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conclusione ermeneutica e libertà

Porsi nei confronti della vita è un gesto di per sé filosofico. L’uomo vive per lo più nell’inconsapevolezza del proprio vivere, avvertendolo come vita propria, nel sentimento e nel volere, ma senza autoriflessione. La vita appare come enigma a chi la guarda negli occhi. Questo volgere lo sguardo è un’eredità che unisce ogni pensatore all’altro, nel presente come nel passato e nel futuro. Il nome di questa eredità vivente è filosofia. Ovunque qualcuno abbia voluto, dice Dilthey, risolvere l’enigma della vita e del mondo, tentando di farlo in un sapere universale, lì si è data filosofia. «Si tratta di un antico funesto legame. Il filosofo insegue un sapere universalmente valido e, grazie ad esso, una decisione circa gli enigmi della vita. Questo nodo va sciolto».136

La filosofia cambia forma, sposta i propri interessi e rinnova i suoi stru- menti metodici. Cos’è filosofia? È una domanda che rimane aperta, perché le risposte sono molteplici, tramandate dalla storia e echeggianti nel presente. È la domanda stessa che di volta in volta si pone da sé. Dilthey presenta la filosofia come funzione dell’umanità-società. Essa ha il suo posto specifico. Per portarlo a termine guarda la vita e cerca di risolverne l’enigma. Non importa in quale forma, e in che direzione: sono tutti lati della verità. La sua pretesa deve essere questa: raggiungere la verità (sciogliere l’enigma), sapendo di essere un solo lato del tutto.

Al di là di questo sapere universalmente valido si pongono le domande circa la persona, che alla fin fine, di fronte alla vita e alla morte è sola con se stessa. La risposta a queste domande sussiste solo nell’ordine delle visioni del mondo che esprimono la multilateralità della realità per il nostro intelletto, in diverse forme, che si riferiscono a una verità una. Quest’ultima è inconoscibile, ogni sistema si involge in antinomie. La coscienza istorica spezza le ultime catene che filosofia e scienza naturale non hanno potuto lacerare. L’uomo è ormai del tutto libero. Ma, insieme, essa salva all’uomo l’unità dell’anima, lo sguardo in una connessione della cose, ancorché imperscrutabile, tuttavia evidente alla vitalità del nostro essere. Possiamo consolarci onorando in ciascuna di queste visioni del mondo una parte della verità. E, se il corso della nostra vita ci offre solo singoli lati dell’imperscrutabile connessione, – se la verità della Weltanschauung che tale lato esprime ci colpisce vivamente, possiamo tranquillamente affidarci ad essa: in tutte è presente la verità.137

Essere un solo lato del tutto, connessione col resto della vita (cultura, arte etc.); non avere un’unica forma e un unico metodo; questo è la filosofia,

136 Wilhelm Dilthey, «Traum», in Gesammelte Schriften, vol. VIII: Weltanschauungslehre. Abhandlungen zur Philosophie der Philosophie, a cura di Bernhard Groethuysen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1931, p. 220-226.

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l’eredità di Dilthey — eredità di libertà. La vita si dà in manifestazioni, e Dilthey non intende mutilarla in nessun modo. L’esperienza di vita nella sua interezza è la base fondativa del suo filosofare. Questo, secondo Dilthey, non è stato mai fatto dalla filosofia: porre la vita in ogni suo aspetto, anche quelli tradizionalmente considerati “non-filosofici”. Porre davanti all’occhio filosofico il non-dato del dato; tematizzare ciò che non è stato tematizzato e che ora diviene possibile per la coscienza. Una coscienza, quella storica, che ha raggiunto una consapevolezza: non si troverà nessuna verità dalla semplice introspezione; che cos’è l’uomo ce lo dice la storia.

La storia. Nessun assoluto, nessuna totalità prima dell’individuo. Nessun astratto individuo prima della totalità. Entrambi gli estremi sono frutto di astrazioni, ideologie; non guardano i fatti della storia, non stanno “coi piedi per terra”. La terra invece ci mostra un mondo spirituale, cresciuto con l’umanità. L’individuo si dà qui, in questo mondo. Nel singolo si da il tutto; e nel tutto si dà il singolo; non c’è prima o dopo. Questo tutto non è però una coincidenza assoluta, idealismo: il tutto è la sua articolazione, in cui “si tiene insieme”. Il significato è questo rapporto: la parte significa perché è parte-del-tutto; e il tutto ha significato perché è tutto-nelle-con-le-parti.

Ebbene, la dedizione filosofia (Hingabe) è volontario stacco dalla vita. La dedizione è quel salto esistenziale con cui Heidegger descrive la filosofia, per il quale ci si pone dappresso le possibilità più proprie della vita stessa.138Questo

gesto è per Dilthey una liberazione (Freigebung).139In Sein und Zeit liberazione

e libertà sono date per Heidegger come un aver-cura per la cura dell’altro, e nella Vom Wesen der Wahrheit come un lasciar-essere l’ente: lasciar-vivere, permettere-l’esistenza, renderla possibile.140Porsi di fronte all’enigma della

vita quindi, per Dilthey, è volontaria (libera) dedizione alla vita stessa. Per quanto enigmatica, essa è ciò che ci tiene occupati. La filosofia è la lunga soluzione all’enigma, che dai suoi albori ad oggi scrive nuove bozze, stende nuovi progetti.

La filosofia però non è sola. Essa lo fa nella sua veste peculiare, tentan- do un sapere universale e guardando la vita nella sua totalità (arrivando purtuttavia ad un solo “lato” di verità). «La filosofia mostra un duplice vol- to. L’incancellabile impulso metafisico punta alla soluzione dell’enigma del mondo e della vita; in questo i filosofi sono affini ai religiosi e ai poeti. Ma il filosofo si distingue da questi perché vuole risolvere l’enigma tramite un sapere universalmente valido. Questo è l’antico legame che noi oggi vogliamo sciogliere».141La filosofia è un elemento dell’umano, un sistema di cultura, il 138 Heidegger, «Was ist Metaphysik?» cit., p. 77.

139 GS I; Einleitung, p. 765 (p. 385).

140 «Questo prendersi cura, che riguarda essenzialmente l’autentica cura (cioè l’esisitenza) dell’altro e non un che-cosa, che esso pro-curi, aiuta l’altro a diventare, nella sua cura, perspicuo a se stesso e libero per essa». Heidegger, Sein und Zeit cit., p. 355 (p. 122); «La libertà ora si scopre come il lasciar-essere dell’ente». Martin Heidegger, «Vom Wesen der Wahrheit», in Gesamtausgabe, vol. IX: Wegmarken, a cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1976; trad. it. Dell’essenza della verità, in Segnavia, a cura di Franco Volpi, IV ed. Adelphi, Milano 2002, p. 143.

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suo significato si dà nella connessione col tutto. Con la poesia, la letteratura, l’arte e la religione. Ogni manifestazione della vita, in quanto tale, mostra un lato della vita stessa. Il merito di Dilthey è quello di consegnarci in primis il compito di guardare la vita nel suo articolarsi storico-sociale e culturale come evidenze della vita stessa, manifestazioni vitali; la comprensione del significato deve allargarsi a tutto ciò, e quindi trovare nella storia delle idee, dei concetti, dei sistemi, delle filosofie non un esercizio compilativo, bensì un atto ermeneutico della vita. L’ermeneutica è la possibilità di rivivere, portar in vita ciò che non lo è più e di cui abbiamo traccia.

Dicevamo dunque della dedizione filosofica. La dedizione si accompagna a un’altra possibilità: la «libera negazione della nostra egoità».142Così facendo,

dice Dilthey, ci si accorge di non essere necessitati dalla natura. Liberazione (Freigebung): accorgersi del proprio poter-essere. Libertà è dunque questo poter-essere, nel suo permettere il poter-essere.

La dedizione (Hingabe) è dunque dono (Gabe), e compito di chi si pone di fronte all’enigma della vita. I limiti della conoscenza finiscono nella tragicità della propria finitezza. Svaniscono le pretese filosofiche? Al contrario. Assunti questi stessi limiti, dove la conoscenza è tragedia, lì la libertà è autocoscienza. La dedizione (Hingabe) nella storia diviene compito (Ausgabe) in quanto dono (Gabe). Questa è l’umanità, l’uomo — il mondo spirituale. Mondo di necessità naturale, ma anche necessità del pensiero; libertà del sentimento e della volontà. Mondo che è un’unica connessione.

Il filosofo, nel mezzo della connessione spirituale in cui vive, è parte di una funzione, la funzione della filosofia stessa. Funzione per la società, che non dimentichiamolo, significa funzione per la vita spirituale tutta, quindi per la storia, per l’uomo. La sua funzione è dunque quella di indicare, nel tentativo di risolverlo, l’enigma della vita e del mondo; e così facendo testimoniare la libertà del poter-essere. L’idea stessa di filosofia dataci da Dilthey ne è la prova. Non si decide una volta per tutte che cos’è filosofia. Si indica, semmai, la funzione, il fine del far filosofia. Il “come” invece, quello ce lo insegna la storia e la vita. Sezionare i sistemi della filosofia pretendendo di ricavarne i canoni di ortodossia filosofica è come voler trovare la causa di una poesia sezionando un uomo.

Analizzare significa distinguere e dividere in parti semplici. La metafisica pretende di analizzare e sussumere in un secondo momento ciò che ha rica- vato in categorie universali. La pretesa fallimentare della metafisica, la sua contraddizione interna, per Dilthey sta proprio in questo processo. Dall’analisi la vita viene smembrata, “fatta a pezzi”. Ciò che si trova non è più vita, che in quanto tale si dà nell’interezza. Pretendere di ricreare la vita dai frammenti analizzati è lo sbaglio fondamentale. Proprio in questo atto di sintesi inter- vengono astrazioni, ipotesi: creazioni ad hoc per dar ragione di una ricercata coerenza logica — per appagare il bisogno della volontà di conoscenza.

La vita così si perde. Solo la vita intera è vita; che é l’uomo. La scienza ne- cessita dunque ora di un nuovo metodo. Com’è possibile analizzare (momento

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imprescindibile della ricerca, sia essa naturalistica, storica, o filosofica), senza cadere da una parte nel gretto naturalismo (che pretende di ricomporre la vita dagli atomi separati), dall’altra in una metafisica (che all’opposto riunisce il sistema in coerenze logiche sovradeterminate), l’oggetto di conoscenza più instabile, enigmatico che ci sia: l’uomo (in quanto vita)?

Qual è quel metodo che tiene insieme la vita senza assolutizzarla in una metafisica, in un’unica storia, e che sa mantenere il fondo di libertà che caratterizza la vita stessa nell’uomo? L’ermeneutica. Essa è un portar-a-vita, e non un frammentare-in-morte (analisi). Ri-vivere e trasposizione del Sé (della propria vita), allargando il proprio sé nell’esperienze che ci sono consegnate (storia), date (spirito oggettivo) e proiettate (possibilità-di-essere e futuro).

Mentre Heidegger declama la fine della filosofia, in quanto metafisica, aspettando un nuovo Pensiero, Dilthey prospetta un pensiero nuovo, ma con la “p” minuscola. Non una radicale possibilità del pensare, a cui “mancano le parole”, ma una filosofia, certamente nuova, consapevole di essere parte del tutto. Essa arriverà perché non può che essere così: la sua funzione sarà sempre quella; ciò che cambierà è il modo in cui in questa eredità di volta in volta i filosofi e le filosofie prenderanno la parola.

L’ermeneutica è il modo di tenere insieme la vita nelle sue manifestazioni. Essa è il portare-in-vita, mantenere nella diversità data la connessione con la vita tutta; diviene quindi un salvare il fenomeno per come è, senza recidere la connessione strutturale. Senza quest’ultima non si da significato. Se per risol- vere l’enigma ci serve il senso dell’enigma, ebbene, occuparsi della soluzione significa approssimarsi allo sfondo di rimandi che l’enigma indica.

Il compito è dedizione, libera possibilità di staccarsi dall’ente (meta-fisica). In un certo senso ermeneutica diviene una liberazione dalla morte — nel suo donare nuovamente vita. In questo senso fare filosofia non potrà essere che un compito da cominciare sempre daccapo. Essa è una figura storica che tiene insieme generazioni, mosse da tale compito.

Ricominciare dunque con le analisi, per poi farne ermeneutica, ovvero lasciar essere nelle proprie possibilità, allargare l’esperienza all’Altro-da-sé mantenendolo nella propria autonomia, nel proprio poter essere. Ancora di più, lasciare-essere come un donare-la possibilità-di-essere. Se Heidegger parla di «essere-alla-morte»143come dimensione autentica della vita; Koselleck di

«essere-per-l’omicidio»144a integrazione della categoria heideggeriana; l’erme-

neutica di Dilthey è «essere-per-la-vita». Il che significa avere a che fare anche con la morte (enigma della vita), ma innanzitutto con la possibilità di “dare la vita” alla morte. L’esperienza ermeneutica in Dilthey è un dare-la-vita, morte e resurrezione (nella comprensione del significato): soltanto nella mia vita posso comprendere. Ciò che è compreso è tale perché è da me vissuto, vive in me. Vivere in me non significa vivere nel chiuso dell’interiorità. Significa vivere

143 Heidegger, Sein und Zeit cit.

144 R. Koselleck e H.-G. Gadamer, Hermeneutik und Historik, Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-Historische Klasse, Carl Winter Universitätsverlag, 1987; trad. it. Ermeneutica e istorica, tr. di Paola Biale, Il Melangolo, 1990.

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nel chiuso/aperto dell’esperienza interna, che è originariamente connessione con la totalità della vita.

Ermeneutica è questo essere-per-la-vita. Comprendere significa rifuggire da assoluti e ideologie, e ricollocare parte e intero nella loro connessione. Comprendere il significato è un comprendere le connessioni parti-tutto, e non “cose”; è comprendere il “come” e non il “cosa”. La vita si dà in moltepli-

ci “come”. Autenticità non è essere-per-la-morte, ma, viceversa [umgekehrt] essere-per-la-vita. L’ermeneutica non è metodo, bensì verità. Storicità significa ricercare tale verità in ogni lato che, storicamente, si è dato. Ogni lato della ve- rità è anche totalità; come in ogni individuo la vita è data per intero. Interezza e non generalità.

Ogni manifestazione, per la sua interezza di vita, è verità espressa, con- nessione possibile, possibilità di vita. Essere-per-la-vita è quindi la risposta filosofica all’enigma del mondo dopo la caduta della metafisica e nella società contemporanea. La molteplicità delle manifestazioni di vita, dalla cultura (multiculturalità), le differenti pratiche (comunicative, sociali, politiche), neces- sitano di un pensiero che sappia tenere insieme la molteplicità “con intenzione filosofica”. «Emerge allora la plurivocità senza fine della materia storica».145

Dilthey ci consegna questo pensiero.

La filosofia persegue il suo compito con dedizione, in quanto gesto di li- berazione. Su questo fondamento è in grado di affrontare il proprio periodo storico-culturale e rinnovare la propria missione. «Qui noi cerchiamo l’uo- mo».146 Tenere insieme tutte le possibilità d’essere dell’uomo, e quindi la

sua libertà, è compito ora di una filosofia che, da questo punto di vista, si fa ermeneutica. Se Heidegger passa dalla possibilità più propria dell’uomo (la morte), per comprendere tutte le altre possibilità d’esistenza (libertà); con Dilthey siamo di fronte ad un’ermeneutica che pensa a tutte le possibilità d’esistenza dell’uomo (libertà), per comprendere la vita stessa (vita). Vivere e lasciar-vivere.

Più affaticata che mai, la stirpe degli uomini cerca di leggere nel misterioso e imperscrutabile volto della vita, con la bocca che ride e l’occhio dallo sguardo malinconico. Ebbene sì, amici miei, andiamo verso la luce, la libertà e la bellezza dell’esistenza. Ma non in un nuovo inizio, scuotendo via il passato! I vecchi dèi dobbiamo portarli con noi in ogni nuova patria. Vive pienamente solo chi si dona. [. . .]La melodia della nostra vita è condizionata dalle voci del passato che l’accompagnano. Dal tormento dell’attimo e dalla fuggevolezza di ogni gioia l’uomo si libera solo dedicandosi alle grandi potenze objettive che la storia ha prodotto. Dedizione a queste potenze, non soggettività dell’arbitrio e del godimento: qui è la riconciliazione della personalità sovrana col corso del mondo.147

145 GS I; Einleitung, p. 374.

146 GS VII, Der Aufbau, p. 372-73 (p. 277-78). 147 Dilthey, «Traum» cit.

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