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Il concetto di employability

LA SFIDA DELLA FLESSIBILITÀ: INSECURITY VS EMPLOYABILITY

5. Il concetto di employability

Se finora abbiamo parlato degli effetti possibilmente deleteri dei cambiamenti del mondo del lavoro attuale in termini di insicurezza per il lavoratore (e di riflesso anche per le aziende), è altrettanto vero che si tratta di una sola faccia della medaglia. In altre parole, non possiamo limitarci a immaginare il lavoratore come un soggetto passivo che “subisce” il cambiamento ricavandone soltanto conseguenze negative in termini di incertezza per il futuro e per il proprio stile di vita. Inoltre, alla luce di quanto detto in precedenza sugli elementi che moderano la relazione tra insicurezza e diminuzione del benessere per i lavoratori, ci si può chiedere se una percezione di sé come individuo in grado di costruire attivamente un percorso di carriera permetta di interferire nelle dinamiche della job insecurity.

La crescente dinamicità del mondo del lavoro, infatti, richiede agli individui in esso coinvolti di mostrarsi sempre più fluidi e adattabili alle esigenze della situazione, portando alla definizione della cosiddetta protean career (carriera proteiforme; Hall, 1986, 1996, 2002; Hall e Mirvis, 1995). Si tratta in pratica di una forte elasticità e capacità da parte del lavoratore di gestire molteplici identità e ruoli lavorativi (Hall, 1976, 2002; Hall e Mirvis, 1995; Mirvis e Hall, 1994): in contrasto con la concezione tradizionale di carriera che risponde a un contratto di tipo paternalistico tra datore di lavoro e lavoratore, la realtà del lavoro attuale mette l’individuo di fronte a un’esperienza di carriera autogestita e senza confini precisi (boundaryless career), composta da differenti posizioni all’interno di più organizzazioni (Arthur, 1994; Arthur e Rousseau, 1996; Hall, 2002; Leana e Rousseau, 2000; Mirvis e Hall, 1994). Le distinzioni tra lavori, organizzazioni e ruoli che l’individuo ricopre si fanno sempre meno nette ed entra in gioco la necessità di negoziare un numero sempre più ampio di transizioni di ruolo (Ashforth, 2001). In questa prospettiva, la capacità di adattarsi è essenziale per ottenere un successo nella propria carriera (Hall, 2002; Pulakos, Arad, Donovan e Plamondon, 2000) e, sebbene tale adattamento tradizionalmente sia stato concepito come risposta a un mutamento nel proprio ambiente, oggi prevale l’idea di una proattività in cui gli individui sono agenti di cambiamento orientati a migliorare la propria condizione lavorativa (Bateman e Crant, 1993; Crant, 2000; Frese e Fay, 2001; Morrison e Phelps, 1999; Saks e Ashforth, 1997).

Fugate, Kinicki e Ashforth (2004) propongono pertanto il concetto di employability (che potremmo tradurre come “impiegabilità”) per indicare una serie di costrutti che facilitano il lavoratore nel processo di adattamento ai cambiamenti nella sfera lavorativa. Si tratta di un costrutto psicosociale che trova spazio nell’interfaccia tra individuo e lavoro, e pone l’enfasi sullo spostamento della responsabilità dal datore di lavoro al lavoratore per lo sviluppo di carriera. Le dimensioni dell’employability sono orientate al miglioramento proattivo della situazione da parte del lavoratore e allo sviluppo di una “malleabilità” che gli consenta di rispondere alle richieste del suo ambiente (Chan, 2000; Seibert, Kraimer e Crant, 2001).

5.1 Le basi dell’employability

Come precedentemente accennato, l’employability è una forma di adattabilità lavorativa attiva che consente ai lavoratori di concretizzare le opportunità di carriera che si presentano loro, facilitando la mobilità all’interno di un’organizzazione e tra più organizzazioni e di conseguenza aumentando le probabilità di impiego di un individuo (Fugate, Kinicki e Ashforth, 2004). Il costrutto di employability si basa principalmente sui concetti person-centered di adattabilità attiva e proattività (Ashford e Taylor, 1990; Crant, 2000).

Secondo Ashford e Taylor (1990), i lavoratori che affrontano una transizione devono confrontarsi attivamente col proprio ambiente di lavoro cercando di mantenere tre condizioni necessarie per l’adattamento. In primis, sono necessarie informazioni adeguate sull’ambiente lavorativo, sullo status del lavoratore e sulle sue relazioni all’interno dell’ambiente stesso. In secondo luogo, i lavoratori devono avere una disposizione adeguata all’adattamento, ovvero possedere una serie di attributi individuali (come ad es. ottimismo e senso di autoefficacia) e schemi cognitivi che consentano di affrontare la sfida di un cambiamento. Infine, I lavoratori devono mostrarsi flessibili e in grado di modificare cognizioni, affetti e comportamenti qualora se ne presentasse la necessità. Fugate e coll. (2004) espandono questo costrutto includendo il concetto di identità di carriera, ovvero la definizione di sé in un contesto lavorativo in termini di “chi sono/chi voglio essere” che può motivare l’individuo ad

adattarsi per raggiungere o creare le opportunità che coincidono con le proprie aspirazioni (si veda anche Ashforth e Fugate, 2001). L’identità di carriera agisce su tutte e tre le condizioni sopra descritte: le informazioni raccolte sull’ambiente lavorativo devono essere infatti rilevanti per un’identità saliente (Ashforth e Fugate, 2001; Berzonsky, 1990, 1992); parallelamente, l’identità di carriera funge da collante per le caratteristiche individuali che predispongono al cambiamento, e le opzioni di cambiamento con cui l’individuo si confronta sono valutate in funzione della loro coerenza con le identità di carriera salienti (Ashforth e Fugate, 2001).

L’employability predispone inoltre il lavoratore ad adattarsi o modificarsi in modo proattivo. La ricerca ha più volte evidenziato come un orientamento proattivo abbia ricadute positive sulla performance lavorativa e sugli esiti di carriera (Crant, 1995, 2000; Seibert, Crant e Kraimer, 1999). Gli individui proattivi hanno minori difficoltà ad adattare la situazione lavorativa ai propri bisogni, mostrandosi inclini ad apprendere e a sfruttare attivamente ogni elemento in grado di modificare la situazione in modo da raggiungere l’identità desiderata sul piano lavorativo. Allo stesso modo, sono più flessibili nel modificare cognizioni e comportamenti al fine di ottimizzare sia la situazione che gli outcome prevedibili (Fugate et al., 2004). L’orientamento proattivo ha un effetto positivo anche sul senso di incertezza e ansia (Saks e Ashforth, 1996), migliorando di conseguenza anche la soddisfazione per il proprio lavoro e riducendo le intenzioni di abbandonarlo (Wanberg e Kammeyer-Mueller, 2000). I lavoratori proattivi percepiscono un maggiore controllo della situazione (Aspinwall e Taylor, 1997; Crant, 2000), affrontando in modo più positivo il cambiamento organizzativo (Fugate, Kinicki e Scheck, 2002; Terry, 1994) in quanto si percepiscono in grado di identificare un ampio spettro di alternative di carriera e raggiungere quelle a cui sono interessati.