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In questo capitolo ho tentato di dare le coordinate di base del concetto di interpretazione evolutiva, fornendone se non una definizione precisa, almeno un modello che possa rendere conto del suo funzionamento, o meglio, di come a mio avviso dovrebbe funzionare, dal momento che, come si è intravisto nelle pagine precedenti e come si vedrà in maggior dettaglio in quelle che seguono, la giurisprudenza internazionale non ha applicato in maniera sempre coerente il principio di interpretazione evolutiva. Si tratta in effetti di un’idea complessa e di non immediata comprensione, e allo stesso tempo tanto necessaria per mantenere il diritto vitale e al passo coi tempi che non ci si può esimere dal darle concreta attuazione. Si è quindi assistito al moltiplicarsi degli episodi in cui i giudici internazionali hanno ritenuto opportuno (o essenziale) optare per un’evoluzione del significato delle norme portate alla loro attenzione, senza purtroppo che a quest’azione corrispondesse un’analisi adeguata dei presupposti teorici di tale mutamento. Come si è visto, lo stesso si può dire della dottrina, che si avvale molto spesso di una nozione non meditata di interpretazione evolutiva, un’idea che, a livello superficiale, è oggetto di consenso tanto da risultare stereotipata (e, va aggiunto, di scarsa utilità ai fini pratici), mentre nella letteratura specialistica è spesso trattata in modo non esaustivo e talvolta insoddisfacente. In altre parole, l’accettazione pressoché universale del metodo interpretativo dinamico non è accompagnata dalla condivisione (o forse dalla comprensione) dei suoi fondamenti teorici, che restano ancora piuttosto nebulosi.

Perciò in questo primo capitolo ho provato a delineare le caratteristiche dell’interpretazione evolutiva, cominciando da quelle che ritengo i suoi possibili effetti giuridici al fine di giustificare l’esistenza di una categoria intermedia tra interpretazione e modifica del diritto. Mi sono poi cimentato nel compito di fornire una formula il più possibile coerente e sensata di interpretazione dinamica, prendendo spunto dalla giurisprudenza internazionale (alla quale, peraltro, ho rivolto un certo numero di critiche) e individuando i tre elementi di base di cui la

nostra idea è costituita: il referente interno il cui significato verrà fatto evolvere, il mutamento esterno che indica la direzione di tale evoluzione, e il fattore giustificativo che ci dice perché è giusto tenere in considerazione il mutamento. Ho infine «riempito» quella formula con i materiali interpretativi che stanno alla base di ogni attività ermeneutica – e quindi anche quella evolutiva – a livello internazionale, e che sono così ben riassunti dall’articolo 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati: testo (cioè linguaggio), contesto (nelle sue varie accezioni), scopo e prassi successiva.

Ho cercato nella misura del possibile di restituire un’immagine articolata e verosimile del fenomeno che mi sono proposto di studiare, talvolta avanzando sottili distinzioni120 che non sempre trovano riscontro – non palese, almeno – nella prassi giurisprudenziale o anche nella letteratura. Questo comporta che non tutti gli elementi di questa costruzione teorica saranno presenti nei prossimi due capitoli, dedicati rispettivamente al sistema dell’Organizzazione mondiale del commercio e a quello della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti, se il mio obiettivo, in questa sede, è stato quello di elaborare (anche indicando i canoni che ritengo opportuno seguire) le basi dell’interpretazione evolutiva, nel prosieguo dell’elaborato si osserverà (con un approccio tendenzialmente descrittivo) come essa funziona all’interno di due contesti molto particolari e dalla natura assai diversa. Per esempio, si noterà che uno dei fattori di cui si è tenuto maggiormente conto in questo capitolo – la volontà degli Stati vincolati dalla norma da interpretare – sarà, forse sorprendentemente, più presente all’interno del sistema della CEDU rispetto a quello dell’OMC121, se non altro per l’uso estensivo che i

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Mi riferisco, per esempio, ai discorsi fatti sui concetti di volontà e prevedibilità e sul loro rapporto con la dicotomia oggettivo/soggettivo (v. supra, par. 4.1), a proposito delle varie accezioni della parola «contesto» (par. 5.3) oppure sull’elusività dell’idea di prassi successiva (par. 5.4).

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Anche se in maniera del tutto peculiare, dato che ciò che rileva, per la Corte europea, non è la volontà storica ma quella successiva (la volontà, insomma, che abbiamo incontrato supra, par. 5.5), testimoniata dall’esistenza di un consenso. L’impostazione sembra confermata dalla letteratura. Prebensen, per esempio, non si concentra sull’idea di volontà delle parti – su cui di solito si focalizza l’attenzione, indagandone la compatibilità con l’interpretazione evolutiva – ma su quella di prevedibilità, definendo l’interpretazione dinamica come «an interpretation capable of broadening the Convention guarantees beyond what one may assume the Contracting States foresaw when they acceded to the Convention» (S.C. Prebensen, Evolutive Interpretation of the European

Convention on Human Rights, in P. Mahoney, F. Matscher, H. Petzold e L. Wildhaber, Protection des droits de l’homme: la perspective européenne. Mélanges à la mémoire de Rolv Ryssdal, Heysmanns, Köln-Berlin-Bonn-

München 2000, p. 1124). Anche Brems tira in ballo questo concetto relativamente poco usato («the contracting parties could not foresee these evolutions in their obligations»), notando giustamente come la Corte europea dei diritti dell’uomo si curi poco della volontà originaria delle parti, preferendo accantonare l’approccio storico

giudici di Strasburgo fanno dell’interpretazione evolutiva (e, di conseguenza, per la maggior esigenza di darvi un fondamento).

Naturalmente, ciò non significa che non tenterò, occasionalmente, di sottolineare quelli che ritengo i punti deboli di questa prassi e della teoria che la commenta, o di porre l’accento sui problemi ancora aperti, provando a fornirne una soluzione. In altre parole, ciò non significa che mi asterrò dall’adottare, anche in seguito, un approccio almeno in parte prescrittivo. Come affermato nell’introduzione, infatti, lo scopo del presente elaborato è anche quello di sviluppare uno schema interpretativo coerente che dia conto delle specificità dei self-

contained regime senza per questo abbandonare la critica delle posizioni – assunte da giudici

o commentatori – che mi sembrano meno fondate. Del resto lo stesso spirito ha pervaso le pagine fin qui scritte.

all’interpretazione (E. Brems, Human Rights: Universality and Diversity, Martinus Nijhoff, The Hague 2001, p. 396).