• Non ci sono risultati.

La teoria dei concetti autonomi

Capitolo III: L’interpretazione evolutiva nella Convenzione europea dei diritt

3. La teoria dei concetti autonomi

Nel paragrafo precedente si è visto come, a dispetto del sempre maggior rilievo che la prassi successiva ha assunto nell’argomentazione delle sentenze della Corte europea, per quest’ultima sia importante mantenere un certo grado di indipendenza nei confronti degli Stati contraenti. L’assoluta deferenza verso l’interpretazione che le parti danno dei propri obblighi pattizi risulterebbe esiziale per una tutela rigorosa dei diritti degli individui. A questo fine la Commissione europea dei diritti dell’uomo36 ha elaborato una teoria che le permette di «mettere in sicurezza» il significato delle disposizioni della Convenzione dall’opinione divergente degli Stati (opinione che, come si è visto, sarebbe suscettibile di venire in rilievo come prassi successiva). Si tratta della teoria dei concetti autonomi, secondo la quale le parole e le espressioni di cui si compone la Convenzione vivono un’esistenza autonoma rispetto ad analoghe parole ed espressioni provenienti dalle legislazioni interne degli Stati membri. Nel caso Engel c. Germania, riguardante la corretta definizione delle nozioni di «criminal charge» e di «civil rights and obligations» ai fini della presunta violazione del diritto a un equo processo, la Commissione sottolinea che quelle formule:

cannot be construed as a mere reference to the domestic law of the High Contracting Party concerned but relate to an autonomous concept which must be interpreted independently, even though the general principles of the High Contracting Parties must necessarily be taken into consideration in any such interpretation37.

c. Irlanda, sentenza del 18 dicembre 1986, ricorso n. 9697/82, par. 53). Se non si vuole ipotizzare un ricambio

delle norme che presiedono all’interpretazione della Convenzione, bisogna intendere l’espressione «evolutive interpretation» come l’insieme di pratiche interpretative non basate sulla prassi successiva: per esempio, l’utilizzo dei termini per definizione evolutivi (nel caso in esame, infatti, si parlava della « somewhat vague notion of ‘respect’ for family life»: ivi, par. 57).

36

Istituita nel 1954, cinque anni prima che la Corte vedesse la luce, la Commissione ha svolto per lungo tempo un ruolo significativo nell’esigere il rispetto della Convenzione. Dall’entrata in vigore del Protocollo n. 11 (1998) la Corte è divenuta l’unico organo abilitato a ricevere i ricorsi per la violazione di una norma del trattato.

37

Ventuno detenuti c. Repubblica Federale di Germania, sentenza del 6 aprile 1968, ricorsi congiunti nn. 3134/67, 3172/67, 3188–3206/67, par. 4.

La categorizzazione operata dallo Stato convenuto ha quindi, secondo la Commissione, un valore meramente orientativo, ma non può in alcun modo vincolarla nella sua decisione. L’infrazione degli obblighi posti dal trattato deve avere come parametro ultimo il testo della Convenzione, il cui significato non può, per ovvi motivi, essere lasciato nelle mani del potenziale violatore. Questo approccio è stato confermato a più riprese dalla Corte europea, anche in tempi molto recenti. Nel caso Kafkaris c. Cipro, per esempio, i giudici ribadiscono il concetto, sostenendo che «[t]o render the protection […] effective the Court must remain free to go behind appearances», conferendo all’idea di «sanzione» («penalty») un significato indipendente da quello attribuito dalle leggi interne dello Stato convenuto38. Lo stesso ragionamento è stato fatto valere per le nozioni di, tra le altre, «domicilio»39, «detenzione regolare»40, «espulsione»41 e «associazione»42. Tuttavia ormai i casi sono piuttosto numerosi ed è inutile, ai fini di questo elaborato, stilare un elenco esaustivo delle espressioni dichiarate autonome.

Ciò che è più interessante, invece, è stabilire quale relazione intercorre tra la teoria dei concetti autonomi e la prassi successiva degli Stati. In prima battuta si è tentati di dire che un concetto autonomo funge da limite alla possibilità di ricorso alla prassi in funzione interpretativa. In quanto portatore di un significato slegato da quello valido sul piano del diritto interno, il concetto autonomo sembra prima facie del tutto disinteressato al modo in cui gli Stati legiferano. A ben guardare, però, la teoria in esame si limita a dire che il contenuto di un’espressione scritta nella Convenzione non deve essere necessariamente identico a quello della corrispondente espressione di diritto interno: il che non vuol dire, va da sé, che esso deve essere necessariamente diverso. Nel momento in cui il legame obbligatorio tra concetto di diritto internazionale e concetto di diritto interno viene reciso, rimane aperto il problema di come attribuire significato al primo. La presa in considerazione della prassi degli Stati

38

Kafkaris c. Cipro, sentenza del 12 febbraio 2008, ricorso n. 21906/04, par. 142.

39

Gillow c. Regno Unito, sentenza del 24 novembre 1986, Serie A n. 109, par. 46 (per un’affermazione del principio un po’ «velata»), e, più di recente e più apertamente, Paulić c. Croazia, sentenza del 22 novembre 2009, ricorso n. 3572/06, par. 33. Al concetto di domicilio la Corte ha affiancato quello di residenza, al quale ha esteso l’autonomia di significato: Nolan e K. c. Russia, sentenza del 12 febbraio 2009, ricorso n. 2512/04, par. 110.

40

Eriksen c. Norvegia, sentenza del 27 maggio 1997, ricorso n. 17391/90, par. 74 (ove si definisce concetto autonomo anche il termine «alienato»).

41

Bolat c. Russia, sentenza del 5 ottobre 2006, ricorso n.14139/03, par. 79.

42

Chassagnou e altri c. Francia, sentenza del 29 aprile 1999, ricorsi congiunti nn. 25088/94, 28331/95, 28443/95, par. 100.

membri del Consiglio d’Europa rimane dunque un’opzione percorribile: una tra le tante ma non per questo meno realistica43.

Per quanto dotata di un effetto pratico per nulla irrilevante, possiamo dire che nell’ottica del nostro discorso la teoria dei concetti autonomi svolge una funzione sostanzialmente retorica44. Il suo scopo è quello di arginare le pretese di conformità col proprio diritto interno avanzate dallo Stato convenuto, e di restituire l’espressione in esame al normale processo interpretativo. Come si è appena detto, quest’ultimo contempla la possibilità che la prassi successiva delle parti intervenga e contribuisca a delineare l’esito dell’interpretazione. A dispetto delle apparenze, i concetti autonomi non precludono dunque il ricorso all’articolo 31(3)(b) della Convenzione di Vienna (o meglio, alla «versione europea» di quella disposizione), cosa di cui, del resto, i giudici di Strasburgo sembrano essere consapevoli45. Vediamo se lo stesso vale per la dottrina del margine di apprezzamento, la cui presenza è

43

Per una lista (ricca ma dichiaratamente incompleta) delle possibilità interpretative in campo, si veda G. Letsas,

A Theory of Interpretation of the European Convention on Human Rights, Oxford University Press, Oxford

2007, p.

44

Il che – ci tengo a sottolinearlo – non significa che l’istituzione di un regime di separazione tra la sfera del diritto interno e il sistema europeo di protezione dei diritti umani sia cosa da poco. A ciò si aggiunga un altro eventuale effetto pratico della teoria in oggetto sull’attività giudiziale della Corte: la facoltà di quest’ultima di sindacare l’interpretazione di un tribunale interno. Com’è noto la Corte europea può essere azionata solo previo esaurimento dei ricorsi interni (v. R. Pisillo Mazzeschi, Esaurimento dei ricorsi interni e diritti umani, Giappichelli, Torino 2004), il che vuol dire che una violazione della Convenzione si perfeziona solamente al momento dell’emissione del giudizio di ultima istanza. Anche in funzione di questo i giudici di Strasburgo (che peraltro hanno più volte affermato la loro volontà di non fungere da tribunale di quarto grado) considerano un dato fattuale l’interpretazione che le corti interne danno delle leggi dei rispettivi Paesi: si ha violazione se la loro lettura confligge con quella che la Corte dà del proprio trattato. In un recente caso, però, il giudice europeo ha stabilito, seppure in modo abbastanza indiretto, che la natura autonoma dei «diritti di carattere civile» («civil rights») ex art. 6 della CEDU fa sì che in presenza di « strong reasons» egli sia titolato a prendere le distanze «from the conclusion reached by those courts by substituting its own views for those of the national courts on a question of interpretation of domestic law […] and by finding, contrary to their view, that there was arguably a right recognised by domestic law» (Roche c. Regno Unito, sentenza del 19 ottobre 2005, ricorso n. 32555/96, par. 120).

45

Per esempio, in un caso la Corte ha ribadito che «the rights deriving from the Convention should be interpreted not only in relation to the State's domestic law but also independently of it […]. On numerous occasions it has also stressed the importance of an evolutive approach to the interpretation of the Convention, in the light of today's living conditions, to avoid excessive reliance on historical interpretations» (Emonet e altri c.

Svizzera, sentenza del 13 dicembre 2007, ricorso n. 39051/03, par. 83). La dottrina dei concetti autonomi e la pratica dell’interpretazione evolutiva sembrano dunque andare nella stessa direzione.

forse ancora più ricorrente nella giurisprudenza della Corte di quella della teoria ora esaminata.