vere che loro incombe eletto i magistrati e costituito gli ordini, torna- no in rispetto all’ordine costituito nella più perfetta parità con gli altri cittadini ed hanno l’obbligo di non avversare i movimenti né più né meno come ogni altro privato. (…) L’oggetto pertanto dei reati che si dicono contro la pubblica giustizia è sempre il diritto individuale; se non che invece di contemplarlo nello individuo isolato ei si contempla nella moltitudine congregata»9.

Da queste sempre belle pagine di Carrara si evince che nella cultu- ra penalistica del XIX secolo si era andato delineando un concetto di

10La modernità del pensiero di Carrara in argomento è confermata anche dal

fatto che una analoga concezione dell’oggetto giuridico dei reati contro l’ammi- nistrazione della giustizia è stata di recente proposta da S. MOCCIA-F. SCHIAFFO,

voce False informazioni al pubblico ministero, in Enc. giur., vol. XIII, Roma, 1996, p. 11, nel tentativo di rileggere le norme in materia di tutela penale del pro- cesso in un’ottica sganciata da una concezione meramente metodologica del be- ne giuridico.

giustizia pubblica come oggetto giuridico di tutela penale che, sulla scia delle eredità illuministiche e dell’idea liberale dello Stato, non era concepito riduttivamente come un aspetto del potere sovrano da pre- servare nell’esclusivo interesse pubblicistico-statuale, bensì era inteso in senso molto più ampio (e moderno) come la proiezione collettiva di un interesse individuale. La giustizia, infatti, ad avviso di Carrara, as- surgeva ad oggetto meritevole di una adeguata tutela penale non in quanto potere fondamentale dello Stato, bensì quale strumento utile a tutelare il singolo individuo in una delle principali formazioni sociali dove si svolge la sua personalità. Tramite la tutela della giustizia, in al- tre parole, si proteggevano le aspettative collettive al corretto esercizio dell’attività giurisdizionale vista nella prospettiva della sua funziona- lità rispetto alla protezione ed allo sviluppo di tutti i consociati10.

Prescindendo, almeno per un attimo, dal problema dell’emersione di un’oggettività giuridica autonoma ravvisata nella giustizia pubblica e dall’altro problema, a questo strettamente connesso, dei possibili di- versi significati che essa può assumere, occorre ora passare in rasse- gna i vari codici italiani preunitari per vagliare quanti, anche tra quel- li che seguivano criteri di classificazione dei reati non incentrati sul bene protetto, bensì sulle modalità realizzative della condotta (distin- guendo cioè i titoli in infamie, violenze, falsità, omicidi ecc.), abbiano previsto delle norme volte a regolare espressamente l’aspetto della eventuale ritrattazione della precedente dichiarazione processuale mendace. Ciò consentirà anche di poter valutare dove l’interesse alla ricerca della verità nel processo (su cui si fonda il buon funzionamen- to della giustizia pubblica) sia stato ritenuto un interesse di tale im- portanza da legittimare l’esenzione o la riduzione della risposta san- zionatoria nei confronti dell’autore di una precedente falsa dichiara- zione processuale tempestivamente ritrattata; nonché di poter verifi- care dove le concezioni meramente retributive del diritto penale ini- ziavano (inconsapevolmente) a cedere il passo a possibilità di ‘dialogo’ con l’autore di un reato, conferendo in modo implicito rilievo al prin- cipio di offensività e delineando nei fatti un istituto giuridico (la ri- trattazione appunto) che appare strutturalmente ispirato (se letto in chiave oggettiva) a moderne concezioni special-preventive positive del- la pena.

11In argomento si rinvia a Il codice penale veronese (1797), a cura di S. Vin-

ciguerra, Padova, 1996, spec. p. CCIX (o p. 199 della ristampa anastatica). 2. La disciplina della ritrattazione nei codici preunitari

Una prima valutazione che si può fare al termine di una lettura comparata delle legislazioni penali italiane dei primi dell’Ottocento è che la maggior parte di queste non contemplava né un titolo autonomo destinato alla tutela della giustizia pubblica, né tanto meno una norma in materia di ritrattazione. E che, in linea di massima, tale disciplina premiale per l’autore di una condotta di falso processuale trovava spa- zio prevalentemente in quei pochi codici che riconoscevano esplicita- mente all’amministrazione della giustizia rango di oggetto giuridico meritevole di tutela penale e che, dunque, già manifestavano un forte interesse al buon funzionamento del sistema processuale fondato sul- la veridicità delle dichiarazioni in esso rese.

Un’analisi schematica ed analitica dei numerosi codici penali degli stati italiani emanati tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ot- tocento chiarirà meglio quanto appena detto e permetterà di offrire un quadro, per quanto possibile, completo delle diverse posizioni assunte da tali codici rispetto alla opportunità di tutelare espressamente la giu- stizia pubblica e rispetto alla efficacia da attribuire alla ritrattazione delle false dichiarazioni processuali.

a) Nel Codice penale veronese del 1797 non esisteva alcun titolo au- tonomo dedicato ai reati contro l’amministrazione della giustizia e le condotte di mendacio processuale erano classificate nel Capitolo X, Delle falsità, che raccoglieva indistintamente tutti i delitti consistenti in alterazioni della realtà, a prescindere dallo specifico interesse giuridi- co da essi tutelato11. Anzi, sembra potersi evincere da una lettura del-

le norme in argomento che tali reati fossero concepiti come reati nei confronti della persona, in quanto la loro punibilità era subordinata al verificarsi di un pregiudizio in danno di un terzo innocente.

In tale codice non figurava poi alcuna norma che disciplinasse, at- tribuendole valore esimente o (almeno) circostanziale, la ritrattazione; anzi i delitti di calunnia e di falso testimoniale erano repressi in ma- niera particolarmente severa seguendo un criterio retributivo rigoro- so. Ai sensi dell’art. 5 del citato Capitolo X, per le fattispecie base di calunnia o di falsa testimonianza che avessero procurato un danno ad un terzo era prevista una pena ai lavori forzati di cinque anni (o, in ca- so di inabilità agli stessi del condannato, alla prigione) ed il risarci- mento di tutte le spese; nessuna menzione era fatta della possibilità di mitigare tali pene in presenza di un tempestivo ravvedimento operoso

12I due articoli del codice penale veronese del 1797 così recitavano: Art. 5 - Il

calunniatore, che colla falsità della sua accusa, o delazione, e così il testimonio falso in rapporto alla sua deposizione in qualunque processo criminale, avesse apportato conseguenze di danno, e spese a chiunque mal’imposturato, che aves- se dovuto subire angustia, e dispendio di difesa, questo calunniatore, o testimo- nio falso risarcisca il danno di tutta la spesa, e sia condannato ad anni cinque de’ pubblici lavori, o se inabile, di prigione.

Art. 6 - Se poi per effetto di calunnia, o di falsa testimonianza fosse stato al- cuno condannato con inganno della Giustizia, la pena della stessa condanna sarà quella del calunniatore, e del falso testimonio, escluso in ciò ogni arbitrio e clemenza di Giudice.

13Si veda il Codice penale per il Principato di Piombino (1808), a cura di S.

Vinciguerra, Padova, 2001, p. 84 ss. (o p. 104 ss. della ristampa anastatica).

14Si rinvia in argomento a Le leggi penali di Giuseppe Bonaparte per il Regno

del reo. Solo in via interpretativa si potrebbe ipotizzare che la scelta di vincolare la punibilità di questi reati all’effettivo pregiudizio arre- cato a terzi, indirettamente consentiva di riconoscere valore esimente alla ritrattazione intervenuta prima che tale pregiudizio si fosse veri- ficato.

In ogni caso, il mancato riconoscimento di un valore premiale, an- che minimo, alla ritrattazione del reo nell’ipotesi in cui la falsa dichia- razione avesse già cagionato danni ad altri soggetti, emergeva chiara- mente dal successivo art. 6 di questo Capitolo X, nel quale era previsto che nei casi in cui al delitto di calunnia o di falsa testimonianza fosse seguita la condanna di un terzo innocente, l’autore del falso doveva es- sere punito con la stessa pena inflitta nella sentenza di condanna sen- za alcuna possibilità di mitigazione della stessa. Una volta, cioè, che la falsa deposizione processuale aveva prodotto come evento ulteriore la condanna di taluno, si doveva seguire la legge del taglione ed applica- re la medesima sanzione (anche quindi la pena di morte) al reo senza alcuna possibilità «di arbitrio e clemenza di Giudice»12.

b) Analogo rigore in materia dei delitti di falsa testimonianza, ca- lunnia e spergiuro permeava le scelte politico-criminali del Codice pe- nale per il Principato di Piombino del 1808, in cui gli articoli dal CCXX- VI al CCXXXII comminavano sanzioni estremamente rigorose (anche la pena di morte per l’ipotesi di «falsa deposizione in giudizio di alto Criminale sopra circostanze influenti per la condanna dell’innocente nelle accuse capitali») senza nulla disporre in relazione ad una even- tuale ritrattazione del colpevole13.

c) In modo più netto, invece, la possibilità di attribuire valore scri- minante o anche solamente attenuante alla ritrattazione era esclusa dalle Leggi penali di Giuseppe Bonaparte per il Regno di Napoli14.

di Napoli (1808), a cura di AA.VV., Padova, 1988, spec. pp. 382 e 383 della ri-

stampa anastatica.

15Stabiliva testualmente tale art. 280 che «la calunnia seguita dalla condan-

na sarà punita colla medesima pena, che sia stata pronunziata contro al calun- niato, oltre alla rifrazione del doppio danno. Dove la calunnia sia stata scoperta prima della sentenza, sarà punita con un grado di pena inferiore a quella a cui il calunniato è esposto. Se questa pena sarebbe stata la detenzione, la pena del ca- lunniatore non subirà alcuna minorazione».

16In argomento si rinvia a I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI per lo

Stato Pontificio (1832), a cura di S. Vinciguerra, Padova, 2000, spec. p. 99 (p. 19

della ristampa anastatica).

Nella minuziosa disciplina ivi dettata per i delitti di calunnia e di falsa testimonianza dagli artt. 279-286 (collocati anche questa volta al di fuori di un autonomo titolo dei reati contro la giustizia pubblica), non era, infatti, proprio menzionata la ritrattazione. L’unica ipotesi di riduzione della pena prevista per tali delitti era rappresentata dal caso di una calunnia scoperta prima della pronuncia della sentenza di con- danna a prescindere dal contributo personale apportato dal reo. Solo in tale circostanza la pena poteva essere ridotta di grado rispetto a quella prevista per il delitto falsamente attribuito al calunniato, purché questa non fosse stata la detenzione. In tale ultimo caso l’art. 280 sta- biliva che la pena del calunniatore non avrebbe dovuto «ricevere alcu- na minorazione»15. Analoghe regole valevano per la falsa testimonian-

za, come si evince dal rinvio contenuto per la sua disciplina agli artt. 280 e 281 che regolavano appunto la calunnia.

d) Un titolo autonomo in materia di delitti contro la giustizia pub- blica ed una disciplina specifica per la ritrattazione non figuravano neanche nei Regolamenti penali di Papa Gregorio XVI per lo Stato Pon-

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