• Non ci sono risultati.

Osservazione ed analisi della rieducazione in carcere Caso di studio e nuove proposte

1. Premessa

Tu carcere, così opaco e scuro, tu, il gelo che filtra dentro me, tu, che hai il potere di vedere una donna piangere,

tu, che hai il potere di incantare il mio corpo, tu, potrai incatenare il mio cuore e i miei pensieri... Tu, carceriere del mio corpo, ma mai della mia anima

.

(Tratto dalla poesia “Tu carcere” di una detenuta del CC di Benevento)

La questione della rieducazione in carcere incontra numerosi limiti, sia pratici che concettuali. Primo fra tutti la mancata correlazione tra l'obiettivo istituzionale - ossia restituire alla società cittadini rieducati - e la prassi delle nostre carceri - che si basa sull'annullamento totale della personalità dei reclusi267.

Con la riforma del ’75, e le successive modifiche, si è cercato di far corrispondere la gestione interna alle prigioni all’esercizio di tutti i diritti dell'uomo, compatibili con il loro stato di detenzione.

Il legislatore, quindi, si è reso disponibile a non peggiorare lo stile di vita dei detenuti ammettendo che solo così lo Stato avrebbe potuto essere lungimirante e combattere il problema della sicurezza sociale.

In passato la funzione della pena era esclusivamente afflittiva mentre oggi diventa retributiva, preventiva e risocializzativa.

A queste funzioni si dovrebbe aggiungere quella riparativa: una pena, cioè, che riesca a correggere l’errore commesso.

193

La vera sfida della società odierna è impedire che la giustizia diventi mera vendetta sociale e che la punizione neghi la possibilità del cambiamento, intrappolando nell’errore chi ha sbagliato.

Da questo punto di vista, intendere il carcere senza fine rieducativo un qualcosa di insensato diventa una semplice constatazione, in quanto, tenere una persona imprigionata significa, letteralmente, tenerla in cattività. Non c’è positività, non c’è il buono possibile nell’uomo in catene, piuttosto c’è la sua mortificazione e semmai una spinta ad essere peggiore268.

Le pagine che seguono sono tratte da un diario - dal titolo “Ne sarà valsa la pena” - scritto durante la mia prima esperienza presso il carcere di Benevento. Segue uno studio di caso e il racconto della collaborazione con l’Università Paul Valéry di Montpellier.

1.1 Ogni storia ha diritto ad una parola

Immaginazione e follia. Realtà o finzione. Gioco di ruoli.

«Si imprigiona chi ruba, si imprigiona chi violenta, si imprigiona anche chi uccide. Da dove viene questa strana pratica e la singolare pretesa di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni? Forse una vecchia eredità delle segrete medioevali?»269.

L’idea di allontanare la mela marcia più possibile dall’albero, per evitare di contaminare le povere genti normali, ha preso il sopravvento intorno al XVII secolo attraverso la rimozione del colpevole.

Certamente tra il decidere cosa fare o non fare nei confronti di chi trasgredisce una norma, vince quasi sempre l’antica tecnica del nascondino: chiudiamo chi non obbedisce, segreghiamo la feccia dell’umanità, isoliamo chi è matto, chi ruba, chi è violento, chi si droga.

268ibidem

194

Creiamo una realtà parallela, un mondo virtuale, una nuova società - tangibile o immaginaria non importa - e diamole un nome. Chiamiamola la società dei reclusi, la società degli espulsi.

Belli sono i sorrisi - che non ci sono - delle guardie costrette sull’attenti da un regolamento che urla ordine e disciplina e che forse di ordine e disciplina conosce ben poco.

In carcere tutto ruota attorno all’idea di rieducazione, un’idea che sorregge il nostro ordinamento penitenziario e che in un certo senso gli dà colore.

Educare un detenuto. È proprio questo di cui si parla.

Formarlo, istruirlo, guidarlo, mostrargli la strada giusta, scindere il buono dal cattivo, il bianco dal nero, spingerlo al pentimento e sottrarlo alla reiterazione del reato. E per fare questo lo chiudiamo e lo bendiamo affinché i suoi occhi possano immaginare un mondo nuovo, pulito, alla pari di quello in cui viviamo noi oggi e che consapevolmente ci rende complici di un complotto politico- culturale senza via di uscita.

Come se l’avesse saputo Alfredo Rocco, durante il ventennio fascista italiano, quando propose il sistema del doppio binario, alimentando l’illusione di una misura alternativa alla detenzione in grado di “salvare” chi, con un po’ di fortuna e con una ridotta propensione al crimine, sarebbe riuscito a lasciarsi dietro tutta la triste storia dei camosci e dei girachiavi.

Il dolo, la colpa e la pericolosità sociale. Questi sono i tre concetti attorno a cui ruota tutto il giudizio sul criminale e sul reato commesso. Volontà cosciente e non cosciente, quindi, probabilità di ricommettere l’efferato fatto, che sulla base di un sistema legislativo indirizza il magistrato verso questa o quella accusa. Eppure c’è qualcosa che ancora una volta sembra sfuggire. Ad esempio, in che misura il dolo rappresenta effettivamente la volontà cosciente di commettere un reato? Lungi dall’obiettare sui significati imposti dalla Costituzione e dalle scelte riformatrici, ci mancherebbe, ma quando si esamina un caso, una storia, un percorso, quali sono gli elementi imprescindibili tra cui un giudice può o non può spaziare?

195

L’imposizione della società con le sue regole e leggi che ruolo occupa? E, soprattutto, siamo certi che il carcere sia l’unico modo per recuperare chi, intenzionalmente e coscientemente, ha procurato del male?

La risposta a tutto questo deve essere per forza di cose affermativa.

Non è possibile pensare che ci sia una soluzione alternativa e che non venga legittimata da una legge che è uguale per tutti.

Ma non riesco a smettere di pensare. E di sperare.

«[…] Mio padre è morto e da quel momento è iniziato tutto.

Papà è sempre stato in galera, lui era un gran giocatore, di noi non si è mai interessato. Quelle poche volte che usciva da galera era violento, soprattutto con mia madre che, poverina, per portarci avanti si mise a fare la prostituta.

Noi eravamo nove figli: sei femmine e tre maschi. Oggi siamo tutti in galera, o quasi.

Quando ero piccola facevo i fiori, poi, da quando mi sono sposata, non ho più lavorato. Mio marito non voleva. Io vivo solo per i miei quattro figli, sono stata molto presente per loro. Ero già sposata quando ho incontrato l’amore della mia vita.

Adesso ti racconto un po’ la storia.

A quattordici anni me ne scappai di casa con il mio fidanzato, non volevo più stare lì, la situazione era insostenibile, tra mio padre, mia madre, i miei fratelli. Dopo pochi mesi mi accorsi che lui si drogava ma ci sposammo lo stesso. A quindici anni ho avuto il primo figlio. Avemmo due bambini da quella relazione, poi lui fu arrestato perché rubava per drogarsi. Io ero sola ed ho iniziato a fare la criminale.

Mi arrestarono e mi trasferirono in questo carcere.

E qui ho incontrato il mio unico amore, lui era stato arrestato per associazione camorristica, siamo stati insieme all’Alta Sicurezza per diverso tempo.

Il nostro rapporto era bellissimo.

Quando uscimmo dal carcere lui non lavorava, e neanche io.

Poi fece un brutto incidente con la macchina che lo costrinse sulla sedia a rotelle – dopo qualche anno lo spararono per una resa dei conti.

196

Diciamo che noi siamo nati sotto brutte stelle. Io sono una delinquente e ne vado fiera perché affrontare la mia vita non è stato semplice.

Molti credono che fare la delinquente sia una scelta, una scelta facile. Invece non è così, io non ce la faccio più.

Ho quattro figli: loro si vestono, mangiano e hanno studiato perché io ho fatto la delinquente e gliene ho dato l’opportunità. Quando uscirò, per esempio, non farò più nulla perché non ne avrò più bisogno, quello che dovevo dare ai miei figli l’ho dato, loro dovevano crescere bene e dovevano avere tutto.

La mia adolescenza è stata una tragedia, non la conosco proprio, non so cosa significhi, non ho fatto nessun passaggio, non conosco il divertimento, non conosco nulla. Cambierei molto del mio passato. La vita difficile che ho avuto io, ho cercato di non farla avere ai miei figli, e questo è stato il risultato […]»270.

Lei è Patrizia. Non avrebbe potuto avere una storia diversa. O forse sì.

Nata da un padre alcolizzato e da una madre prostituta, prima figlia di 9 fratelli e con una carriera delinquenziale alle spalle molto ben definita, diventa mamma all’età di 15 anni, vedova dopo mesi e criminale da sempre. Dentro e fuori dal carcere ha costruito la sua vita, le sue amicizie, i suoi desideri.

Patrizia era destinata a questo non poteva salvarsi, dicono.

Ma se anche fosse vero, il carcere in 40 anni che funzionalità ha avuto?

Come specificato nel capitolo precedente, gli addetti ai lavori all’interno di un carcere sono tanti: c’è la direzione che ospita direttore e vice direttore, ci sono la segreteria e l’aria contabile con i responsabili e i collaboratori, c’è l’area sicurezza formata da comandante, sottoufficiale ed agenti, c’è il presidio sanitario locale con il responsabile, i sanitari e gli infermieri, ed infine, c’è l’aria trattamentale formata da responsabile, educatori e collaboratori.

Insieme, questi organi, concorrono al trattamento rieducativo.

Tuttavia, come nel caso di Patrizia, sono tanti - forse tantissimi - i detenuti che non riescono a finire un percorso di reinserimento.

In questi casi una riflessione è d’obbligo.

197

Se da un lato non si può colpevolizzare in toto un penitenziario per l’insuccesso di un percorso reintegrativo, dall’altro, se tale insuccesso diventasse non un caso ma un’abitudine, allora una critica dovrebbe essere rivolta anche alla struttura accogliente.

Si rifletta su due modelli di carcere: da un lato educativo, dall’altro contenitivo. Se la Costituzione e l’Ordinamento Penitenziario insistono su un organo di reclusione non punitivo né contenitivo ma rieducativo, allora, anche i singoli istituti, dinanzi ad un continuo via vai dello stesso criminale, dovrebbero porsi delle domande.

La critica è sottile e non è solo rivolta agli istituti quanto ad un sistema legislativo che non rispecchia la realtà delle situazioni, pretendendo meccanismi senza valutarne la reale attuazione.

È veramente possibile rieducare in carcere?

Gli addetti ai lavori, tutti, dovrebbero perlomeno accettare questa eventualità. Umanizzazione della pena - per questo si sono battuti i nostri avi. Per rendere il carcere un percorso, un servizio e non un passatempo.

Eppure alla vista di Patrizia che rientra dopo due, forse tre settimane, all’agente scappa una risata. Nei suoi occhi è evidente un sentimento di consapevolezza che meglio di così non poteva andare.

Proprio davanti alla cella di Patrizia, in un padiglione distaccato, ma non troppo lontano, c’è lui, Paolo - figlio della donna.

E la storia si ripete come in un circolo vizioso, senza all’apparenza poter far nulla. Pure in questo caso c’era poco da fare, doveva andare così.

Arrestato all’età di 17 anni, il ragazzo si trova addosso un’accusa di estorsione, usura e violenza, tutto a stampo mafioso. Racconta:

[…] errori ne ho fatti perché non sono stato seguito, né da una madre, né da un padre. Sto pagando per i reati che hanno commesso i miei genitori […]. Quando mio padre è morto ho dovuto prendere in mano la situazione […]271.

198

Oggi Paolo ha 24 anni e nel 2020, dopo 12 anni di galera, uscirà. Finalmente potrà buttarsi alle spalle quest’esperienza. Eppure di dubbi ce ne sono tanti: cosa farà Paolo una volta fuori, di nuovo senza una madre e un padre?

1.2. Rieducare in carcere. Parola ai reclusi…

Educare e riabilitare nel rispetto della dignità umana, questo è lo scopo della pena oggi.

Nel rispetto della dignità umana ha pensato bene di precisare la Costituzione - forte dell’esperienza di chi non ha avuto tanta fortuna nella vita da dover provare il carcere ai tempi delle pene corporali.

Si continua a ripetere che la prigione non deve più essere intesa come un mezzo di controllo, né come un passatempo, non può più prescindere dall’educazione, dal rispetto e dall’insegnamento. È finita l’epoca in cui un corpo martoriato, agonizzato, umiliato, faceva spettacolo, eppure si sente ancora il bisogno di specificare nel rispetto della dignità umana, come se questa considerazione non dovesse essere innata in un paese civile come l’Italia.

Ci sono voluti anni affinché l’umanità si rendesse conto che continuare a punire il male attraverso il dolore fisico non avrebbe ottenuto altro risultato che un effetto contrario al bene stesso.

Oggi viviamo in un’epoca che si definisce civile, pertanto, una volta scartata l’ipotesi di eliminare fisicamente chi delinque, il solo modo per liberarsene è attraverso la reclusione (come se nascondere un soggetto fosse sinonimo di civiltà). Tuttavia, l’era del progresso e della modernità ha sentito l’esigenza di giustificare questa reclusione attribuendole uno scopo rieducativo.

Ma veramente questo è quello che la società vuole da noi? E realmente la società è pronta a reintegrare un criminale?

Chi ha vissuto la galera, e non per forza come internato, può ben capire a cosa mi riferisco. Ammonta a circa 52.000 il numero delle persone che popolano le carceri italiane oggi, su un totale della popolazione residente di circa 61.000.000, rappresentandone circa lo 0,085%.

199

Percentuale che ci pone in una condizione di difficoltà nella gestione e nel recupero dei condannati, soprattutto perché le forze umane impegnate al loro reinserimento sono troppo poche.

E allora, perché si impone il concetto rieducativo e non si investe sul modo più efficace per ottenerlo?

Tutti gli operatori penitenziari e tutti gli operatori degli uffici di esecuzione penale esterna sono uniti da un solo scopo: far sì che un detenuto una volta fuori non commetta reato.

Sia l’Ordinamento Penitenziario che la Costituzione sono chiari su questo punto: bisogna intervenire con percorsi idonei, raccogliere le emergenze dei carcerati, facilitare rapporti con l’esterno, impiegare le forze in corsi e attività ricreative. Tuttavia, le risorse umane mancano e non si attuano interventi concreti per sanare questo deficit, si continua ad investire di più sulla sicurezza che sull’educazione.

Altri dubbi sono rilevabili sul grado di preparazione della società esterna all’accoglienza. Le nostre carceri sono abitate da detenuti di ogni tipo: strozzini, rapinatori, spacciatori, ladruncoli, associati a clan camorristici, sex-offender, pluriomicidi.

La società è pronta a reintegrare anche questi soggetti?

I reati non sono tutti uguali e la risposta dell’opinione pubblica cambia da fatto a fatto. Eppure la Costituzione non sembra fare tante distinzioni: se accettiamo senza pregiudizi tutta la storia della rieducazione, allora tutti i sex offender, tutti i camorristi e tutti i killer più efferati devono essere sottoposti a reinserimento sociale.

«Sono Annalisa ed ho 32 anni. Mio padre è morto nel 2012, me l’hanno ammazzato.

Sono depressa purtroppo e questi giorni che si avvicinano al Natale non mi fanno certo bene. Quando ero piccola era tutto bellissimo, giocavo sempre nel grano, stavo con gli animali, andavo in bici. La campagna era la mia passione, lo è ancora ma qui dentro i ricordi sono tutti così sbiaditi. Ero anche fidanzata, siamo

200

stati insieme due anni, ma i miei erano un po’ all’antica. Ci siamo lasciati quando sono entrata qui.

Mi hanno arrestata a dicembre 2009. Ho commesso l’omicidio, queste furono le parole che dissi perché non ce la facevo più, ero in caserma da cinque giorni, con la sorveglianza fissa e sempre con le stesse domande»272.

Condannata a 21 anni di reclusione, Annalisa, ha ucciso il padre con sette coltellate. Responsabile di omicidio volontario, così ha risposto la giustizia penale a riguardo.

Adesso la donna è al centro di diversi trattamenti rieducativi, ed un giorno, quando avrà 53 anni, vedrà avanti ai suoi occhi spalancarsi le porte del carcere. E potrà uscire, vedere la luce del sole, tornare alla sua campagna, ai suoi animali e forse tornare a rincorrere i propri sogni.

Un barlume di speranza c’è, tuttavia, è giusto non viaggiare con la fantasia e chiedersi: Annalisa potrà mai riprendere in mano la sua vita?

Molte volte i percorsi rieducativi all’interno del carcere sfiorano l’eccellenza, ma altre volte questa eccellenza è affiancata da scetticismo, e allora c’è chi combatte e chi invece lascia tutto al caso.

In un carcere all’avanguardia c’è bisogno di certezza: dagli assistenti penitenziari al direttore, dall’aria trattamentale a quella sanitaria, tutti devono lavorare sulla stessa linea di pensiero rivolta all’abolizione dei tratti criminogeni in un soggetto. Altrimenti, se non si pensa a raggiungere questo, cade tutta la logica del trattamento e la rieducazione si rivelerebbe una grande menzogna. È chiaro non bisogna tralasciare anche altri aspetti che influiscono su un percorso di reinserimento, come ad esempio i tratti individuali del soggetto che devono essere bene interpretati per ottenere successo. Individuare un percorso ad hoc è necessario quasi quanto capire che il coordinamento con gli enti locali o le associazioni territoriali è fondamentale. Creare una rottura tra il carcere e l’esterno significa distruggere il buono prodotto durante il trattamento rieducativo.