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Considerazioni storico criminologiche

1. Concetti e presupposti: evoluzione storica della pena

Conosciamo tutti gli inconvenienti della prigione, e come sia pericolosa, quando non è inutile. E tuttavia non «vediamo» con quale altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe fare a meno.

(Michel Foucault)

Prima di procedere all’analisi della funzione sociale della pena e del carcere in generale è opportuno definire cosa si intende per istituzione, istituzione penitenziaria ed istituzione totale.

Per istituzione si fa riferimento sia ad un sistema organizzato di norme e di ruoli sociali sviluppato attorno ad una serie di valori condivisi, sia ad uno strumento utile per regolare le procedure ed il rispetto delle leggi81.

Per istituzione penitenziaria, che rientra nella categoria delle cosiddette istituzioni totali, si fa riferimento ad un sistema organizzato di norme e di ruoli sviluppato attorno all’ordinamento penitenziario82.

Per istituzione totale si intende il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone le quali - allontanate o escluse dalla società libera per un dato periodo - si ritrovano a condividere la loro quotidianità in un regime chiuso e formalmente amministrato83.

Un accenno a Goffman che, a tal proposito, pubblicò una raccolta di quattro saggi in cui descrive cinque tipologie di istituzioni totali: quelle nate a tutela di incapaci non pericolosi (per esempio sordomuti, disabili, anziani, orfani); quelle ideate per recludere chi rappresenta un pericolo non intenzionale per la società

81Reuter P., La communauté Europeenne de charbon et de l’arcier, Paris, 1953 82 Brunetti C., Diritto Penitenziario, Esselibri, Napoli, 2010

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(ospedali psichiatrici); quelle finalizzate a recludere chi rappresenta un pericolo intenzionale per la società (carceri); quelle create per lo svolgimento di un'attività funzionale continua (collegi); ed infine le istituzioni che richiedono il distacco volontario dal mondo (conventi, monasteri)84.

All’interno di ognuna di queste istituzioni, ogni soggetto chiuso vive la stessa condizione di reclusione: tutti rispettano l’identico orologio temporale, scandito da attività routinarie prestabilite ed imposte dall'alto della scala socio- istituzionale, attraverso un sistema di regole formali e informali. Ne consegue che la vita dei reclusi è soggetta ad una standardizzazione comportamentale, dettata dalla logica dell’ordine e della disciplina, che continuamente regola tutti gli aspetti della vita sociale dei membri di un gruppo.

La standardizzazione comportamentale ha come unico fine quello di ottenere la stessa condotta da parte di tutti i membri dell’istituzione di riferimento per meglio controllare i loro movimenti.

Interessante è soffermarsi sul modo in cui sia la dottrina che la società civile si sono rapportate all’evolversi del carcere, in quanto istituzione penitenziaria totale, soprattutto in relazione alle funzioni ad esso riconosciute.

L’evoluzione del sistema sanzionatorio, infatti, se da un lato ha contribuito a spostare l’attenzione dal “fatto” criminoso alla valutazione della “persona” da punire, dall’altro ha anche determinato un profondo mutamento del concetto stesso di istituzione penitenziaria85.

Dovendo stabilire un inizio, nella mia analisi faccio risalire la nascita del carcere86 al sorgere della civile convivenza umana, avutasi presumibilmente in seguito all’origine della città, sebbene già nella Bibbia si legge di imprigionamenti e di carcerazioni.

Se la scelta del momento della nascita del carcere potrebbe divergere da uno studio all’altro, quello che non cambia è sicuramente l’interpretazione della

84Ibidem

85Margara A., La modifica della legge penitenziaria: una scommessa per il carcere, una

scommessa contro il carcere, in Questione di giustizia, n.3, 1983.

86Secondo alcune teorie la parola carcere deriva dal latino carcer il cui significato è luogo di

restrizione ove si rinchiude, si castiga e si punisce. Secondo altre teorie la parola carcere è rimandata all’ebraico carcar ossia tumulare, sotterrare.

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motivazione che ha spinto il gruppo ad avviare pratiche restrittive verso persone indesiderate.

Ripercorrendone la storia, agli albori il carcere non veniva considerato come uno strumento punitivo, piuttosto era un modo per contenere chi avesse arrecato un danno a terzi. E per diverso tempo ha rappresentato un luogo di angherie, senza limiti e controlli.

Nel periodo Medioevale le carceri erano perlopiù spazi sotterranei dove il recluso non godeva di alcun diritto: si viveva in un momento storico in cui la vendetta privata ostacolava qualsiasi atteggiamento a favore del condannato e dello sviluppo del regime carcerario.

In Europa, l’espansione della prigione si ebbe sotto l’influsso del Cristianesimo che, sebbene fosse volto ad un trattamento ispirato alla pietà dei detenuti, di fatto finì per assistere a forme di ferocia e di crudeltà umana.

Solo nella seconda metà del XVIII secolo qualcosa inizia a cambiare.

In Italia con Cesare Beccaria ci si avvicinò ai principi di universalità, di chiarezza della legge e di utilità della pena. Il suo pensiero si rifaceva ad un’idea garantista per cui nessuno può essere punito se non per un fatto espressamente previsto dalla legge, principio cardine della scuola classica che favorì il passaggio della prigione da luogo disumano a luogo di redenzione individuale. Il carcere moderno fu ispirato a questi principi di apertura, tant’è che in sistemi americani come quello filadelfiano o auburniano ben presto si propose la risocializzazione dei detenuti, perlopiù attraverso la preghiera, il silenzio e il lavoro.

In questi tentativi di trattamento, era costante il riferimento alle concezioni utilitaristiche di Bentham, che attribuiva al carcere un carattere di totale controllo del delinquente, in parte volto a realizzare un effetto produttivo e risocializzante87.

Ai sistemi americani, si affiancò in Europa il sistema irlandese che dava la possibilità ai detenuti più meritevoli di “agire” sul proprio percorso detentivo,

87Bentham in una visione utilitaristica, in base alla quale all’uguaglianza del trattamento dei

soggetti doveva corrispondere una resa produttiva del lavoro svolto atta a non far gravare sulla comunità il costo della gestione carceraria, ideò il panopticon.

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ad esempio chi avesse avuto una condotta esemplare avrebbe potuto lavorare nei campi ed ottenere la liberazione in prova prima della fine della pena.

Nell’ultimo quarto di secolo, sull’onda delle teorie evoluzionistiche di Darwin e del positivismo di Spencer, la società iniziò ad abbracciare la corrente di pensiero per cui esisteva un collegamento diretto tra il reato e le condizioni sociali, psicologiche e biologiche del criminale. Il rafforzarsi di queste idee comportò il passaggio da inutili tentativi di rieducazione a più specifiche e differenziate forme di trattamento, applicate prima sui minori e poi sui malati di mente88. Tuttavia l’Italia, dinanzi a questo nuovo modo di intendere il carcere, ha presentato dei ritardi storici: con Beccaria e con la Scuola Classica se da un lato si custodivano i principi illuministici dell’imparzialità, del garantismo, della certezza e dell’umanizzazione della pena, dall’altro non si considerava affatto l’aspetto sociale e psicologico del reo.

A contribuire ad un cambiamento culturale furono Cesare Lombroso e la Scuola Positivista. Infatti in un momento storico importante come quello post-unitario italiano, l’industrializzazione e il progresso scientifico-tecnologico favorirono l’affermarsi delle idee della Scuola Positivista che condusse ad uno spostamento del focus penalistico dal delitto in astratto al delinquente in concreto.

La criminalità cominciava ad essere concepita come fenomeno analizzabile scientificamente e l’agire umano interpretato come deterministico 89 (il paradigma epistemologico positivista fu di tipo eziologico e cioè quello di una scienza che spiegava la criminalità esaminandone le cause ed i fattori)90.

Dunque con la Scuola Positivista si concretizzano le basi per uno studio scientifico della personalità del criminale attraverso l’analisi del reato come azione umana.

88Ibidem

89Il determinismo, escludendo qualsiasi forma di causalità nelle cose, individua una spiegazione

di tipo fisico per tutti i fenomeni, riconducendo il tutto alla catena delle relazioni causa-effetto. Nulla avviene per caso, tutto accade secondo ragione e necessità.

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1.1 Funzione sociale della pena

Come appreso fin qui, l’evoluzione storico-sociale ha influito sulla funzione della pena e sulle tecniche utilizzate per punire l’autore di un reato.

I sistemi penali moderni vivono nella storia e da essa ne sono influenzati: il passaggio dalle pene corporali alle pene detentive fino alle pene alternative, riflette innanzitutto un cambiamento di mentalità il cui focus va dal fatto commesso alla persona da punire. Tale passaggio ha accelerato quel processo storico che ha visto il supplizio del detenuto, la sofferenza fisica, il dolore del corpo, il castigo non più al centro della condanna, ma sostituiti dall’umanizzazione della pena.

Si è andati verso questa direzione in quanto è stato dimostrato che una detenzione poco lungimirante avrebbe avvicinato i detenuti ad un mood di criminalità e pesato non poco sulla recidiva (cfr.1.2).

Tuttavia ci sono voluti anni per abbracciare la consapevolezza che rendere umana una condanna non vuol dire soltanto evitare la punizione corporale, ma soprattutto ragionare sui limiti e sulle drammatiche conseguenze a cui può condurre un’istituzionalizzazione coatta senza alcun fine di reinserimento sociale.

Attorno a tale principio ruota tutto il ragionamento delle riforme carcerarie sia italiane che internazionali, di cui parlerò nei prossimi paragrafi.

Per riprendere Foucault, storicamente la punizione passa da un’arte di sensazioni insopportabili a un’economia di diritti sospesi91, e se è ancora necessario per la giustizia manipolare e colpire il corpo dei prigionieri, adesso lo fa con decenza e discrezione seguendo regole che conducono ad un fine diverso, legato ai nuovi interessi della società.

Ciò nonostante, non bisogna cadere nell’errore di credere che il corpo cessa di essere il bersaglio principale della repressione penale in quanto, ancora oggi, seppur in modo diverso dal passato, la massima punizione priva l’individuo del suo diritto più importante: la libertà di movimento. Questo perché è diffusa l’opinione secondo cui un vero castigo non esiste senza sofferenza fisica, al

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punto che, anche nelle carceri moderne, ogni sanzione punta al corpo del delinquente.

Si ritorna a ciò che Foucault definiva utopia del pudore giudiziario: togliere l’esistenza evitando di far sentire il male, privare di tutti i diritti senza far soffrire, imporre pene libere dal dolore92.

Le finalità della pena oggi ruotano attorno a tre principi - retribuzione, prevenzione, risocializzazione - e il combinarsi di queste prospettive, oppure il prevalere di una sull’altra, riflette sia una logica interna al sistema penale, che le tendenze del contesto politico sociale e culturale di riferimento.

In passato la pena era prettamente afflittiva e per quanto il legislatore, con la riforma del ’75 abbia tentato di distaccarsi dal precedente regolamento penitenziario (del 1930), di fatto ha mostrato difficoltà nel farlo.

Approcciandosi alla cd. Teoria del doppio binario - per l'appunto avanzata dal codice Rocco con l’intento di affiancare il carattere “retributivo” della pena al fine “curativo” delle misure di sicurezza - il legislatore pare abbia incentivato un meccanismo contraddittorio e poco coerente.

La scelta discrezionale del giudice di applicare ad uno stesso soggetto una pena o una misura di sicurezza - aventi come presupposto la prima (pena) la consapevolezza dell’agire e la seconda (misure di sicurezza) l’incapacità di intendere, di volere e la pericolosità sociale - sembra presumere un’opinione dell’uomo come essere diviso in due parti: libero e responsabile per un verso, quindi assoggettabile a pena, e pericoloso per l'altro dunque assoggettabile a misure di sicurezza93.

Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il legislatore appare convinto che investire socialmente in un detenuto attraverso la rieducazione, avrebbe potuto trasformare l’intero sistema penale, tant’è che arriva ad affermare all’articolo 27 comma 3 “Le pene non possono tendere a trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Sostenere il trattamento rieducativo ha significato per lo Stato mantenere un impegno preso prima nei confronti del cittadino detenuto, attraverso

92ibidem

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l’osservanza di princìpi che tendono agli interessi e alle aspirazioni del singolo, e poi nei confronti della società, tutelando maggiore sicurezza attraverso la rimessa in libertà di soggetti tendenzialmente risocializzati.

Con l’approvazione dell’articolo 27 della Costituzione ciò che viene messo in evidenza è il carattere rieducativo della sanzione penale, dunque tutta la macchina penitenziaria ha dovuto trovare ragione e fondamento giuridico nella necessità di rieducare un condannato.

Alla luce di ciò, va interpretata la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, i cui punti salienti sembrerebbero essere da un lato la presa di coscienza della necessità di un trattamento rieducativo, dall’altro l’introduzione di misure alternative alla detenzione ispirate all’idea del probation (letteralmente “prova”).

È innegabile, infatti, che l’insieme di norme introdotte nel nostro ordinamento penale se da una parte hanno condotto alla concreta possibilità di ridimensionare, in sede di esecuzione, sia la durata delle pene sia le modalità della loro attuazione, dall’altra hanno comportato un rilevante avvicinamento concettuale tra lo strumento pena e lo strumento misura di sicurezza, venendo ad assumere, nell’utilizzazione di entrambi, ampia rilevanza la valutazione della condizione concreta del soggetto94.

Dinanzi queste trasformazioni concettuali è necessario chiedersi se davvero la riforma e le successive modifiche siano state coerenti con quanto espressamente elencato nel corpo della legge n.354 e della legge n.663.

Ad ogni modo, prima di analizzare la riforma, mostro le differenze tra una detenzione “contenitiva” ed una detenzione “risocializzativa”, a partire dall’esempio del carcere di Bollate, fino ad analizzare altre realtà.

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1.2 L’esempio Bollate e il rispetto della Costituzione

Nel paragrafo precedente ho affermato che “una detenzione poco lungimirante avrebbe avvicinato i detenuti ad un mood di criminalità e pesato non poco sulla recidiva”. Vediamo cosa intendo.

Come si evince dall’intervento del 26.09.2012 dell’allora guardasigilli Paola Severino alla conferenza stampa su Carcere e Recidiva, il governo - fin dall’approvazione del decreto salva carceri del 2011 - ha testimoniato la volontà di affrontare la questione penitenziaria partendo dall’idea di rieducare in prigione.

Negli ultimi anni un esempio di apertura è stato il carcere di Bollate95 che ha fornito incoraggianti risultati circa la relazione tra risocializzazione e calo della recidiva:

per ogni anno passato in un carcere aperto, la recidiva si riduce di circa 9 punti percentuali rispetto a chi invece sconta la pena in un tradizionale carcere chiuso96.

Questo dato rappresenta solo una parte dei successi di Bollate.

Ciò nonostante non bisogna tralasciare le modalità interventistiche dell’istituto. Selezionare i detenuti migliori, riservare l’ingresso a una certa tipologia di soggetti - meritevoli e volenterosi di recuperare - significa investire solo su quelli che vogliono essere rieducati e bypassare una fase iniziale di empatia, ritenuta un momento cruciale per chi entra in contatto con il detenuto per la prima volta.

95 “Nel carcere di Bollate la capienza è di 1200 detenuti, con una presenza di reclusi pari a poco

meno. Circa 200 detenuti lavorano all’esterno dell’istituto e gli agenti di P.P. sono circa 400. Il modello organizzativo consente di avere un numero di unità di personale che sarebbe improponibile qualora si fondasse sul controllo statico dei detenuti, per larga parte della giornata chiusi nelle celle”. Intervista del direttore del carcere di Bollate, 26 maggio 2016. Da un’intervista pubblicata il 18 aprile 2017 su ilgiorno.it, si conferma la presenza a Bollate di 1200 detenuti: 150 sono assunti da ditte private che hanno istituito all’interno postazioni di call

center, riparazione di elettrodomestici, falegnameria; altri 244, invece, lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Sono presenti in istituto corsi di formazione professionale, scolastici, teatrali. In regime extra murario, invece, 190 sono gli ammessi al lavoro esterno (in cento, per esempio, hanno lavorato per Expo 2015, mentre una decina, gratuitamente, di recente hanno risistemato la vegetazione dell’Idroscalo); 23 sono in semilibertà e tornano a dormire dentro la sera. E infine, nel 2016 sono stati ben 320 quelli a cui la magistratura di sorveglianza ha concesso una misura alternativa alla detenzione.

96(C)arte Bollate, numero speciale 2/2015, periodico di informazione della II casa di reclusione

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Che il carcere di Bollate sia all’avanguardia è fuori discussione ma la domanda da porsi è: altri istituti, a pari condizioni, potrebbero fare lo stesso?

Alla selezione dei detenuti, si aggiunge un altro aspetto che potrebbe influire sull’andamento del percorso di risocializzazione: il territorio.

L’analisi del territorio in cui si trova l’istituto (quindi probabilmente l’analisi della provenienza dei detenuti), merita una riflessione in quanto ogni valutazione dovrà essere modulata anche rispetto alla criminalità presente sull’area geografica di riferimento. Ad esempio, in Campania (così come in altre regioni) c’è la criminalità organizzata, quindi con molta probabilità un certo numero di detenuti nelle carceri campane sono legate a questo reato, cosa che, verosimilmente, non si verificherà in altre prigioni d’Italia che, di contro, affronteranno altre criticità. Dunque, se a Bollate arrivano i detenuti considerati “migliori” è chiaro che il restante delle carceri italiane dovranno farsi carico degli altri casi.

Ad ogni modo, il dato sulla recidiva a Bollate resta rilevante, con conseguenze importantissime in termini di risparmi, di miglioramento della sicurezza sociale e di riduzione del sovraffollamento penitenziario: ogni anno entrano in carcere 9mila persone, di queste, una quota cospicua ha già alle spalle una precedente condanna, dunque se la recidiva calasse in media di 9 punti percentuali gli ingressi diminuirebbero ogni anno di circa 800 detenuti97.

Il vantaggio di un trattamento rieducativo incide non solo sulla sfera della sicurezza, ma anche su quella economica dal momento che - secondo diversi studi - la diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva corrisponde a un risparmio di circa 51milioni di euro all’anno, a livello nazionale98.

In una ricerca sugli effetti del trattamento sui detenuti di Bollate - dove per trattamento si intendono tutte le attività svolte all'interno del carcere al fine di responsabilizzare il detenuto e di modificarne il comportamento delittuoso - i ricercatori coinvolti si sono chiesti se rispettare la Costituzione - che all'articolo 27 comma 3 sostiene le pene non possono consistere in trattamenti contrari al

97Rehabilitating rehabilitation: prison condition and recidivism, nella sezione Papers 2014 del

sito dell’Ente www.eief.it

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senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato- ridurrebbe la recidiva. La risposta è stata affermativa.

Riporto di seguito l’ossatura della ricerca con i punti, per me, più rilevanti. I dati analizzati provengono dagli archivi del DAP e hanno consentito di misurare - per la prima volta in Italia su basi scientifiche - il rapporto di causalità tra modalità di esecuzione della pena e recidiva.

Le conclusioni mostrano che il carcere chiuso ed afflittivo non genera più sicurezza sociale, contraddicendo convinzioni popolari e scelte legislative di politica securitaria attuate negli ultimi anni.

Di contro, un carcere aperto che fa della rieducazione del detenuto la sua priorità, rispettandone la dignità e i diritti fondamentali, è in grado di ridurre la recidiva e quindi i costi, aumentando la sicurezza dei cittadini.

Per i due economisti che hanno guidato la ricerca - Daniele Terlizzese e Giovanni Mastrobuoni - questo significa soprattutto investire sulla crescita economica di un Paese, poiché a una maggiore sicurezza sociale corrisponde un clima più favorevole agli investimenti, sia italiani che esteri99.

La ricerca ha avuto come oggetto di analisi il carcere di Milano Bollate: quindi celle aperte tutto il giorno, nessun sovraffollamento, lavoro, studio, formazione professionale, attività ricreative e sportive, affettività e progressivo reinserimento nella società attraverso il ricorso ai benefici carcerari e alle misure alternative.

Un modello questo di Bollate che solo di recente l'Amministrazione ha cominciato a estendere ad altre realtà detentive, non con poche difficoltà. Il campione analizzato ha preso in considerazione tutti i detenuti maschi italiani - escluso i sex offender - passati per Bollate dal 2001 al 2009, ricostruendo la loro storia carceraria precedente e l’eventuale nuovo ingresso in carcere nei 3 anni successivi alla scarcerazione da Bollate100.

99(C)arte Bollate, numero speciale 2/2015, periodico di informazione della II casa di reclusione

di Milano-Bollate.

100Il campione prende quindi in considerazione meno della metà dei detenuti di Bollate, dato che

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Gli studiosi si sono chiesti se il comportamento di un soggetto trattato era