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Passiamo ora ad un altro sistema utilizzato per trasmettere emozioni: il silenzio. Molto spesso si trova abbinato con repentine uscite, sottolineate dal coro, come capita in

Antigone al verso 1245 o nell’Edipo re ai versi 1071-1072 e 1075. Si tratta comunque di

un espediente registico, per utilizzare un termine a noi oggi chiaro, con obiettivi precisi. Eschilo è il tragediografo che più fa uso di questo elemento soprattutto nell’Agamennone per trasmettere tutto l’orrore provato da Cassandra (vv 1035-1071). I personaggi silenziosi fanno parte della tradizione omerica: basti pensare all’Iliade nel momento in cui il vecchio Priamo piange Ettore, totalmente avvolto nel suo mantello e in silenzio; altro riferimento si ha nell’Odissea quando Penelope rimane totalmente in silenzio finché tenta di riconoscere Ulisse. Quindi Eschilo si ispira ai grandi classici per dimostrare come il silenzio spesso sia un valido mezzo comunicativo per trasmettere emozioni. I silenzi di Eschilo si dividono in due categorie: i “silenzi eschilei” e i “silenzi in Eschilo”. I primi sono quei silenzi che hanno caratteristiche ben precise e si trovano all’inizio della rappresentazione; essi non servono assolutamente a prendere tempo sulla scena ingannando gli spettatori nell’attesa, ma sono rivelatori di una grande abilità tecnica messa in campo dal tragediografo. Il personaggio che resta in silenzio, escluse ovviamente le figure che sono costrette a stare mute nel momento in cui il numero degli attori che possono parlare è già stato raggiunto, è generalmente posto al centro della scena e quindi dell’attenzione del pubblico e quando interrompe il momento di silenzio, le sue parole, già rimarcate dal silenzio antecedente, diventano addirittura ancor più sorprendenti e importanti.

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Per quanto riguarda invece i silenzi cosiddetti “in Eschilo” non hanno delle caratteristiche così specifiche, ma sono semanticamente vuoti (Aelion 1983-1984, pp. 31-52). Si dice che il maestro dei silenzi sia stato Eschilo, ma anche Sofocle ed Euripide utilizzarono questo valido mezzo di comunicazione. Vediamo ora il silenzio nell’Agamennone di Eschilo e nell’Ippolito di Euripide. Nell’Orestea il silenzio è sinonimo di scandalo, vendetta e paura. Numerosi sono nell’Agamennone i silenzi che si susseguono interrotti dalle parole dei personaggi che a poco a poco spiegano le figure dei delitti già compiuti e che dovranno compiersi nel palazzo degli Atridi. Il silenzio nell’Agamennone

Segnala i punti opachi della vicenda mitica e della turbolente storia recente cui la vicenda allude. Invece che predisporre, oltre che predisporre gli effetti speciali per le azioni e le parole che seguiranno, risucchia gli spettatori nella dimensione del segreto, del

nascondimento, nel cono d’ombra dell’indicibile (Anna Beltrametti 2015, p. 157). E poche righe sotto leggiamo, sempre inerente alle funzioni del silenzio in questa tragedia

disagio, voci di dentro, assenza di speranza, cattive premonizioni. I segreti affiorano nelle emozioni, battono su tutti gli organi sede degli affetti e non diventano logos: questo è il senso del silenzio che avvia l’Agamennone e l’intera trilogia sotto il segno della paura (Anna Beltrametti 2015, p. 157).

Funzione in parte diversa è quella svolta dal silenzio nella tragedia dell’Ippolito di Euripide, in cui si fa portatore invece di valori legati al tabù e alla diversità. Il silenzio durante tutta l’opera garantisce una forma di rispetto della norma, non svela l’indicibile, mentre, in un secondo momento, le parole, in netto contrasto, portano allo scoperto l’intero pensiero che fino ad allora era rimasto celato. In quest’opera il silenzio, essendo sinonimo di vergogna, è legato a un chiaro segno già indicato sopra: il fatto che l’attore in questione fosse velato. E di fatti Fedra viene portata in scena con il capo velato; non mangia, non parla e non ha forze, insomma è l’emblema di tutte le privazioni possibili. Finché resta in questa situazione, niente viene svelato al pubblico, ma nel momento stesso in cui si lascia andare alle parole, tradisce immediatamente il suo segreto rivelando la

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passione illecita per Ippolito. Una volta messa in chiaro questa debolezza, è Ippolito stesso a chiudersi in un silenzio vincolante per due motivi: egli non sa parlare in pubblico e di Fedra non sa se gli è lecito dire di più; addirittura si vincola al silenzio con un giuramento (vv. 986-987 e 1032-1034).

Nei casi citati dunque il silenzio costituisce il fulcro drammatico attorno al quale si sviluppa la scena e talvolta viene utilizzato per richiamare l’attenzione su quanto sta per accadere. I “silenzi eschilei” per eccellenza sono quelli di Achille e Niobe, che avevano una vera e propria pregnanza semantica e potevano essere definiti “silenzi eloquenti”; purtroppo l’opera è andata persa e quindi risulta difficile approfondire l’argomento. In ogni caso anche i silenzi dei personaggi sopra citati sono silenzi pieni, con una funzione e un valore. In conclusione potremmo dire che il silenzio di un personaggio muto non risulta vuoto se non è solo fisico ma si carica di significati; vediamo altri esempi. Nelle

Trachinie in una scena troviamo Deianira che rivolge delle domande a Iole, la prigioniera

che ha scatenato la passione di Eracle. Di fronte alle domande di Deianira però Iole non risponde e il suo mutismo sta a dimostrare la nobiltà dell’animo percorsa dal dolore (Albini 1999, p.18). Un altro esempio significativo lo individuiamo nel finale dell’Alcesti dove un personaggio per ragioni sceniche – la tragedia aveva bisogno di soli due attori ma nella scena finale compare un terzo – tace. In scena troviamo Admeto, Eracle e una donna velata, che ipoteticamente potrebbe essere Alcesti. Questo personaggio può suggerire diverse interpretazioni allo spettatore: questo silenzio potrebbe essere legato al passaggio di purificazione attraverso cui deve passare la regina, rimanendo in silenzio per tre giorni; oppure Alcesti, avendo visto l’aldilà, è al disopra degli accadimenti umani e per questo motivo non prende parte al dialogo sulle vicende terrene; infine, ultima interpretazione, potrebbe essere legata alla presenza di Alcesti sulla scena come ombra: essa è tornata dall’aldilà ma senza riacquistare la dimensione quotidiana. Come si vede il silenzio può farsi carico di molteplici significati; è un espediente utilizzato dai tragediografi per trasmettere al pubblico determinate immagini o sensazioni e non sempre

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il suo significato è unico e preciso, ma può variare a seconda delle interpretazioni. D’altronde anche nelle interazioni umane, analizzare il significato veicolato da un momento di mutismo non è sempre facile e anzi, talvolta, può essere motivo di incomprensioni.

Ricordiamo infine che la tragedia greca era per lo più una rappresentazione incentrata sul

logos e quindi i momenti di totale silenzio non erano mai lunghissimi; essi piuttosto

venivano rimarcati dai personaggi che chiedevano al personaggio il motivo del silenzio o discutevano tra di loro sul silenzio di un terzo personaggio. Si tratta di una modalità di attirare l’attenzione del pubblico sul silenzio di un particolare attore; modalità del tutto diversa rispetto ai silenzi e alle pause su cui Beckett e Pinter hanno fondato la propria scrittura scenica.

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