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LA TORINO CONTEMPORANEA NEI ROMANZI DI ALESSANDRO PERISSINOTTO

2. Le colpe dei padr

L’idea torinese di fabbrica ha due tratti che ne hanno segnato la forza e la morte: la precisione nel lavoro, dalla quale l’operaio prima che il padrone traeva il motivo del proprio orgoglio e della propria identità, e la stagione del terrorismo, che quella precisione nella meccanica estremizzò in una ricerca di giustizia dalla quale uscì vittima l’umanità stessa che si era messa in testa di redimere.

Questa è la prima torinesità che ruota intorno a Guido Marchisio, protagonista delle Colpe dei padri. Figlio di un “quadro”, un dirigente della fabbrica (per “fabbrica” dovrei forse usare la maiuscola) che, alla fine della ricerca di sé, si scopre nato in un’altra famiglia, figlio di uno che faceva il terrorista.

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E che, come la città, non riesce proprio a conciliare questa doppia appartenenza, e finisce col provare a ripartire dall’anonimato, dal prendersi cura di qualcuno più debole, forse anche questa una scelta non casuale, molto torinese, la terza grande anima della città, dal Cottolengo al volontariato d’oggi. Ma è già più di quanto suggerisca l’autore. E il mio sospetto è che invece la nuova partita di Guido Marchi- sio, inteso come metafora di un certo modo di essere torinese nel lavoro, avvenga a Shanghai, nel ro- manzo successivo, nelle Coordinate d’Oriente, sotto le spoglie di Pietro Fogliatti.

Le colpe dei padri si svolge interamente a Torino, fra quattro luoghi esemplari: il quartiere periferi- co della Falchera, l’area industriale di Torino Nord, il centro storico con Piazza Castello e Piazza Cari- gnano, via Rosselli e i quartieri borghesi come la Crocetta e Santa Rita, nati negli anni del dopoguerra e coincidenti con il momento del massimo sviluppo industriale.

Facendo anch’io parte di quei “meno di sei” gradi di separazione, non faccio fatica a immaginare le scene ambientate in questi luoghi di cui conosco bene anche le strade, gli odori, le persone. Non so se possa essere così anche per un lettore outsider, ma questa precisione nel situare fatti, persone e vicen- de è un tratto distintivo del Perissinotto scrittore. Un autore che, per sua scelta, non lascia nulla alla fantasia, fino ad andare a fotografare minuziosamente i luoghi dove sta per ambientare i suoi romanzi (Perissinotto, 2017b).

La borghesissima cena settimanale coi genitori di lui finisce così per essere anche un affresco delle regole non scritte della torinesità, dei suoi riti, della sua prossemica. Anzi, dal punto di vista geografi- co quello che mi colpisce è proprio questa precisione rituale nel definire le distanze emozionali e fisi- che fra i partecipanti. Quando ci si incontra, è come se tutti i luoghi della nostra storia fossero con noi. Chi ci incontra, ad un livello simbolico-metaforico, incontra anche tutti quei luoghi. Così, basta un po’ di allegria (simulata) dalla giovane compagna del protagonista, addirittura la semplice vivacità della scampanellata, per ottenere la simpatia (necessariamente simulata anch’essa) della madre di lui. La famiglia torinese: «bastava davvero poco per mettere allegria in una casa dove, da sempre, ogni gesto era misurato, discreto, serio» (Perissinotto, 2013, p. 49). E ancora: «nella famiglia Marchisio non ci si baciava, al più ci si stringeva la mano» (Perissinotto, 2013, p. 49). E forse è anche un tratto torinese questa relazione di amore che non si traduce mai in gesti semplici o in ascolto profondo tra padri e fi- gli, mai in un gioire di cuore (o nel mostrare di gioire) di fronte a un successo del figlio. Come se fosse un gesto irrimediabile, un segno di debolezza tale da rendere vana tutta un’educazione: «Il figlio ave- va passato la giovinezza cercando di stupire il padre e, arrivato alla maturità, ci aveva rinunciato» (Perissinotto, 2013, p. 50).

Forse tutto questo stile torinese che qui attribuiamo alla fabbrica è però qualcosa di molto più anti- co, che la fabbrica ha assorbito adattandosi lei allo spirito del luogo. Viene dall’epoca sabauda, dal Piemonte militare, obbediente e pronto al sacrificio, quello che racconta Augusto Monti nei Sanssôssì, tanto per restare fra Torino e scrittori torinesi. Da quel modo d’essere piemontese che Monti descrive come fredda e angusta anima piemontese, renitente ad ogni slancio, diffidente d’ogni novità, attenta al guadagno (Monti, 1993), e che però non tradisce, non cambia, sente il dovere come il valore senza il quale mancherebbe la dignità. A Torino, il rapporto tra nobiltà e popolo, poi tra borghesia e proleta- riato, oggi forse tra ricchi e poveri, è sempre stato un laboratorio aperto, nel quale ogni parte si è con- frontata con l’altra, affrontando una dialettica durissima che alla fine ha dato forma alla cultura del lavoro ma anche a quella del capitale, e certamente alle istituzioni culturali della città.

La Falchera è un altro luogo simbolico di Torino: l’estrema periferia nord della città, un’area rurale urbanizzata in fretta e furia dopo la seconda guerra mondiale dal programma Ina-Casa e poi ancora negli anni Settanta per dare abitazioni agli operai che accorrevano da tutta Italia per lavorare alla Fiat. Un quartiere divenuto in fretta sinonimo di periferia estrema, di immigrazione, di emarginazione e di criminalità. Un luogo senza un ordine apparente, eppure proprio per questo con un’identità nota an- che ai tanti che non vi hanno mai messo piede. «Le poche vie di accesso alla Falchera sono come porte di un borgo fortificato. […] Tuttavia, non bisogna immaginare dei centri concentrici: La Falchera, al-

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meno nella parte più recente, non ha centro, è labirintica e il disegno delle sue strade, più che a un progetto, sembra obbedire ai capricci di un bambino con la matita in mano» (Perissinotto, 2013, p. 57). Qui si è svolta l’infanzia dimenticata del protagonista, il Guido/Ernesto che dopo la morte dei genitori venne adottato da una famiglia borghese, da un “quadro” della Fiat, fino al giorno in cui scopre la propria storia.

«Via degli ulivi, via degli abeti, via delle Querce. Chi decide la toponomastica delle metropoli ha spesso il dono dell’ironia, o del sarcasmo: a Torino, la dolcezza di quei nomi d’albero era stata riserva- to al quartiere più degradato: la Falchera appunto, una cittadella di case popolari dove né alberi né ulivi né tantomeno le querce avrebbero mai voluto mettere radici» (Perissinotto, 2013, p. 21). Non è una descrizione decorativa: serve per portare il lettore all’origine del quartiere, alla provenienza dei suoi abitanti e alla sua relazione con la “fabbrica”: «Nata negli anni Sessanta come quartiere isola im- merso nella campagna suburbana, la Falchera aveva ospitato lo smarrimento e la rabbia dei meridio- nali risucchiati a Torino dal vortice della Grande Fabbrica, della madre matrigna». Un senso del luogo che distingue geograficamente la città anche dal punto di vista sociale e culturale. «Guido non solo non ci era cresciuto, ma neppure vi aveva messo piede» (Perissinotto, 2013, p. 21).

A Torino è il lavoro, lo sviluppo industriale, ad aver dato il senso del luogo ai quartieri e a distin- guere certi e periferie. «Quella era una zona che i torinesi ancora memori di cinte e di caselli daziari definiscono «di barriera». Come ogni città Torino ha il suo lessico, fatto di termini con cui il dizionario della lingua italiana assegna significati diversi da quelli che assumono qui: «barriera» è uno di questi. «Sei cresciuto in barriera», mi dicono i vecchi. Io annuisco e so che non significa solo aver passato l’infanzia in periferia, significa aver condiviso leggi e stili di vita di un proletariato che ho visto scom- parire. […] Non basta essere nato in Barriera di Milano, o in borgo san paolo, o a madonna di campa- gna per essere barrierante. Ci vogliono domeniche pomeriggio passate nei cinema che la pagina degli spettacoli, dopo aver terminato le «seconde visioni», elenca alla voce «altre visioni». Ci vogliono in- terminabili partite a calcio giocate su terreni abbandonati che attendono di diventare cantieri. Ci vuole un supremo disprezzo per i «quartieri bene». Barrierante non è un’etichetta, è un tatuaggio che ti porti sulla pelle per tutta la vita» (Perssinotto, 2013, pp. 83-84).