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La condizione dei richiedenti asilo e dei rifugiati durante la Guerra Fredda e la risposta italiana alle crisi degli anni novanta.

L’evoluzione storica del sistema nazionale di accoglienza

3.1. La condizione dei richiedenti asilo e dei rifugiati durante la Guerra Fredda e la risposta italiana alle crisi degli anni novanta.

L’Italia ha ratificato la Convenzione di Ginevra nel 1954. Nel periodo intercorso tra l’immediato dopoguerra e tale ratifica, l’Italia ha accolto, seppur temporaneamente, circa 120.000 rifugiati. In realtà, data l’assenza di organi preposti al riconoscimento dello status di rifugiato e all’accoglienza di questi ultimi, tali compiti furono svolti dall’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA) dal 1945 al 1947 e successivamente, fino al 1951, dall’International Refugee Organisation (IRO). In questo frangente storico, l’Italia non si configurava ancora come Paese di destinazione, quanto piuttosto come Paese di transito, in cui i richiedenti asilo rimanevano, in attesa

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di essere reinsediati in Stati terzi disposti ad accoglierli, quali il Canada, l’Australia, gli Stati Uniti e la Nuova Zelanda192.

Dopo lo scioglimento dell’IRO, si trovavano sul suolo italiano circa 10.000 rifugiati. Al fine di fornire assistenza a queste persone, il governo italiano avviò una collaborazione con il neonato ufficio dell’UNHCR, aperto a Roma nel 1952, e con alcune ONG. Inoltre conferì all’Amministrazione per gli aiuti internazionali (nel 1954 rinominata Amministrazione per le attività Assistenziali Italiane ed Internazionali) l’incarico di assistere i nuovi rifugiati, riconosciuti tali ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951193. Il riconoscimento dello status era affidato alla Commissione paritetica di eleggibilità (Cpe), creata nel 1952 a seguito di uno scambio di note tra il governo italiano e l’UNHCR e ufficialmente istituita con decreto ministeriale l’anno seguente194

. La Commissione era composta da funzionari del Ministero per gli Affari Esteri e del Ministero dell’Interno e da una delegazione dell’UNHCR ed è rimasta in funzione fino al 1990. In questo lungo arco di tempo, l’Italia ha continuato ad essere un Paese di transito per i richiedenti asilo, provenienti in gran parte dall’Unione Sovietica, dai Paesi comunisti dell’Europa dell’Est e dai Balcani.

Si stima che il numero complessivo dei richiedenti asilo in Italia durante la Guerra Fredda ammonti a 118.188195, cifra a cui si devono aggiungere i richiedenti non europei, giunti in Italia a partire dalla metà degli anni settanta. Tali richiedenti, in fuga da dittature e guerre, provenivano soprattutto dall’America Latina, dal Medio Oriente e dall’Indocina. La clausola geografica della Convenzione di Ginevra, applicata fino all’entrata in vigore della legge Martelli, non consentiva alle autorità italiane di esaminare le domande di asilo presentate da tali richiedenti. Per ovviare a questo impedimento, i cittadini non europei dovevano quindi presentare domanda presso la delegazione dell’UNHCR a Roma, la quale poteva riconoscere sotto mandato lo status

192

C. Hein, Storia del diritto d’asilo in Italia, in C. Hein, Rifugiati. Vent’anni di storia del diritto di asilo in Italia, 2010, Donzelli Editore, Roma, p. 33.

193 G. Ferrari, Rifugiati in Italia. Excursus storico – statistico dal 1945 al 1995. Disponibile all’indirizzo:

https://www.unhcr.it/sites/53a161110b80eeaac7000002/assets/53a164170b80eeaac700010b/Excursus_s torico-statistico_dal_1945_al_1995.pdf .

194 Ibidem.

195 C. Hein, op. cit., p. 34. In questa fase, i richiedenti asilo erano suddivisi in tre Centri di assistenza

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di rifugiato. I rifugiati così riconosciuti avevano diritto esclusivamente ad un permesso di soggiorno temporaneo, ma non avevano facoltà di accedere al mercato del lavoro ed erano esclusi da qualsiasi forma di assistenza, a cui doveva sopperire l’UNHCR.

Da notare, infine, che in questi anni il governo italiano decise di concedere eccezionalmente lo status di rifugiato, in deroga alla clausola geografica, ad alcuni cittadini non europei, tra cui 609 cileni, che si rifugiarono all’ambasciata italiana a Santiago nel 1973 a seguito del golpe di Pinochet, 3336 indocinesi e alcune decine di cittadini iracheni e afghani196.

Nel 1990 la clausola geografica venne definitivamente abrogata con l’entrata in vigore della legge Martelli, la quale provvedeva inoltre a sostituire la Cpe con la Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Fin da subito emersero alcuni problemi che tuttora affliggono il sistema di asilo italiano, primo fra tutti l’attesa esageratamente lunga per l’espletamento delle procedure di riconoscimento. Attualmente le autorità adducono come giustificazione delle lunghe attese la presenza di un numero elevato di richieste e la conseguente difficoltà del sistema di gestire flussi così consistenti, sebbene sia da chiedersi come mai, dopo ormai diversi anni di “emergenza”, non si sia pensato di aumentare ulteriormente il numero delle Commissioni territoriali e del personale delle autorità operanti nelle varie fasi della procedura. Tuttavia, nel periodo storico in esame, ovvero i primi anni novanta, il numero delle domande di asilo era di gran lunga inferiore a quelle che vengono presentate oggi, variando tra le 2000 e le 3000 richieste197. La causa di tempi così dilatati è quindi da ricercarsi altrove, ad esempio nel fatto che l’incarico, pur così importante, all’interno della Commissione centrale era considerato dai componenti di quest’ultima come un “lavoro supplementare”, svolto parallelamente ad altre attività, con la conseguenza che le sedute della Commissione erano saltuarie e scarsamente partecipate198. Ciò dimostra la concezione che il governo italiano aveva nei confronti della questione dei rifugiati, considerata un aspetto marginale, motivo per cui non si

196 Ivi, p. 36.

197 C. Hein, op. cit., p. 47. 198 Ibidem.

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investiva « nella professionalizzazione specifica dell’amministrazione pubblica e ancora meno nell’accoglienza e nell’assistenza all’integrazione »199

.

Le nuove disposizioni contenute nella legge Martelli si rivelarono presto insufficienti a gestire i primi grandi afflussi di migranti e richiedenti asilo iniziati nel 1991 e proseguiti, a fasi alterne, fino ad oggi. In questa fase, le principali aree di partenza erano i Balcani e il Corno d’Africa. In entrambi i casi, si trattava di persone in fuga da guerre o da situazioni che oggi definiremmo di “violenza indiscriminata e diffusa”. Tali persone non rientravano nelle categorie previste dalla Convenzione di Ginevra e, pur avendo bisogno di protezione, non avevano nessuna copertura giuridica circa la loro condizione. La Commissione centrale non poteva concedere loro lo status di rifugiato in quanto mancava « l’elemento della persecuzione individuale specifica, rivolta alla singola persona »200, ma non poteva neppure rimpatriarle o respingerle, in quanto avrebbe violato il principio di non refoulement. In assenza di provvedimenti legislativi in materia, il governo decise di muoversi secondo quelle logiche emergenziali più volte menzionate ed adottò delle decisioni ad hoc. È stato così nel caso dei richiedenti asilo somali, a cui il governo italiano nel 1992 concesse un permesso di soggiorno valido anche per lavoro e studio, senza però predisporre adeguate misure di accoglienza e assistenza.

Per quanto riguarda i profughi in fuga dai Balcani, la situazione fu diversa. L’Italia accolse circa 80.000 sfollati, i quali ottennero per la maggior parte un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Di questi, soltanto una minima percentuale fu ospitata nei centri di accoglienza, ma a differenza dei rifugiati somali, essenzialmente lasciati a se stessi, nel caso dei profughi provenienti dall’ex Jugoslavia ci fu una grande mobilitazione a livello nazionale, dettata sia dalla vicinanza geografica che dalla conoscenza della situazione balcanica, certamente maggiore rispetto al caso della Somalia o di altri Paesi di origine più lontani, di cui spesso l’opinione pubblica aveva, ed ha, notizie pressoché nulle. Al fine di coordinare le iniziative messe in campo a livello locale, fu deciso di creare il Tavolo di coordinamento per gli aiuti alla ex Jugoslavia, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e formato da

199 Ibidem.

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rappresentanti del governo, delle organizzazioni internazionali, degli enti locali, dei sindacati e di alcune associazioni. Anche se la creazione del Tavolo di Coordinamento fu motivato della necessità di dare un assetto uniforme alle misure attuate fino a quel momento, esso rimane certamente un’esperienza positiva, in quanto rappresenta uno dei primi tentativi di stabilire una collaborazione diretta tra le istituzioni e quanti, anche nel privato, si occupavano di accoglienza ed assistenza ai richiedenti asilo. Tra i risultati più significativi, raggiunti grazie anche alle proposte di alcune organizzazioni facenti parte del Tavolo, vi fu la circolare del Ministero dell’Interno del luglio 1995, la quale permise alla maggior parte degli sfollati dell’ex Jugoslavia di essere ammessi nel territorio italiano. Inoltre, agli uffici dell’UNHCR presenti in ex Jugoslavia fu concessa la possibilità di redigere delle “lettere di accompagnamento”, di fatto una sorta di visto di ingresso per coloro che erano considerati particolarmente bisognosi di protezione internazionale.

Per quanto riguarda la crisi del Kosovo, infine, l’approccio adottato dal governo italiano fu simile a quello appena descritto, anche se si riscontrarono delle peculiarità. Certamente le esperienze passate giocarono un ruolo importante ed alcune prassi come quella appena esaminata, giudicate positive, furono nuovamente utilizzate alla fine del 1998. Tuttavia furono adottate anche misure specifiche, quali l’evacuazione via aerea di migliaia di kosovari – albanesi fuggiti in Macedonia e a rischio di essere rimpatriati in Kosovo poiché giudicati pericolosi per la stabilità dello Stato macedone. Grazie a tale canale umanitario, circa 5000 persone furono trasferite a Comiso, in Sicilia, dove rimasero fino alla fine del conflitto e da cui la maggior parte ritornò spontaneamente in Kosovo. Per questo motivo, se il Tavolo di Coordinamento può essere considerato una buona pratica in termini di organizzazione e gestione dell’accoglienza, la cosiddetta “Operazione Comiso” lo è relativamente alla problematica dell’accesso alla protezione, che con il trascorrere degli anni diventava una questione sempre più complessa e pericolosa201.

A partire dal 1991, infatti, con gli arrivi delle prime imbarcazioni che trasportavano i migranti albanesi, in Italia, ma non solo, è andata consolidandosi una prassi di ingresso

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via mare. Se in passato molti entravano nel territorio italiano regolarmente, in quanto in possesso di un visto, e soltanto successivamente presentavano domanda di asilo, gli anni novanta inaugurano la stagione degli sbarchi, inizialmente in Puglia, e successivamente in Calabria e soprattutto in Sicilia. Ne è prova il fatto che dei 75.000 rifugiati provenienti dall’ex Jugoslavia e giunti in Italia tra il 1992 e il 1996, la maggior parte erano arrivati in Italia proprio via mare202. Al fine di ridurre gli ingressi, una delle soluzioni impiegate fu l’adozione della cosiddetta politica dei respingimenti. Quando si parla di tale politica, in Italia, si fa spesso riferimento a quella discutibile pratica adottata a partire dal 2009 a seguito dell’accordo bilaterale con la Libia, di cui si tratterà più avanti. Tuttavia, tentativi di ridurre o di impedire gli arrivi dei migranti via mare erano stati intrapresi già nel 1997 con risultati altrettanto negativi. Come sarebbe avvenuto nel caso del trattato Italia – Libia, anche nel 1997 alla base dei respingimenti c’era un accordo, firmato dall’Italia con l’Albania, nel quale si stabiliva che in cambio di aiuti umanitari verso quest’ultima, l’Italia avrebbe potuto respingere le imbarcazioni albanesi mediante un blocco navale denominato “Operazione bandiere bianche”203

. Fu proprio in seguito all’avvio di tale operazione che si verificò un grave incidente in mare, ovvero lo speronamento da parte di una nave militare italiana, il 28 marzo 1997, dell’imbarcazione albanese Kater i Rades, con la conseguente morte di 108 persone. Dopo l’incidente, la politica dei respingimenti fu sospesa e ripresa soltanto diversi anni dopo; i naufragi, invece, sono purtroppo continuati, a dimostrazione della necessità tuttora insoluta di trovare vie di accesso più sicure per i migranti e in particolare per i richiedenti protezione internazionale.

3.2. La riforma del sistema di accoglienza italiano: dal progetto