Nando Pagnoncelli, Presidente Ipsos Italia
Abbiamo detto in premessa che quest’anno siamo forse più pessimisti del solito. Non dovremmo esserlo, in fondo stiamo parlando di un paese che, sia pure con maggiore lentezza rispetto alle altre grandi nazioni europee, sta uscendo dalla crisi.
Gli indicatori strutturali sono positivi, i comportamenti dei consumatori se-gnalano il crescere della spesa e della fiducia. Che si manifesta non solo nelle percezioni (l’indice di fiducia dei consumatori di Istat, positivo pur con tutte le avvertenze che abbiamo espresso nel testo) ma anche nei comportamenti. La crescita dei consumi avviene infatti a detrimento del risparmio. Si tratta di un dato importante: se nel periodo peggiore della crisi la risposta degli italiani è stata una crescita dei comportamenti parsimoniosi per ricostituire il capitale perduto e per prepararsi al peggio, la riduzione oggi ci dice che le famiglie sono più ottimiste, o meglio, meno preoccupate.
Allora perché il pessimismo che attraversa il testo di quest’anno?
Sostanzialmente perché la ripresa, e la ripresa di fiducia, non producono un recupero di coesione sociale, anzi.
I fenomeni che vediamo segnalano un ulteriore sfrangiamento del tessuto del nostro paese.
Siamo in una condizione di impoverimento che, con la globalizzazione, ha colpito principalmente le classi medie dei paesi occidentali, fra cui il nostro. Questo determina la percezione di un peggioramento diffuso che, come ab-biamo detto più volte, non è solo economico ma è più in generale esistenziale. Non si tratta tanto del livore o del risentimento, questo non è un dato nuovo, ne parliamo da anni. Quanto piuttosto di un sentimento profondo di impo-tenza e di inadeguatezza, che genera frustrazione. L’anno scorso parlavamo di interiorizzazione della turbolenza, cioè del fatto che oramai abbiamo con-suetudine con una condizione incerta e difficile. Questo è il sostrato. I segnali di uscita dalla crisi non comportano però una reazione a questo stato di cose. Perché la crescita non sta premiando tutti allo stesso modo. Gli indicatori ci parlano di un aumento della povertà che accompagna l’aumento della ric-chezza, di una crescita della diseguaglianza, che già caratterizzava il nostro paese. Con una presenza importante di persone che, pur avendo un lavoro, non riescono a uscire da una condizione di povertà. Diseguaglianza e povertà insistono inoltre drammaticamente sulle giovani generazioni, che stanno pa-gando un prezzo molto alto. Con una riduzione delle attese, delle speranze, della capacità di pianificare il futuro. E senza la capacità delle istituzioni, delle forze intermedie, della politica, di farsi carico di questo tema. La cam-pagna elettorale sembra avere al centro il tema delle pensioni. Tema certo rilevante, ma che non guarda al futuro del nostro paese.
Con una struttura sociale sempre più complessa e sempre meno definibile. Abbiamo visto che ci mancano anche i nomi per definire la nostra condizione sociale, non ci basta una parola (operaio, tipografo, commerciante...) per de-finirci e comunicare agli altri chi siamo. La nostra identità sociale, base della relazione con gli altri, si perde nel mare magnum della postmodernità, che azzera ma, almeno al momento, non ricostruisce. E con la sensazione di essere sempre più soli e isolati.
La politica torna indietro. La risposta al sistema tripolare, anziché una revi-sione in senso maggioritario, magari con una legge elettorale a doppio turno e un adeguamento degli equilibri dei poteri, diventa un ritorno sostanziale al proporzionale. Un tuffo all’indietro che rischia di produrre una situazione di stallo. Con forze politiche che non sanno trasmettere ipotesi identitarie, o banalmente di riconoscimento in un programma e in valori comuni. Lo vediamo nel PD, diviso e incerto sulla rappresentanza sociale e la visione del paese. Lo vediamo nel centrodestra, diviso su questioni di fondo, incapace di una solida visione comune. Lo vediamo nei pentastellati, con posizioni diverse che faticano a trovare una composizione ed esperienze non esaltanti nel governo della città.
Siamo anche un paese diviso, culturalmente oltre che socialmente. Diviso tra Nord e Sud, tra città e campagna, tra connessi e non. Certo, non è un pro-blema solo italiano, ma la nostra storia accentua queste fratture. Manca un passato, una tradizione comune.
Quindi siamo più soli, incerti, divisi. E la nostra reazione individuale, il nostro essere profondo, è ancora una volta di allontanamento e chiusura. È la fuga, il cerchio tranquillizzante, la ricerca dell’altrove. In una realtà comples-sa (e che, come abbiamo argomentato lo scorso anno, tendiamo a ricostruire a nostro uso) che non dominiamo, cerchiamo un punto fermo. Ma siamo co-stretti a modulare tante diverse identità in tanti diversi contesti. E quindi non troviamo un ubi consistam, un luogo o una condizione nella quale accasarsi. Viviamo una condizione di ansia, di timore per il futuro, per i cambiamenti che non governiamo, per le minacce che dall’esterno ci sembrano provenire. Non è una realtà solo italiana, anzi. Sembra essere una condizione occidenta-le, di quell’area del mondo, che vede oggi il suo dominio insidiato e revocato in dubbio.
Ma in Italia le cose si aggravano un po’. L’anno scorso ipotizzavamo che uscire da una condizione di incertezza e di difficoltà sarebbe stato un percorso di lungo periodo e che stava alla politica, alle classi dirigenti, all’imprenditoria, farsi carico dei disagi del paese, delle disuguaglianze, delle sofferenze. Questo non sembra essere avvenuto. Nonostante la ripresa, rimarremo ancora per qualche tempo in mezzo al guado.
Finito di stampare nel mese di gennaio 2018 da Litostampa Istituto Grafico srl - Bergamo