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Il metodo ufficialmente riconosciuto a livello Europeo per l’identificazione di specie nel comparto ittico si basa sull’identificazione morfologica macroscopica dei prodotti attraverso l’applicazione di chiavi dicotomiche proposte dalla FAO, raccolte in cataloghi e monografie specifiche. (http://www.fao.org/fishery/org/fishfinder/3,3/en).

Le chiavi morfologiche identificative sono rappresentate da parametri di tipo morfometrico (caratteri misurabili come i vari rapporti tra parti del corpo) e meristico (caratteri che possono essere contati e identificati da grandezze finite), oltre che qualitativo o alternativo (presenza/assenza di bargigli orali, di scaglie, di denti, di pinna adiposa) analizzati in modo concatenato fino all’identificazione specie-specifica. Alla luce di ciò, l’utilizzo di tale metodica risulta generalmente inapplicabile per l’identificazione di prodotti sezionati, filettati e trasformati a causa della perdita dei caratteri essenziali per il riconoscimento dell’esemplare d’origine (Galimberti et al., 2013).

A fronte di questi limiti di tipo morfologico, esistono diverse tecniche di laboratorio basate su un approccio di tipo molecolare per l’analisi della composizione lipidica, delle proteine e sugli acidi nucleici.

Per quanto riguarda lo studio dei lipidi e degli acidi grassi, le analisi finalizzate al riconoscimento di specie sono state indirizzate all’individuazione di “profili lipidici” specie- specifici. Nelle specie ittiche infatti, sono presenti circa 20 differenti tipi di acidi grassi e dalla loro presenza e/o concentrazione è possibile stabilire la specie di appartenenza. Tuttavia, il profilo lipidico specie-specifico, pur essendo geneticamente determinato (Kwetegyeka et al. 2008), può essere significativamente influenzato da fattori di tipo ambientale quali area di distribuzione geografica, alimentazione, temperatura e salinità dell’acqua (Grahl-Nielsen, 2005). Di conseguenza, tale tecnica analitica è applicabile quasi esclusivamente in quei prodotti che provengono dalla stessa area geografica in maniera tale che l’ambiente non abbia in alcun modo potuto incidere sul loro profilo lipidico.

Per l’analisi delle proteine, negli anni, sono state sviluppate metodiche di tipo elettroforetico, cromatografico ed immunologico finalizzate l’identificazione di profili proteici e amminoacidici caratteristici (Civera, 2003). Le tecniche elettroforetiche sfruttano la capacità delle proteine di migrare in un mezzo quando sono immerse in un campo elettrico: lo

43 spostamento che si viene a generare è strettamente legato alle proprietà chimico fisiche della proteina (Griffiths et al., 2000) e, spesso, è sufficiente la variazione di singoli amminoacidi per cambiare il tracciato elettroforetico della proteina permettendo di rilevare eventuali polimorfismi genetici in grado di differenziare soggetti appartenenti a specie diverse (Rehbein, 2003). Questo approccio è, probabilmente, il più conosciuto e applicato nel controllo del settore ittico e prevede l’utilizzo di tecniche differenti in funzione del prodotto oggetto d’analisi (fresco congelato, affumicato o sottoposto a trattamenti al calore) (Civera, 2003). Ai fini dell’identificazione di specie, sono state sviluppate tecniche elettroforetiche monodimensionali in SDS-PAGE (Sodium Dodecyl sulfate-Polyacrylamide Gel Electrophoresis) (Chen & Hwang, 2002; Etienne et al., 2001) e tecniche di Isoelettrofocalizzazione (IEF), sia in condizioni native che denaturanti (Hisieh et al., 1997; Rehbein, 1999; Etienne et al., 1999, Etienne et al., 2001; Mackie et al., 2000, Ortea et al., 2010). È possibile, infine, unire le due tecniche per l’ottenimento di una separazione bidimensionale delle proteine sarcoplasmatiche. Il processo prevede due fasi distinte, ognuna delle quali sfrutta delle proprietà caratteristiche della proteina per ottenere la separazione. La separazione relativa alla prima dimensione è eseguita in modalità di focalizzazione isoelettrica (IEF), per cui le proteine sono differenziate grazie ad un gradiente di pH e ad un campo elettrico opportuno, in base al valore del loro punto isoelettrico; la seconda dimensione, invece, separa le proteine in base al loro peso molecolare, ovvero utilizzando un SDS-PAGE. Questa serie di separazioni ortogonali è in grado di differenziare in un unico esperimento le centinaia di proteine contenute in una miscela complessa, per fornire come risultato un’immagine a due dimensioni (Westermerie & Marouga, 2005; Ong & Pandey, 2001).

Negli Stati Uniti, l’Isoelettrofocalizzazione (IEF) è stata riconosciuta, a partire dal 1995, dalla Food & Drug Amministration (FDA) come metodo di identificazione ufficiale delle specie ittiche (AOAC Official Methods of Analysis (1995), AOAC Official Method 980.16: "Identification of Fish Species - Thin Layer Polyacrylamide Gel Isoelectric Focusing Method”). La tecnica di Isoelettrofocalizzazione (IEF) consente di determinare la specie di appartenenza attraverso la separazione e la caratterizzazione delle proteine sarcoplasmatiche del tessuto muscolare in funzione del loro punto isoelettrico (pI) in un gradiente di pH. L’identificazione di specie si realizza comparando il profilo proteico dei campioni in analisi con pattern ottenuti da esemplari identificati estratti alle stesse condizioni analitiche (Mackie et al., 2000, Tepedino et al., 2001; Chen & Hwang, 2003). Seppur utilizzabile sia su prodotto fresco che congelato, in

44 condizioni native, la metodica perde di efficienza e riproducibilità in presenza di prodotti cotti e conservati a causa dell’effetto denaturante di temperatura, pressione e fattori chimici, quali l’abbassamento del pH, che determinano a loro volta la perdita della conformazione delle proteine (Akasaki et al., 2006, Handy et al., 2011). Altri limiti nell’applicazione dell’IEF sono date dall’omologia delle proteine in specie filogeneticamente correlate e dall’elevato polimorfismo di alcune proteine frequentemente osservato in alcune specie (Rehbein et al., 2003; Applewhite & Bennet 2008). Approcci alternativi prevedono l’utilizzo di tecniche cromatografiche in HPLC (High Pressure Liquide Chromatography) e di test immunologici di tipo ELISA (Civera, 2003; Teletchea, 2009). I test immunologici, in particolare, sono stati proposti per la discriminazione di prodotti di elevato pregio commerciale quali salmone e trota, platessa e sogliola, cernia (Carrera et al., 1996, Cespedes et al., 1999, Asensio et al., 2003). I due limiti maggiori nell’individuazione di metodiche ELISA standardizzabili sono rappresentati dalla difficoltà nel selezionare anticorpi ad elevato grado di specificità tra epitopi di specie affini e dalla termostabilità dei determinanti antigenici, che limitano l’applicabilità di tali metodiche all’analisi dei soli prodotti freschi (Asensio et al., 2008).

Attualmente la maggior parte delle metodiche sono, invece, basate sull’analisi degli acidi nucleici (DNA) e, quest’ultima, è ad oggi considerata la tecnica d’elezione per l’identificazione di specie in ambito ispettivo.

Si tratta di metodiche analitiche con diversi vantaggi:

- Sono flessibili, rapide ed economicamente convenienti, in quanto permettono l’identificazione di un numero potenzialmente enorme di diverse specie e prodotti; - Il DNA, a differenza delle proteine, è molto resistente a fattori fisico-chimici di varia

natura, come temperatura, pH e variazioni di pressione: sulla base di ciò, l’analisi del DNA può essere applicata ai prodotti alimentari trasformati, poiché i processi produttivi e i trattamenti non alterano completamente la struttura della sequenza nucleotidica che si vuole esaminare (Rasmussen & Morrissey, 2008; Teletchea, 2009; Galimberti et al., 2013).

- Inoltre, fornisce una quantità maggiore di informazioni rispetto alle proteine, in relazione alla degenerazione del codice genetico e alla possibilità di analizzare anche regioni non codificanti (Hanner et al., 2005; Pereira et al., 2008; Teletchea, 2009; Galimberti et al. 2013);

45 - Le molecole di DNA sono isolabili da tutti i tessuti e fluidi biologici contenenti cellule, cosicché l’analisi può essere condotta su qualsiasi tipo di substrato (Teletchea, 2009; Galimberti et al. 2013);

- Il profilo genetico non si modifica nell’arco della vita e non cambia nei tessuti, permettendo la raccolta di campioni in qualsiasi fase della filiera ittica, da tessuti semplici a matrici complesse (Teletchea, 2009; Galimberti et al. 2013);

- Inoltre, piccole modificazioni possono essere riconosciute negli approcci di sequenziamento e i protocolli di reazioni a catena della polimerasi (PCR) e di amplificazione permettono l’analisi a partire da piccole quantità di tessuto. 5.1 Elementi essenziali della tecnica di Polymerase Chain Reaction (PCR) La tecnica di Polymerase Chain Reaction (PCR) è stata ideata negli anni ’80 da Kary Mullis e colleghi ed ha portato ad una vera e propria svolta nel campo della biologia molecolare permettendo l’ottenimento di milioni di molecole identiche di DNA attraverso una reazione di sintesi a catena. La reazione è mediata da una DNA polimerasi che permette l’amplificazione di una specifica sequenza dell’acido nucleico a partire da molecole di DNA isolate da qualsiasi matrice tissutale.

La reazione ha inizio in corrispondenza di sequenze oligonucleotidiche di innesco (primer) dalle quali ha inizio la reazione di neosintesi della catena ad opera della polimerasi.

Questa tecnica si basa sull’utilizzo di un enzima, la Taq DNA Polimerasi, in grado di catalizzare la reazione di amplificazione in vitro di una particolare sequenza nucleotidica anche in presenza di una minima quantità di DNA stampo. La Taq DNA polimerasi è capace di resistere a temperature molto elevate (97°C) ed è in grado di funzionare fino a temperature di 65°C (Innis et al., 1988). Oltre alla Taq DNA Polimerasi, altri componenti essenziali per la PCR sono: - una coppia di oligonucleotidi sintetici (primers) che hanno il compito di iniziare la

sintesi di DNA;

- Desossiribonucleotidi trifosfati (dNTP) utilizzati per sintetizzare il nuovo filamento di DNA;

- Lo ione Magnesio (Mg2+) che influenza l’attività dell’enzima, aumentando la temperatura di denaturazione del DNA bersaglio, condiziona l’attacco dei "primer"

46 stabilizzando l’ibrido molecolare e forma complessi solubili con i dNTPs che sono i veri substrati riconosciuti dalla DNA polimerasi (Steffan & Atlas, 1991); - Una soluzione tampone (Buffer) per mantenere la DNA Polimerasi in condizioni stabili (pH 8-9 a seconda del tipo di Taq) che altrimenti precipiterebbe in soluzione acquosa (Innis et al., 2012).

La reazione di amplificazione prevede tre fasi, ognuna caratterizzata da una temperatura differente, ripetute per 30-45 cicli:

1) Denaturazione (separazione): il ds-DNA bersaglio (DNA a doppia catena) viene denaturato alla temperatura di circa 95°C e viene convertito in DNA a singola catena. 2) Riconoscimento e Appaiamento (annealing): i primers oligonucleotidici

complementari alle due estremità 3’ della sequenza da amplificare si uniscono con i due filamenti denaturati a una temperatura più bassa (50-60°C); la loro sequenza è orientata in modo da poter guidare la polimerizzazione del DNA (in senso 5’ à 3’) nel tratto compreso tra le due regioni a cui essi si associano.

3) Estensione: i primers oligonucleotidici, in presenza dei deossinucleotidi trifosfati e della Taq polimerasi, vengono estesi ognuno in direzione dell’altro su due diverse catene complementari, portando così alla sintesi di due molecole di ds-DNA copie della regione bersaglio (Innis et al., 2012). L’estensione viene fatta a una temperatura di 72°C.

La reazione di PCR può essere effettuata individuando primers specie-specifici oppure primers universali.

I primers specie-specifici sono progettati in zone ad elevato polimorfismo, in modo da garantire l’appaiamento solo al target di DNA selezionato in una data specie o genere (Lockley & Bardsley, 2000). Le coppie possono essere utilizzate in reazioni di PCR separate (PCR

simplex) o in un’unica reazione contenente due o più coppie di primer (PCR multiplex).

I primers universali, invece, sono progettati in zone conservate tra gruppi di specie anche filogeneticamente distanti, a monte e a valle di un frammento altamente variabile (Carrera et al., 2000). Queste tipologie di oligonucleotidi sono spesso progettati in forma degenerata, in cui la sequenza non è determinata in modo univoco. Una sequenza di primer è detta “degenerata” se alcune delle sue posizioni hanno diverse basi possibili. La degenerazione del

47 probabilità di annealing del primer stesso (Linhart et al., 2005). I primers universali generalmente sono abbinati a tecniche di sequenziamento dei prodotti di PCR.

Dopo la reazione di amplificazione fa seguito il sequenziamento del prodotto di PCR che permette di ottenere l’ordine in cui sono disposti i nucleotidi in un preciso tratto del genoma. La reazione di sequenziamento ad oggi più frequentemente utilizzata è quella basata sul metodo di Sanger del 1977, nel quale è prevista un’ulteriore amplificazione del frammento d’interesse con quella che viene definita “PCR di sequenziamento”. Questa differisce da una PCR classica in quanto vengono utilizzati dei dideossinucleotidi marcati (ddNTP) con quattro fluorocromi differenti. L’incorporazione di tali ddNTPs interrompe l’azione della polimerasi, portando alla formazione di una molecola di DNA fluorescente che, con la lettura attraverso un fascio laser dei prodotti di amplificazione, produrrà dei picchi di differente lunghezza d’onda per ogni associazione dideossinucleotide-fluorocromo. L’altezza di un picco dipende dall’intensità con cui un gruppo di molecole risponde all’eccitazione laser. La successiva lettura di questi picchi permette di risalire all’esatta disposizione dei nucleotidi sulla sequenza. 5.2 Utilizzo della reazione di PCR per l’identificazione di specie Le tecniche di PCR finalizzate all’identificazione di specie sono state sviluppate sia su DNA mitocondriale (mtDNA) che su DNA nucleare (nDNA) (Martinez et al., 2005; Rasmussen & Morrissey, 2008; Rehbein, 2013).

Il DNA mitocondriale è quello più frequentemente utilizzato in virtù di caratteristiche tra cui: - minori dimensioni e in numero molto più elevato rispetto al DNA nucleare per la presenza di un numero elevato di mitocondri all’interno di ciascuna cellula (Ames et al., 2004);

- la trasmissione uniparentale (materna), tranne qualche eccezione di eredità paterna o biparentale (Cann et al., 1992; Rehbein, 2013);

- un elevato tasso di mutazione (5-10 volte maggiore rispetto al DNA nucleare) (Rasmussen & Morrissey, 2008) che determina l’elevata variabilità, ovvero un numero maggiore di polimorfismi a livello interspecifico e che, di conseguenza, facilita la discriminazione anche fra specie molto vicine (Cespedes et al., 1999; Wolf et al., 2000; Rasmussen Hellberg et al., 2011);

48 - la struttura circolare che determina una maggiore resistenza agli effetti degradativi legate all’applicazione di elevate temperature e/o pressioni, rendendo l’analisi applicabile anche in presenza di alimenti trasformati o cotti (Folmer et al., 1994; Rasmussen & Morrissey, 2008; Teletchea, 2009).

5.3 Target genici utilizzati per l’identificazione di specie

La scelta del target molecolare è influenzata da molteplici aspetti, quali la variabilità interspecifica del target e la disponibilità ed integrità delle molecole di DNA su cui viene effettuata l’analisi in funzione della matrice di partenza (Teletchea et al., 2005).

Le tecniche di analisi degli acidi nucleici per l’identificazione di specie sono basate sull’utilizzo di marcatori (markers) molecolari e sono, dunque, indirizzate ad individuare differenze dovute alla presenza di inserzioni, delezioni, traslocazioni, duplicazioni, mutazioni puntiformi (polimorfismi) nelle sequenze del genoma in regioni omologhe tra individui appartenenti a popolazioni, specie o generi diversi, al fine di classificarli (Avise, 2012).

I polimorfismi che consentono l’identificazione di specie possono essere ricercati nel DNA nucleare (nDNA) o mitocondriale (mtDNA). Nei prodotti della pesca, il mtDNA è quello maggiormente oggetto di analisi e i geni mitocondriali maggiormente utilizzati nell’identificazione di specie sono quelli che codificano per le subunità dell’RNA ribosomiale (12srRNA-16srRNA), per le 3 subunità della Citocromo Ossidasi (in particolare per la Citocromo Ossidasi I- COI) e per il Citocromo b (cyt b) (Armani et al., 2012a).

Tra questi, il COI è quello riconosciuto dalla maggior parte degli autori come gene target negli studi filogenetici, in quanto dotato di un potere discriminante maggiore rispetto agli altri (Hebert et al., 2003). Oltre ad avere una sequenza lunga e un terminale catalitico conservato in tutti gli organismi aerobi, il COI è formato da un’alternanza di regioni molto conservate e regioni molto variabili che hanno permesso di disegnare primers universali utilizzabili per studi evoluzionistici, diagnostici e tassonomici (Folmer et al., 1994). Il gene COI si è dimostrato così un gene universale e affidabile per l’identificazione di varie specie di pesci sia marini (Ward et al., 2005) che d’acqua dolce (Steinke et al., 2005; Ward et al., 2005), come i pesci piatti (Terol et al., 2002; Espineira et al., 2008), tonni (Terol et al., 2002; Lowenstein et al., 2010), acciughe

49 (Jerome et al., 2008), sgombri (Paine et al., 2007), squali (Barbuto et al., 2010), pesci gatto (Carvalho et al., 2011) e sardine (Grant & Bowen, 1998; Jérome et al., 2003). Un altro gene ampiamente utilizzato nell’identificazione delle specie ittiche è il Citocromo b (Cytb), che ha mostrato un potere discriminante interspecifico paragonabile a quella del COI (Armani et al., 2011; Armani et al., 2012b). Sebbene venga utilizzato con minore frequenza rispetto ai markers sopracitati, è da ricordare anche il gene che codifica per la subunità 16S dell’RNA ribosomiale (16S rRNA), che presenta anch’esso un buon grado di conservazione e variabilità interspecifica (Armani et al., 2015c; Liu et al., 2011; Hebert et al., 2003) Infine, tra i geni nucleari utilizzati per l’identificazione di specie si citano:

- il PEPCK, codificante per l’enzima Fosfoenol-piruvato-carbossichinasi, che è stato utilizzato con successo in numerosi studi filogenetici sui crostacei (Tsang et al., 2008; Ma et al., 2009); - i geni codificanti proteine strutturali come la Rodopsina (Sevilla et al., 2007) e la β- actina (Lee & Gye, 2001); - i geni codificanti per le subunità ribosomiali 5S-rRNA, 18S-rRNA, 5,8S rRNA e 28S rRNA (Martins & Galetti, 2001; Shivji et al., 2002; Hatanaka & Galetti, 2004; Clarke et al., 2006; Moran & Garcia-Vasquez, 2006; Rasmussen & Morrissey, 2008; Wang & Guo, 2008; Espineira et al., 2009; Mazón-Suástegui et al., 2016; Abbadi et al., 2017; Giusti et al., 2017).

Ai fini dell’identificazione di specie, negli anni sono state sviluppate numerose tecniche analitiche.

Fra le metodiche rapide, la PCR multiplex viene utilizzata per la discriminazione all’interno di un range prestabilito di specie. Questa tecnica consiste nell’utilizzo nella stessa reazione di amplificazione di diverse coppie di primers specie-specifiche. L’utilizzo in un’unica reazione di PCR di coppie di primers specifiche consente l’analisi simultanea e la determinazione della presenza/assenza di più specie attraverso la visualizzazione degli ampliconi d’interesse (Edwards & Gibbs, 1994). Il risultato può essere visualizzato al termine della reazione di PCR con l’allestimento di elettroforesi su gel d’agarosio o acrilammide o in tempo reale (Real-time PCR) attraverso l’utilizzo di sistemi di reagenti intercalanti fluorescenti o di sonde marcate con molecole fluorescenti associate ai primers (Rasmussen, 2008). Limitatamente alle specie individuate nella fase di setting del metodo, la PCR multiplex offre numerosi vantaggi in

50 termini di tempi e costi operativi e, negli anni, la tecnica è stata applicata con successo per l’allestimento di metodiche rapide per l’identificazione di filetti di cernia (Epinephelus e

Mycteroperca spp.) e specie comuni sostitutive (Trotta et al., 2005), Sgombridi (Lin & Hwang,

2008), rane pescatrici (Lophius spp.) (Castigliego et al., 2015). Studi più recenti sono quelli inerenti al rilevamento di specie tossiche come Ruvettus pretiosus e Lepydocybium

flavobrunneum al fine di evidenziare frodi sanitarie (Giusti et al., 2016), al rilevamento di

agenti patogeni dei pesci d’acquacoltura (Pinto et al., 2017) e all’identificazione di alcune specie di pesci tra cui i dentici (Veneza et al., 2017).

Parallelamente sono state sviluppate metodiche PCR-RFLP (Restriction Fragment Lenght

Polymorphism), in cui il frammento amplificato viene tagliato da endonucleasi in grado di

riconoscere specifici siti di restrizione, dando origine a frammenti di lunghezze caratteristiche per ogni specie. Numerosi studi sono stati rivolti all’individuazione di tecniche rapide per la discriminazione di specie del genere Lophius spp. (Espineira et al., 2008b; Armani et al., 2012b), per l’identificazione di tonno in scatola e tonno (Lin & Hwang, 2007; Xu et al., 2016), ed altri Sgombridi appartenenti al genere Rastrelliger (Muto et al., 2016). Le metodiche citate finora consentono esclusivamente di confermare o escludere la presenza delle specie incluse nello studio. Alternativamente, è necessario ricorrere a metodiche diverse che prevedano un approccio di tipo universale con l’utilizzo del sequenziamento e dell’analisi filogenetica dei prodotti di PCR: - FINS (Forensically Informative Nucleotide Sequencing); - DNA Barcoding. Le due metodiche sono descritte in modo specifico nei paragrafi seguenti. 5.3.1 Tecnica FINS (Forensically Informative Nucleotide Sequencing)

Forensically Informative Nucleotide Sequencing (FINS) è una tecnica analitica di post-

sequenziamento utilizzata per la prima volta da Bartlett e Davidson, nel 1992, per la discriminazione di 4 specie di tonno (Thunnus spp.). La tecnica prevede un’analisi preliminare di allineamento multiplo e l’applicazione di algoritmi specifici utilizzati per la costruzione di matrici d’identità e la successiva analisi delle distanze filogenetiche con sequenze di riferimento ottenute da esemplari morfologicamente identificati. Tutte le possibili sostituzioni

51 (mutazioni puntiformi, inserzioni o delezioni geniche) che insistono all’interno del target selezionato, evidenziate dall’allineamento preliminare, sono verificate attraverso l’applicazione di modelli matematici tra cui i più noti sono quelli descritti da Jukes & Cantor (1969), Kimura (1980), Tamura (1992). L’analisi delle distanze e la creazione dell’albero filogenetico possono essere effettuate attraverso l’applicazione di modelli di clustering che confrontano a coppie le sequenze inserite nell’allineamento fino ad esaurimento della popolazione campionaria. L’attendibilità dell’analisi filogenetica viene valutata attraverso l’applicazione di test di significatività statistica (bootstrapping) basati sul ricampionamento casuale delle sequenze all’interno della popolazione campionaria ed il calcolo delle frequenze di raggruppamento rispetto all’albero filogenetico reale (Van de Peer, 2009).

La metodica FINS è stata applicata con successo in studi sperimentali per l’identificazione di prodotti a base di sardina (Jerome et al., 2008; Lago et al., 2011), di specie di squalo (Blanco et al., 2008; Mendonça et al., 2010), di pesce spada (Herrero et al., 2011), di cefalopodi (Chapela et al., 2002, Espineira et al., 2010), di Gadidi (Calo Mata et al., 2003), di rane pescatrici (Espineira et al., 2008b), di razze (fam. Rajidae) di interesse commerciale (Lago et al., 2012); di Genypterus spp. (Santaclara et al., 2014), di prodotti etnici a base di medusa (Armani et al., 2013) e cibo in scatola per animali (Armani et al., 2015c). 5.3.2 DNA Barcoding

Il DNA Barcoding è una tecnica, realizzata da Paul D.N. Herbert nel 2003, che permette l'identificazione di specie attraverso l’amplificazione, il sequenziamento di un breve tratto di DNA (barcode) proveniente da un campione ignoto e la successiva comparazione della sequenza ottenuta a una banca dati preesistente (Hebert et al., 2003).

Il DNA Barcoding è una tecnica che si basa sull’uso di primers universali per amplificare una regione di circa 650pb (full DNA Barcoding) della sequenza genica del Citocromo Ossidasi I (COI) e, questo, rappresenta l’approccio più comunemente usato nel caso di prodotti non trasformati (Hebert et al., 2003; Savolainen et al., 2005). Questa regione di DNA, di solito, mostra una variazione maggiormente interspecifica piuttosto che intraspecifica, permettendo la discriminazione fra specie (Hajibabaei et al., 2007; Hebert et al. 2003).

52 In breve, una regione standard di 650pb viene sequenziata per ottenere il DNA barcode della specie in questione, che verrà poi confrontato con la sequenza del campione di riferimento in banca dati per ottenere, così, l’identificazione di specie. Ne deriva che, quindi, un elemento essenziale per il DNA barcoding è la costruzione di una biblioteca di consultazione pubblica contenente sequenze ottenute da esemplari di riferimento che possono essere usate per identificare le specie sconosciute.

Un ideale DNA Barcode dovrebbe possedere delle caratteristiche fondamentali per funzionare

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