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CAPITOLO 4 – STRUMENTI A SOSTEGNO DI UNO SVILUPPO ECONOMICO

4.2 Il commercio equo e solidale

All’interno del documento presidenziale della Banca Mondiale sulle direttive operative del 1992 viene esplicitamente espresso il principale obiettivo inerente “la riduzione sostenibile della povertà. È il metro di paragone con cui misurare i risultati delle istituzioni internazionali di cooperazione allo sviluppo”. Uno strumento utile per raggiungere quest’obiettivo, anche a livello di cooperazione internazionale consiste nell’introduzione dei prodotti all’interno di un commercio equo e solidale.

Con commercio equo e solidale, o semplicemente commercio equo (Fair Trade) si intende quella forma di attività commerciale, nella quale l’obiettivo primario non è soltanto la massimizzazione del profitto, ma anche la lotta allo sfruttamento e alla povertà legate a cause economiche, politiche e sociali. È una forma di commercio internazionale nella quale si cerca di far crescere aziende economicamente sane e di garantire ai produttori ed ai lavoratori dei paesi in via di sviluppo un trattamento economico e sociale equo e rispettoso. Grazie al commercio equo e solidale, le cui clausole sono elencate all’interno di un manifesto2, si instaura una relazione tra i produttori del “Sud del mondo” e i consumatori finali del Nord. Questa politica si contrappone alle pratiche di commercio basate sullo sfruttamento dalle aziende multinazionali con le quali risulta praticamente impossibile confrontarsi se non facendo riferimento ad elementi di differenziazione come il biologico e il solidale.

Il concetto alla base del Fair Trade è di promuovere l’uguaglianza sociale, la protezione dell’ambiente e la sicurezza economica attraverso il commercio e

2 “Carta italiana dei criteri del commercio equo e solidale”: è il documento che definisce i valori e i princìpi condivisi da tutte le organizzazioni di Commercio Equo e Solidale italiane. La Carta è approvata nel 1999.

106 campagne di sensibilizzazione sull’argomento, attenendosi ai criteri per le organizzazioni che entrano a far parte del FTO (Fair Trade Organization) delineati dall’Associazione Internazionale del Fair Trade (IFAT):

1. Creazione di opportunità per produttori economicamente svantaggiati perché riescono ad uscire dalla propria posizione di vulnerabilità;

2. Trasparenza e responsabilità nei confronti dei partner commerciali; 3. Sviluppo delle capacità e formazione;

4. Promozione del commercio equo e solidale al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica;

5. Prezzo equo e prefinanziamento ove necessario;

6. Pari opportunità per escludere qualunque tipo di discriminazione; 7. Diritti dei lavoratori;

8. Diritti dei bambini; 9. Rispetto per l’ambiente;

10. Relazioni commerciali con regole ben definite nell’Annual General Meeting di Parigi del 2006.

L’opportunità di inserire i prodotti all’interno di questo circuito, permette di portare denaro nel “Sud del mondo”, creando in questo modo flussi economici per i paesi in via i sviluppo. L’obiettivo di fondo è quello di sensibilizzare i consumatori, che sono coloro che detengono un forte potere d’acquisto. Bisogna cercare di affiliare quella fetta di consumatori che conferiscono importanza al valore sociale del prodotto che acquistano, visto che dietro ci sono risorse naturali che sono state usate e persone che hanno lavorato.

L’introduzione dei prodotti del commercio equo e solidale all’interno della grande distribuzione organizzata (GDO) ha permesso da una parte una forte crescita delle vendite e dall’altra però si è persa la possibilità di comunicare al consumatore il valore intrinseco di un bene. In Italia la maggior parte del fatturato viene realizzato nelle Botteghe e non nella grande distribuzione. Per quanto la vendita negli ultimi anni, dei prodotti certificati Fair Trade è in continuo aumento, questo rimane comunque sempre un mercato di nicchia. Per questo motivo ci si chiede se

107 effettivamente, il commercio equo e solidale, sia una soluzione economicamente sostenibile. A tal proposito risulta utile riportare uno studio effettuato da parte del professore Rinaldi dell’Università di Firenze riguardo la sostenibilità economica di Ctm – Altromercato, considerata una delle maggiori realtà italiane per il commercio equo e solidale. Si riportano di seguito le conclusioni dello studio:

- senza l’apporto del volontariato le botteghe del mondo non sono attualmente sostenibili, il loro volontariato a volte non si può programmare creando talvolta disagi;

- le conflittualità interne legate, ad esempio, a disfunzioni di fornitura costituiscono la principale minaccia alla sostenibilità;

- il sottodimensionamento costituisce il principale vincolo allo sviluppo; - la vitalità del sistema è comunque, per adesso, superiore alla conflittualità

tra le sue parti, con un fortissimo senso di appartenenza alla rete;

- il successo del consorzio dipende dalla capacità di coinvolgimento della base sociale nelle scelte strategiche.

Una delle difficoltà che crea uno svantaggio peculiare del commercio equo e solidale è lo sviluppo dei paesi del “Sud del mondo” totalmente dipendente dagli acquisti che di questi prodotti vengono fatti nei paesi del Nord. Questo, oltre ad essere pericoloso, è anche una teoria di volersi attenere ai principi assolutamente paralleli a quelli dell’economia capitalista, con il rischio di incorrere nei problemi della stessa teoria economica. Oltre a questo, bisogna tenere in considerazione altri due punti per niente in linea con i principi dell’economia “altra”: da una parte l’impatto ambientale legato al trasporto della merce, da una parte all’altra del mondo, e dall’altra parte per il successo della sfida dello sviluppo che punta sul consumismo della popolazione dei paesi ricchi o sulla carità. In quest’ottica si tratta quindi di una soluzione a breve termine che ha come compito quello di riuscire a portare risorse laddove ce n’è bisogno, ma non può sicuramente sperare di risolvere le disuguaglianze , tra Sud e Nord, attualmente presenti.

Il commercio equo e solidale deve essere visto come una soluzione nel lungo periodo. A tal proposito è utile riportare ciò che sostiene il professore Bonaiuti

108 dell’Università di Bologna in un suo articolo dove sostiene: “che le tipologie di mercato più adeguate a favorire lo sviluppo di forme di economia autonoma e solidale non sono né quelle in cui la concorrenza è spinta verso un massimo (concorrenza perfetta), né quelle in cui, al contrario, si realizzano le forti concentrazioni oligopolistiche”. Per raggiungere una situazione di concorrenza moderata o di posizione il prodotto deve basarsi su una differenziazione data dal suo essere “solidale”, o creando, come già sta avvenendo, delle reti di cui facciano parte sia consumatori che produttori che si impegnano a rispettare i principi di equità e sostenibilità ecologica che stanno alla base dell’economia solidale. Con queste reti, ma soprattutto con i più strutturati distretti si cercano ci creare nuovi spazi per un economia diversa.

4.2.1 Distretti di economia solidale

I distretti di economia solidale sono “laboratori pilota” locali in cui si sperimentano forme di collaborazione e di sinergia per un modello economico che pratica modalità opposte a quello dominante e presentato come unico possibile sulla base di:

- Economia equa e socialmente sostenibile: i soggetti che appartengono ai Distretti si impegnano ad agire in base a regole di giustizia e rispetto delle persone; in modo equo nella distribuzione dei proventi delle attività economiche; con criteri trasparenti nella definizione dei prezzi da attribuire a merci e servizi.

- Sostenibilità ecologica: i soggetti aderenti ai Distretti si impegnano a praticare un’economia rispettosa dell’ambiente (sia nell’uso di energia e materie prime, sia nella produzione di rifiuti) e il più possibile contenuta nell’impatto ambientale.

- Valorizzazione della dimensione locale, il che significa dare priorità alla produzione e al consumo delle risorse del territorio, sia in termini di materie

109 prime ed energia, che di conoscenze, relazioni e partecipazione a progetti locali.

- Partecipazione attiva e democratica: i soggetti nel definire concretamente come gestire i processi economici e le relazioni al proprio interno e con gli altri soggetti del proprio territorio, fanno riferimento a metodi partecipativi. Possono far parte dei Distretti: le imprese dell’economia solidale e le loro reti/associazioni; i consumatori dei prodotti e servizi dell’economia solidale e le loro reti/associazioni; i risparmiatori-finanziatori delle imprese e delle iniziative dell’economia solidale e le loro reti/associazioni; i lavoratori dell’economia solidale; gli enti locali che intendono favorire sul proprio territorio la nascita e lo sviluppo di esperienze di economia solidale e infine le associazione o i centri che si occupano del tema. Gli obiettivi principali proposti ai vari soggetti che faranno parte dei Distretti consistono nel:

- Utilizzare prioritariamente beni e servizi forniti da altri membri del Distretto stesso;

- Investire preferibilmente gli utili nelle imprese che fanno parte del Distretto; - Promuovere e diffondere in modo sinergico la cultura dell’economia

solidale.

Questo non esclude ovviamente la possibilità di collegasi, a livello nazionale o internazionale con altre realtà che svolgono attività analoghe. Questi “laboratori pilota” permettono di rafforzare e sviluppare le realtà di economia solidale attraverso la creazione di circuiti economici, in cui le diverse realtà si sostengono a vicenda creando spazi di mercato finalizzato al benessere di tutti. Oltre all’autosostentamento i produttori hanno bisogno di altri strumenti per accedere ad un mercato e per combattere l’emarginazione economica. Nei paragrafi successivi sono trattati due strumenti utili che permettono la creazione di un patrimonio personale e il successivo rafforzamento delle realtà locali.

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