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La comunicazione medico-paziente. Una storia antica e una prospettiva nuova

Nel documento Comunicare in sanità: (pagine 136-147)

L’INDAGINE DELLA RELAZIONE MEDICO-PAZIENTE È DA SEMPRE un tema scottante e allo stesso tempo affa-scinante in ambito medico-sanitario. La parola comunica-zione, che spesso sembra esserne sinonimo, è un termine opa-co e impreciso dal punto di vista semantiopa-co per definire un’area di interazione tra medico e paziente molto articolata e complessa e raccoglie sotto un’etichetta linguistica codificata, ma paradossalmente molto confusa e forse consunta, diversi approcci, studi e metodi di analisi.

È importante allora partire da alcune domande: quando l’at-tenzione alla dimensione di parola è rientrata al centro del dibattito sulla salute e a pieno titolo negli interessi della pratica medica? Questo interesse per il discorso medico e cli-nico è una acquisizione moderna, è un ambito di ricerca re-cente? Per fare il punto sulla “questione della lingua” in me-dicina la redazione Fnomceo ha voluto intervistare la pro-fessoressa Raffaella Scarpa – docente di Linguistica medica

INTERVISTA A RAFFAELLA SCARPA,

DOCENTE DI LINGUISTICA MEDICA E CLINICA

La comunicazione medico-paziente.

Una storia antica e una prospettiva nuova

e clinica presso l’Università degli Studi di Torino e Presidente del Gruppo di Ricerca “Remedia - lingua medicina malattia”, primo gruppo di ricerca in Italia che studia il rapporto tra lingua, medicina e malattia dal punto di vista linguistico ma con una prospettiva applicativa.

Professoressa Scarpa, quale importanza ha rivestito la co-municazione medico/paziente nella storia? Siamo sicuri che sia corretto parlare di “comunicazione”?

Quando accade – e accade spesso – sentir parlare di “relazione medico/paziente” come un tema nuovo e à la page credo che a molti venga da sorridere. Infatti la relazione clinica tra ope-ratore e assistito mediata dal linguaggio è da sempre il pre-supposto che fonda l’operato del medico, sin dai tempi di Ippocrate (che non a caso rimarcava l’importanza della parola a partire dal processo di anamnesi).

Si potrebbe ricostruire analiticamente una storia della cosid-detta “comunicazione medico-paziente” vedendola cambiare con il mutare dei paradigmi della scienza medica, ma ci pren-derebbe troppo tempo. Ciò che forse vale la pena ricordare è che il processo di tendenziale spersonalizzazione dell’assistito non è una deriva del presunto riduzionismo medico attuale, ma nasce molto prima, tra 1600 e 1700 con la nascita della medicina d’osservazione e “delle diagnosi fondate nelle ana-tomie de’ cadaveri morbosi”, come scrisse Giovanni Battista Morgagni che dell’anatomia patologica fu il padre fondatore. A cavallo di questi due secoli infatti il corpo del malato iniziò a essere interpretato come un oggetto che poteva essere curato a patto che lo si osservasse analiticamente e lo si decriptasse (tanto che le dissezioni dei cadaveri servivano non solo a identificare le cause di morte ma, insieme, a ricostruire ex

post la fenomenologia della malattia).

È quindi con l’oggettualizzazione del corpo sofferente a fini di indagine che si inizia a de-umanizzare progressivamente il



malato, ed ecco che è la parola, il discorso il solo correttivo possibile per questo processo: non è un caso che tra la seconda metà del XVIII e l’inizio del XIX secolo vengano compilati glossari e galatei su quali termini usare per essere compresi, su come parlare ai pazienti per stabilire così una relazione umana fondata nella fiducia, secondo il monito di Francesco Redi, medico e letterato, che esortava i colleghi a farsi capire, a evitare i tecnicismi estremi, a “non usare parole da far spiritare i cani”. Come vede, da sempre la relazione tra medico e assistito è stata concepita in termini linguistici, e il linguaggio è stato da sempre interpretato come lo strumento primario grazie al quale è possibile realizzare il cosiddetto processo di “umaniz-zazione della cura”. Se in questi anni si è tanto parlato di “co-municazione” è perché ogni epoca ha il proprio paradigma, la propria moda, il proprio termine passe partout e il proprio tormentone, e la nostra è stata (e già non lo è più così tanto) l’epoca delle scienze della comunicazione. Sostengo da un bel po’ di tempo che questa edulcorazione del concetto di

lin-guaggio in quello di comunicazione (una categoria che rischia

di svuotarsi di significato per eccesso di espansione) non ha dato, in ambito medico, gli esiti sperati. Infatti, a mio parere, è per tale indebita sovrapposizione che occorre rimarcare quella che è invece una evidenza palmare: la comunicazione tra ope-ratore e paziente è mediata innanzitutto dalla lingua, e con ciò intendo non soltanto le parole, ma anche e soprattutto dal timbro, dal ritmo, dall’intonazione, dalla morfologia, dalla sintassi, dall’argomentazione, dalla retorica del discorso.

Quando il medico ha sentito la necessità di rivolgere il suo discorso tanto all’assistito quanto alla comunità scientifica? E il linguaggio delle istituzioni sanitarie, dei media può influire sulle dinamiche del discorso clinico e terapeutico?

Direi che da sempre quella del medico è una figura scissa, che le sue modalità di espressione sono, anzi devono essere,

molteplici; credo che non ci sia mestiere che abbia così bi-sogno di una appropriazione e modulazione dell’arte del di-scorso come le professioni che si svolgono in ambito sanitario. La necessità di avere due lingue, quella da usare nel discorso tra addetti ai lavori e quella da usare con i pazienti è stata sentita da sempre in medicina. Anche in questo caso la storia ci aiuta a comprendere: parlare alla comunità scientifica è stato, dall’origine della scienza medica, relativamente semplice: l’uso del latino come lingua scientifica universale (sostituito ora in buona misura dall’inglese) ha fondato un gergo tecnico da iniziati che ha da sempre reso la comunicazione tra addetti ai lavori una prassi via via sempre più consolidata (va notato che oggi, mi dicevano alcuni colleghi medici, la situazione sta cambiando in senso peggiorativo: l’eccesso di specializ-zazione sta creando dei sottocodici specifici a causa dei quali la comprensione tra operatori si è notevolmente complicata). Il problema linguistico si è posto dall’origine anche rispetto all’assistito, e rimane un nodo ad oggi irrisolto se è vero che l’abbandono del medico – e spesso delle cure – avviene nella maggior parte dei casi per incomprensioni o mancata sintonia di tipo linguistico-comunicativo. Gli elementi che contri-buiscono a rendere particolarmente complessa questo tipo di relazione sta nelle specifiche peculiarità della stessa: forte dislivello di ruolo e asimmetria con conseguente senso di al-terità e/o subalternità; la discrasia prodotta dall’incontro ‘for-zato’ tra due soggettività non sempre compatibili; scarsità dei tempi di scambio e di ascolto e difficoltà, per questo, nel costruire una storia clinica che sia realmente a due voci; com-plicazioni derivate dalla comunicazione di contenuti complessi e delicati come diagnosi, prognosi, rischio; uso di terminologia tecnica e problemi di registro linguistico; la parcellizzazione delle specialità spesso non integrate che restituiscono una storia clinica frammentata; la tecnologizzazione della medicina che ha consegnato alle macchine la funzione di sguardo

dico sul paziente e ancora si potrebbe continuare a lungo, evidenziando che, se la radice più antica e stabile della me-dicina sta nella relazione operatore-assistito, questa è certa-mente da annoverare tra le più complesse relazioni umane. Per quanto concerne invece l’influenza del linguaggio delle istituzioni sanitarie, dei media sulle dinamiche del discorso clinico e terapeutico, allo stato attuale credo sia impossibile misurarne l’effettivo influsso. È questa una direttrice della linguistica medica ancora pochissimo sviluppata il cui ap-profondimento andrebbe incoraggiato al pari e forse più d’al-tri, per le gigantesche implicazioni anche di carattere socio-antropologico. Infatti è soltanto con la comprensione dei meccanismi che stanno alla base dell’espressione linguistica in questi contesti che si può valutare come e perché quel par-ticolare uso del linguaggio produca quella specifica rappre-sentazione della malattia, perché generi quel particolare stigma o pregiudizio e chissà quanto altro ancora.

I pazienti hanno delle responsabilità sul piano della re-lazione o siamo ancora nell’asimmetria del paradigma biomedico che consegnava solo al professionista sanitario il potere della parola?

Un medico una volta mi disse: “I pazienti, se possono, men-tono” (la stessa frase che la moglie del filosofo Martin Hei-degger diceva riferendosi al marito). D’altro canto sappiamo anche che la narrazione del paziente durante la visita ha spesso un valore catartico, addirittura terapeutico, e che l’ambulatorio è molto spesso un luogo dove ‘si fa verità’ più che altrove. La presentazione di questi due atteggiamenti opposti – la men-zogna e la parola più vera del vero – vogliono evidenziare co-me, ad oggi, si sappia veramente molto poco rispetto alla po-sizione dell’assistito nella relazione di cura e pochissimo circa la forma del suo discorso. Tale discorso avrà invece certamente una sua tipicità, pur nella molteplicità delle differenze verbali,

caratteriali, psichiche poiché l’esperienza della malattia, qua-lunque essa sia, è tra le più stranianti della vita umana (lo scrittore Roberto Bolaño rappresenta l’esperienza della dia-gnosi con una immagine potente: quando ci quando ti dicono che sei malato è come se tu iniziassi a camminare sul soffitto mentre tutti continuano a camminare per terra).

Quattro sono le condizioni della malattia che, se interrogati, i pazienti considerano abnormi e spesso percepite come in-sostenibili: la perdita di controllo e la straordinaria restrizione della libertà decisionale; l’azzeramento del ruolo sociale e spesso anche familiare, il non essere niente altro se non malati; la posizione di dipendenza/soccombenza rispetto alle parole del medico che viene spesso sovradimensionato nel bene e nel male, in termini di mitizzazione o di conflitto; la perdita di abitudini, stili di vita, prospettive future per come si erano immaginate e di ogni aspetto della propria esistenza che si credeva acquisito e garantito, con una conseguente vera e propria perdita di identità. Basterebbero queste condizioni – ma altre se ne potrebbero elencare – a determinare quella che va considerata una reale rivoluzione cognitiva che non può che avere riverberi evidentissimi sulle modalità di espres-sione verbale, di autorappresentazione e interazione linguistica. Quando si parla di “comunicazione operatore-assistito” oc-corre dunque tenere conto che il processo linguistico della relazione è sempre a due o più voci.

Si parla ancora di Medical Humanities come se fosse una recente acquisizione. Secondo lei la comunicazione è un’ar-te o una un’ar-tecnica?

Né l’una né l’altra, credo invece che sia, sopra ogni cosa, un valore. Il linguaggio verbale non è soltanto ciò – lo si ripete sin troppe volte, e spesso con una certa insopportabile alterigia – che ci connota come specie. Io credo che vada inteso so-prattutto come il canale supremo che ci apre all’alterità e

l’umano. Radicalizzando: non investire sulla propria espres-sione linguistica e sull’ascolto di quella dell’altro significa, evidentemente, non investire sull’uomo e sulla vita, questo in medicina e ovunque. Visto che, a mio parere, la comuni-cazione non è né un’arte né una tecnica, ne consegue che non si possa imparare, o meglio che non esistano facili for-mulette che possano insegnare a parlarci davvero (per questa ragione penso che tutte le regole prêt-à-porter che talvolta sembrano ridurre la comunicazione operatore-assistito a una mera serie di precetti da applicare siano il frutto dell’insipienza, della superficialità o della malafede). Se non si possono im-parare attraverso una precettistica facilitata e sbrigativa, i principi della comunicazione linguistica in ambito sanitario possono però certamente essere acquisiti attraverso una

edu-cazione alla parola, un percorso formativo che dovrebbe essere

previsto nel corso degli studi universitari e poi proseguire se-condo lo spirito dell’Educazione Continua in Medicina. Sono persuasa che oggi il compito sia arduo (e per questo stimolante), perché mai come nella nostra epoca il valore at-tribuito alla relazione linguistica tra gli uomini è stato così povero, travisato, minimizzato. Il vocabolario d’uso quotidiano si riduce progressivamente, si parla per formule fisse e auto-matismi, aumentano le espressioni astratte o astrattizzanti (“effettuare” o “eseguire” invece di “fare”, “recarsi” invece di “andare” e così via), incrementando così la distanza tra le pa-role, le cose e le azioni, tra i nomi e gli oggetti a cui tali nomi si riferiscono; soprattutto si interpreta il linguaggio in maniera strumentale, come un mezzo per dare o ricevere informazioni, attribuendo alla lingua una funzione eminentemente comu-nicativa e dimenticandone quella primaria che è invece ge-nerativa, poiché il linguaggio serve, in prima istanza, a far accadere, a produrre effetti, a creare, come benissimo ha mo-strato il filosofo John L. Austin nel suo celebre libro del 1962

How to Do Things with Words. Le abitudini linguistiche in

cui siamo immersi vanno interpretate come un ulteriore osta-colo all’acquisizione di una parola davvero efficace, per questo ancora di più occorrerebbe investire sui percorsi formativi.

“Remedia” è un gruppo di ricerca linguistica nato nel 2013 nell’ambito del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino. È costituito per la maggior parte da linguisti che operano in una prospettiva di dialogo e collaborazione con altre discipline attraverso due direttrici principali: la lingua della medicina e le lingue della ma-lattia. Ci può spiegare meglio?

Certo, lo faccio a partire dalla sua storia. Il gruppo di lavoro e ricerca “Remedia – lingua medicina malattia” si costituisce nel 2013, come lei giustamente ha ricordato, ma nella mia testa nasce molti anni prima, intorno al 2001, e in un mo-mento preciso: quando ebbi la fortuna di leggere il taccuino (in realtà era una agenda usata come taccuino) di un giovane uomo autistico che, pur non parlando o parlando pochissimo e soltanto se sollecitato o interpellato, compilava a tratti com-pulsivamente lunghe liste di parole che corrispondevano a precise categorie oggettuali (liste di nomi propri, liste di tipi di macchine o di fiori, e così via) o morfologiche (elenchi di parole terminanti in –zione, in –oso, in –ato ecc.). A quei tempi ero molto lontana dalla linguistica clinica, mi occupavo esclusivamente di stilistica e metrica del testo poetico (ambito di ricerca che continuo a praticare poiché il ritmo costituisce, a mio parere, la matrice antropologica più profonda dell’uma-no ed è questo interesse per l’umadell’uma-no che fa da segnavia a tutti i miei lavori, tanto in ambito letterario quanto in ambito clinico), ma la lettura di quello scritto fu lancinante, scon-volgente. Vedevo con chiarezza come quell’agenda racchiu-desse tutta la verità di un uomo al quale altri canali espressivi erano preclusi e mi chiedevo come fosse possibile che i clinici ai quali erano stati sottoposti quegli scritti li avessero

derati poco significativi e lontani dal rappresentare una chiave di lettura che potesse aprire un varco nel mondo interno del-l’uomo che li aveva composti quotidianamente, con regolarità e nel tempo. “Remedia” nasce dunque dal sentore di un errore soprattutto della nostra epoca: il sottodimensionamento del-l’espressione linguistica come strumento di comprensione della malattia e del malato.

Il progetto di “Remedia” prese poi più corpo qualche anno dopo, grazie agli stimoli venuti dal lavoro di una mia allieva impegnata in una tesi sulla comunicazione medico-paziente in ambito oncologico e con la quale intraprendemmo poi uno studio sul linguaggio dell’acuzie psicotica (prova lampante del fatto – tengo a dirlo – che io devo ai miei allievi certa-mente più di quanto loro debbano a me). Da lì a poco sen-timmo l’esigenza, con il gruppo di lavoro che allora su questi temi si andava formando, di darci un nome, di fondarci ed “esistere come oggetto sociale”, direbbero i filosofi che si oc-cupano di ontologia.

Ad oggi “Remedia” (il cui nome rimanda al concetto di “far-maco” e di “cura”, ma che è anche l’anagramma sillabico del verbo “mediare”, sottolineando l’importanza, nel processo di conoscenza, del negoziato tra saperi diversi) si è specializzata in tre direttrici di lavoro: 1) la storia della lingua della medicina, che studia, in diacronia, principalmente la lingua dei testi medici – dai trattati antichi ai foglietti illustrativi e ai codici deontologici – dal punto di vista in primo luogo lessicale, ma anche fonologico, morfologico, sintattico, retorico, ar-gomentativo, testuale e che si colloca nell’ambito dell’analisi dei cosiddetti “linguaggi specialistici” o “lingue speciali” o “linguaggi settoriali”; 2) la linguistica medica, vicina e talvolta sovrapponibile alla storia della lingua della medicina, che analizza sincronicamente e con una spiccata propensione per lo studio della lingua parlata, modi e forme della comunica-zione tra operatore e paziente (comprendendo anche le terapie

coadiuvanti di parola, i colloqui terapeutici o informativi, il consenso informato, la comunicazione della diagnosi e della prognosi ecc.) e, più in generale, delle forme di comunicazione linguistica tra le realtà sanitarie (enti, istituzioni, commissioni, associazioni di malati ecc.), persone assiste e popolazione; 3) la linguistica clinica, che si occupa dell’analisi e della classi-ficazione dei disturbi del linguaggio relativamente al parlato, alla lingua scritta e segnata e delle relative tecniche terapeutiche e riabilitative.

L’Università degli Studi di Torino ha attivato da quest’anno l’insegnamento di Linguistica medica e clinica, prima cat-tedra in Italia dedicata alla disciplina. Qual è il percorso che ha condotto a questo risultato? A chi è rivolto e quali le prospettive future?

La presa d’atto che molte delle potenzialità della linguistica stanno nelle possibilità applicative in contesti extra-umanistici ha portato il Corso di Laurea in Scienze Linguistiche del-l’Università di Torino ad attivare il corso, con un immediato riscontro da parte degli studenti. L’insegnamento di Lingui-stica medica e clinica è il punto di arrivo di un lungo periodo di progetti di ricerca e sperimentazione che negli anni ha dato vita a convegni, pubblicazioni, corsi di formazione ECM in contesto sanitario e anche esperienze di insegnamento uni-versitario anche all’interno del Polo di Medicina del San Luigi Gonzaga di Orbassano. A complemento del corso di Lingui-stica medica e clinica offriamo la possibilità di svolgere tirocini pre-laurea della durata di 150 ore presso le strutture sanitarie con cui “Remedia”, nel corso degli anni, ha attivato apposite convenzioni di collaborazione a fini di ricerca. I tirocinanti fanno qui attività di osservazione e supporto del personale, apprendendo tecniche di discorso, conduzione del colloquio e proponendo nuove modalità di interazione e nuovi modelli di comunicazione alla luce dei loro studi. Per queste ragioni

lavorano in stretta collaborazione con gli operatori e diret-tamente con i pazienti allo scopo di raccogliere testi e testi-monianze da sottoporre ad analisi, elaborando anche nuovi metodi di raccolta-dati. L’obiettivo del corso è molto ambi-ziosa: formare una figura nuova di professionista della parola che possa offrire al contesto sanitario competenze e strumenti innovativi a partire dalla linguistica medica e clinica. Per que-sta ragione l’interrelazione con i corsi di studio di ambito medico, le collaborazioni e gli scambi ci sembrano non sol-tanto importanti, ma doverosi. Speriamo di riuscire a fare rete una volta di più.

Trimestrale della Federazione nazionale

degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri

ANNO XVIII • NUMERO II - MMXVII Presidente

Roberta Chersevani

Direttore responsabile

Eva Antoniotti

Gruppo di lavoro “Area della comunicazione”

Cosimo Nume (coordinatore, presidente Omceo Taranto)

Alessandro Conte (Osservatorio giovani professionisti medici ed odontoiatri) Antonio De Rosa (consigliere Omceo Napoli)

Anna Rita Ecca (consigliera Omceo Cagliari)

Editore FNOMCEO

Via Ferdinando di Savoia, 1 00196 Roma

Redazione

EDIZIONI HEALTH COMMUNICATION Via Vittore Carpaccio, 18 00147 Roma

Tel. 06.594461 Fax 06.59446228

Chiuso in redazione nel mese di novembre 2017

Finito di stampare nel mese di novembre 2017 con i tipi e gli impianti della Cartostampa Chiandetti - Reana del Rojale (UD)

Le variazioni di indirizzo vanno comunicate per posta alla sede della FNOMCEO: FNOMCEO

Centro elaborazione dati Via Ferdinando di Savoia, 1 00196 Roma

L A P R O F E S S I O N E

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