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Finora si è parlato di comunicazione verbale e non verbale umana intesa all’interno delle interazioni sociali che si svolgono ogni giorno. La comunicazione che si può instaurare durante uno spettacolo teatrale è molto simile al tipo di comunicazione che si svolge durante un’interazione sociale. Come sottolinea Silvia Magnani (1991) i due tipi di comunicazioni hanno caratteristiche molto simili. Quella teatrale infatti è multimodale, pluricodica e volontaria; infatti ogni produzione artistica è volontaria, in quanto è pensata, studiata e organizzata da qualcuno che ha intenzione di mettere in scena un testo (inteso nel senso più generale possibile). La rappresentazione artistica è anche pluricodica in quanto utilizza ogni tipo di codice possibile; basti infatti pensare alla molteplicità di sistemi segnici che vengono utilizzati durante una realizzazione artistica. A tal proposito, risulta interessante riportare uno schema che riprende il sistema di comunicazione multilineare individuato da Kowzan, il quale sostiene che il teatro si svolge su più linee parallele, definite linee di codice (Molinari, Ottolenghi 1979, p. 57).

28 1-parola 2-tono Testo detto Attore Segni auditivi

Tempo Segni auditivi

3-mimica 4-gesto 5-movimento Espressione corporea Segni visivi Spazio e tempo Segni visivi (attore) 6-trucco 7-acconciatura 8-costume Aspetto esteriore dell’attore Spazio 9-accessori 10-scenografia 11-illuminazione Aspetto del luogo scenico Fuori dall’attore Spazio e tempo

Segni visivi (fuori dall’attore) 12- musica 13-rumori Effetti sonori non articolati Segni auditivi Tempo Segni auditivi (fuori dall’attore)

Come si vede, all’interno di una rappresentazione teatrale la comunicazione si avvale dell’utilizzo di diverse linee di codice, le quali tutte concorrono alla resa dello spettacolo. Infine, tornando alle caratteristiche della comunicazione teatrale, essa è multimodale ed è strettamente collegata all’esistenza di un fruitore, cioè di un destinatario finale a cui si

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rivolge. Di questi tre aspetti, quello più interessante per il nostro lavoro è quello al cui interno si inseriscono i diversi sistemi segnici. Infatti durante una rappresentazione teatrale non esiste solo il dialogo tra gli attori, ma alla resa dello spettacolo concorrono molti altri elementi come le luci, la scenografia, la gestualità, lo spazio, come ben sintetizzato nello schema precedente. È chiaro che questi sistemi segnici facciano parte della comunicazione non verbale e possano essere categorizzati secondo le distinzioni generali della comunicazione non verbale. Prima però di dedicarci a ciò, conviene dare una definizione di spettacolo teatrale:

gli spettacoli teatrali sono quei fenomeni spettacolari che vengono comunicati a un destinatario collettivo (il quale è presente fisicamente alla ricezione) nel momento stesso della loro produzione (De Marinis 1982, p.156).

Quando si vede uno spettacolo teatrale si pensa che alla base ci sia un testo letterario; questo è un presupposto sbagliato per due motivi: in primo luogo non sempre uno spettacolo è la rappresentazione di un testo e in secondo luogo perché il testo non necessariamente è letterario (può essere un testo drammatico o musicale). Esistono ovviamente anche occasioni in cui la rappresentazione teatrale trae la sua genesi proprio da un testo; ma, come afferma Roberto Tessari

anche i personaggi, le situazioni, i monologhi e i dialoghi posti su carta […] nascono e prendono forma da ben altra inclinazione mentale: quella che guarda alle parole della pagina scritta come a segni pienamente fruibili – e collettivamente fruibili – soltanto se vivificati da una finzione in atto che sappia farli propri (Alonge, Tessari 1996, p. 35). In questa prospettiva, quindi, ritorna utile quella molteplicità di codici accennati prima, che potremmo racchiudere nelle cinque direttrici della comunicazione non verbale: il corpo e lo spazio, la mimica facciale, l’uso della voce, la gestualità e la prossemica.

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Per quanto riguarda la prima categoria l’attore in scena occupa sempre una posizione e uno spazio ben precisi, legati al suo agire. Gli spostamenti, le entrate in scena, le posizioni assunte sono tutti decisi a priori, seguendo le indicazioni previste dal copione con lo scopo di ottenere determinati effetti. Al di là di queste indicazioni, però, l’attore può sfruttare tutto lo spazio del palcoscenico e, anzi, l’utilizzo corretto dello spazio è un’abilità generalmente richiesta agli attori in quanto una posizione sbagliata, uno spazio lasciato vuoto o un altro troppo pieno può rovinare la rappresentazione teatrale.

L’analisi della mimica facciale di un attore è molto difficile in quanto, rispetto al cinema dove attraverso un’inquadratura ravvicinata è possibile vedere ogni minimo movimento facciale, durante una rappresentazione teatrale è molto più difficile accorgersene in quanto il pubblico si trova, in genere, ad una distanza che non permette di cogliere dettagli così piccoli. È ovvio quindi che un attore ha due espedienti per trasmettere al pubblico le emozioni e le espressioni del volto: da una parte con l’utilizzo di una maschera fissa, che spesso è associata al teatro greco e riproposta anche nella Commedia dell’Arte o nel teatro nō giapponese; oppure, nell’avanspettacolo di Totò, ad esempio, con la deformazione espressiva esasperata al massimo livello tanto che il volto sembra diventare una maschera esso stesso.

L’utilizzo della voce è un elemento importante durante uno spettacolo. La vocalità dell’attore infatti si modula sulla base di tre canoni: l’altezza, l’intensità e il timbro. L’elemento incisivo all’interno di questa categoria è rappresentato dalle pause che sono uno strumento utilizzato per modificare il ritmo, il quale ha una sua propria portata espressiva. Come vedremo in seguito nel teatro contemporaneo le pause spesso sono utilizzate per destrutturare la logica della frase; infatti vengono inserite tra «l’ausiliare e il verbo, fra l’articolo o la preposizione e il sostantivo, fra l’avverbio e l’aggettivo» (Molinari, Ottolenghi 1979, p. 132). La pausa, all’interno del dialogo, ha una duplice natura: esiste la pausa interna alla battuta che viene valutata sulla base della sua frequenza,

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posizione e durata; e la pausa che separa un intervento da un altro, la quale è valutata solo per la sua durata. In ogni caso bisogna sempre tenere presente che la forte accentuazione della vocalità o ad esempio un uso prolungato di pause sono entrambi dovuti anche alla distanza che esiste tra attore e pubblico.

Alla voce si affianca poi un altro importante codice, quello della gestualità. È possibile fare una distinzione tra due tipi di gesti: il gesto pratico e il gesto mitico.

Per gesto pratico si intende quel gesto che tende a modificare una situazione ambientale, o a rispondere operativamente a uno stato di necessità, e quindi non intenzionato alla comunicazione, anche se tale da comunicare il significato della propria funzione (Molinari, Ottolenghi 1979, p. 98).

È un tipo di gesto che si attua attraverso movimenti che non differiscono dalla vita quotidiana, ma che possono assumere significati ben precisi durante uno spettacolo.

Il gesto mitico è invece intenzionato a comunicare. Esso si distingue in altre tre sottocategorie:

- Gesti paralleli che servono a sottolineare il contenuto di un discorso verbale, sia tracciando i percorsi dello schema di pensiero sia scandendo il ritmo del contenuto; questa gestualità caratterizza un personaggio pensieroso o alla ricerca del modo migliore per esprimere i propri pensieri;

- Gesti oggettivi o autosemantici, i quali fanno convergere le informazioni su un referente oggettuale senza l’ausilio del parlato. Essi possono essere deittici (indicano l’oggetto), iconografici (descrivono la forma dell’oggetto), cinetografici (rappresentano un’azione).

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La gestualità è quindi un canale della comunicazione non verbale molto ampio e molto importante al punto che può essere analizzata secondo il già citato schema di Roman Jakobson circa le sei funzioni della comunicazione. Il discorso gestuale in ambito teatrale ha quindi (Ubersfeld 2008, p. 166):

- Funzione referenziale, nel momento in cui il gesto è un informatore, dicendo qualcosa;

- Funzione conativo, in quanto il gesto può supplicare, dare ordini, difendere, incolpare ecc.;

- Funzione fatica, spiegata nella capacità del gesto di creare contatto, di chiamare la comunicazione;

- Funzione emotiva, legata appunto all’espressività del gesto stesso; - Funzione poetica, realizzata nel rapporto dei gesti gli uni con gli altri;

- Funzione metalinguistica, quando il gesto risulta essere il commento ad un altro discorso, verbale o gestuale che esso sia.

Il discorso gestuale inoltre può essere analizzato anche da un altro punto di vista della semiotica, ovvero seguendo le nozioni di atti del linguaggio proposta da John L. Austin. La gestualità corporea ha quindi una funzione locutoria, una funzione perlocutoria inducendo delle emozioni nel destinatario, che nel linguaggio teatrale è duplice (pubblico e altro/i attore/i) e infine ha una funzione illocutoria in quanto attraverso la sua attualizzazione agisce, ordinando, negando, pregando, supplicando ecc. Si capisce quindi come la gestualità sia a tutti gli effetti un livello di comunicazione sfruttato appieno nel linguaggio teatrale.

L’ultima linea in questa analisi è la prossemica, intesa come lo studio dei rapporti di vicinanza e lontananza tra gli attori compresenti sulla scena. Come è stato detto nella gestione dello spazio, anche in questo caso la gestione della distanza tra gli attori è frutto di un meticoloso calcolo e di precise indicazioni registiche. Durante uno spettacolo

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teatrale possono essere messe in atto tutte le quattro dimensioni che Hall aveva individuato parlando di prossemica. Ognuna di queste ovviamente avrà un significato preciso e servirà per far capire allo spettatore il tipo di rapporto che intercorre tra i personaggi in scena o il tipo di situazione che si sta svolgendo. Prendendo due attori sono riscontrabili sei posizioni di reciprocità (Molinari, Ottolenghi 1979, p. 121):

- Fronteggiarsi - Volgersi le spalle

- Guardare nella stessa direzione - Guardare in direzioni opposte - Guardare chi guarda davanti a sé

- Volgere le spalle a chi guarda davanti a sé

Ciascuna posizione ovviamente mette in luce l’interesse o il disinteresse, la concordanza o discordanza di attenzione tra i due attori.

La comunicazione teatrale è dunque un tipo di comunicazione che attribuisce molto valore al comportamento non verbale. Ma come è cambiato l’utilizzo di questi segnali non verbali nel corso della storia del teatro? È ovvio che la gestualità di una tragedia greca del tempo appare differente da una rappresentazione del teatro contemporaneo, o la gestione del corpo, dello spazio scenico differiscono nelle due realtà. Nei prossimi capitoli prenderemo in analisi il canale della gestualità e il canale della prossemica e dello spazio scenico e vedremo come essi siano mutati nel tempo, confrontandoli tra il teatro greco del V secolo a.C. e il teatro contemporaneo, che significati si siano aggiunti o persi, che valore aggiuntivo attribuiscano a uno spettacolo teatrale.

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La tragedia greca

Analizzare la tragedia greca nei suoi aspetti scenici risulta molto difficile in quanto non abbiamo molte testimonianze e restano quindi dubbi e lacune. L’aspetto che risulta chiaro però è sicuramente il fatto che il teatro greco di V secolo a.C. è totalmente diverso dal teatro moderno a cui siamo abituati. Prima di addentrarci nell’analisi degli elementi della scena greca, è il caso di fornire un inquadramento generale.

Anzitutto bisogna dire che le rappresentazioni teatrali tragiche di V secolo erano inserite all’interno di un sistema agonistico e avevano un carattere pubblico. Avvenivano durante le Grandi Dionisie, una festa molto importante, la cui organizzazione era affidata all’arconte. Durante queste feste, tre giorni erano completamente dedicati al concorso tragico durante il quale si presentavano tre poeti, ognuno dei quali rappresentava una “tetralogia”, ovvero un insieme di tre tragedie e un dramma satiresco. Un elemento importante da sottolineare, che verrà ripreso più avanti, è il fatto che i poeti erano anche i registi delle rappresentazioni e istruivano personalmente gli attori: ecco spiegato il motivo della mancanza di didascalie riguardanti la scena all’interno delle loro opere. Questa è una grande differenza rispetto al teatro moderno e soprattutto rappresenta una grave carenza per noi oggi nell’analisi degli aspetti scenici. Altro elemento che distingue i due teatri è la disposizione dello spazio scenico. Quello del teatro ateniese del V secolo a.C. è costituito dall’orchestra, uno spazio circolare di venticinque metri al cui interno si muovevano attori e coreuti, che in genere erano tra i dodici e i quindici. A questa zona si accedeva attraverso due entrate laterali (eisodoi) e, data la sua ampiezza, per raggiungere il centro dello spazio scenico gli attori dovevano percorrere una certa distanza; ecco perché le entrate e le uscite degli attori avevano una certa rilevanza ed erano a volte sottolineate da un annuncio del Coro. Altra caratteristica dello spazio scenico è la scenografia che era completamente convenzionale e doveva essere immaginata dagli

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spettatori, i quali venivano aiutati in questa operazione da alcune battute pronunciate da attori o Coro; per questo motivo la scenografia di V secolo era una scenografia “verbale” (Ercolani 2000, p. 2).

I protagonisti delle rappresentazioni erano ovviamente gli attori, la cui invenzione è da attribuire a Tespi. Il numero degli attori aumentò nel corso degli anni (due con Eschilo, tre con Sofocle) ma non superò mai il numero tre. Essi ricoprivano tutti i ruoli e quindi nel corso di una rappresentazione potevano trovarsi a recitare una parte sia maschile che femminile. Fino alla metà del V secolo non si trattava di attori professionisti; in seguito anche l’attore acquistò prestigio personale. Un tratto caratteristico degli attori era l’utilizzo della maschera che riduceva la mimica facciale ma permetteva al pubblico di identificare un personaggio. Non potendo utilizzare l’espressione del volto l’attore era quindi costretto ad utilizzare la gestualità del corpo, anche se sembrava essere scarna e convenzionale, e la voce, che invece era il pilastro portante della rappresentazione scenica. L’importanza della voce rispetto alla gestualità è dovuto al fatto che gran parte della produzione tragica si sviluppa all’interno di una civiltà aurale, dove la voce rappresenta il mezzo non solo primario, ma pressoché esclusivo di diffusione. La gestualità invece, essendo ridotta al minimo, rientra in un contesto convenzionale e stabilito: i pochi gesti che venivano utilizzati nel teatro con la funzione di comunicare col pubblico erano gesti ritualizzati, con un significato preciso che spesso traevano origine da contesti situazionali ben chiari al pubblico. Si tratti di gesti che il “drammaturgo” riprendeva dai riti religiosi, dalle feste o, come ad esempio la pantomima legata alla condizione id morte, dai funerali. In questo modo l’artefice dello spettacolo teatrale era sicuro che il pubblico avrebbe interpretato quel gesto nel modo corretto, in quanto facente parte del contesto culturale e sociale della Grecia.

Da questa panoramica iniziale si capisce come il teatro greco, sebbene sia l’antenato del teatro moderno, se ne diversifichi per tantissimi aspetti. Cerchiamo di vedere ora come

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alcune categorie della comunicazione non verbale risultino importanti per i molteplici significati veicolati dalla tragedia greca.

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