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Condizione socio-economica e comportamento di gioco

2 Rassegna della letteratura

2.2 Condizione socio-economica e comportamento di gioco

gioco come una attività legittima e il contesto relazionale in cui i soggetti sono immersi (Sarti e Triventi, 2016).

2.2 Condizione socio-economica e comportamento di gioco

Nella letteratura internazionale non mancano ricerche mirate a comprendere, attraverso la raccolta di dati macro oppure micro (a livello individuale o famigliare), se la propensione al gioco si distribuisca uniformemente nella popolazione o se si concentri maggiormente in alcuni gruppi. In generale, tali studi hanno confermato che alcuni strati sociali dimostrano una maggiore propensione al gioco d’azzardo pur in presenza di una grande variabilità dei risultati, dovuta alla tipologia di gioco, al paese e al periodo di volta in volta considerati. Rileva in proposito una revisione dei principali approcci alla stratificazione sociale del gioco d’azzardo, che è stata oggetto di attenzione in ambito sociologico, economico e psicologico, partendo tendenzialmente dall’assunto che la propensione al gioco sia maggiore tra gli individui appartenenti agli strati sociali svantaggiati.

In Sociologia si ricorre al termine stratificazione per designare le sedimentazioni di disuguaglianze aventi carattere strutturale e non casuale, che danno luogo a disparità oggettive nelle condizioni di vita degli individui. Tali disparità, riferite, ad esempio, a reddito, istruzione, situazione occupazionale e ad altri attributi diventano appunto disuguaglianze nella misura in cui vengono istituite regole che legittimano quelle differenze, riconoscendone il valore sociale. Dal prodursi e riprodursi di ruoli sociali differenziati e legittimati prendono forma raggruppamenti di soggetti tendenzialmente omogenei14.

Seguendo l’approccio funzionalista, la stratificazione sociale è indispensabile alla sopravvivenza sistemica, collocando e motivando gli individui nella struttura sociale (Davis, Moore, 1945/1969), secondo il presupposto per cui alcune posizioni sociali sono più rilevanti di altre per l’equilibrio del sistema sociale e richiedono capacità e competenze maggiori. La conversione delle capacità in competenze implica un periodo di addestramento, durante il quale vengono sostenuti sacrifici di varia natura da parte di coloro che vi si sottopongono: le spese per l’istruzione, la rinuncia a reddito per il ritardato ingresso nel mercato del lavoro, la posticipazione di piaceri e gratificazioni. Per indurre le persone capaci e motivate a sottoporsi a tali sacrifici è necessario prevedere delle ricompense materiali e immateriali, garantendo loro posizioni occupazionali che garantiscano gratificazione (reddito, prestigio sociale, ecc.). Contrariamente, secondo i teorici del conflitto (tra cui Marx e Weber), lungi dallo svolgere una

14 Seguendo Barber (1968), la stratificazione intesa come ordine sociale rigidamente strutturato in senso gerarchico è stata caratteristica peculiare delle società preindustriali, assumendo invece nella contemporaneità un carattere complesso e multidimensionale.

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funzione vitale, le disuguaglianze persistono poiché i gruppi che ne traggono vantaggio le impongono a detrimento di quelli svantaggiati per mantenerli in condizione di subordinazione e minorità.

Le teorie di stampo funzionalista sviluppate a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso concepiscono pertanto il gioco come uno strumento per ridurre la conflittualità di classe prodotta dalle tensioni che caratterizzano la struttura sociale moderna (Bloch, 1951; Devereux, 1968). Con la sua componente ludica e di intrattenimento, il gioco d’azzardo fungerebbe da valvola di sfogo per i membri delle classi sociali subalterne, i cui possibili sentimenti di ostilità e conflittualità verrebbero reindirizzati verso attività socialmente accettabili, anche se non sempre legali. Questa teoria, tuttavia, non si sofferma sull’attrazione che il gioco d’azzardo esercita anche tra gli individui appartenenti alle classi sociali più elevate.

Secondo la prospettiva anomica, gli individui che percepiscono una incongruenza nel proprio status rispetto al livello di istruzione posseduto giocano più di frequente, nella speranza di intraprendere un processo di mobilità sociale ascendente grazie a una potenziale vincita in denaro. Sotto questo profilo, Tec (1964) sostiene che il gioco non sia semplicemente funzione dell’affiliazione di classe, essendo maggiormente condizionato dalle “opportunità differenziali di ascesa sociale e di miglioramento degli standard di vita” (Aasved, 1993: 143). Inoltre, la percezione di avere uno scarso controllo rispetto a diversi aspetti della propria, percezione associata a una condizione socio-economica precaria, potrebbe spingere diversi individui a ricercare forme di controllo in altri contesti, quali il gambling, che consentano una evasione dalla realtà (Van Brunschot, 2009).

Le teorie del consumo e del fascino del gioco sostengono che l’azzardo abbia una presa maggiore tra le classi definite popolari poiché vi è associato il piacere di fantasticare su vincite distribuite equamente tra i giocatori e non dipendenti dalla loro origine sociale o posizione occupazionale (McCaffery, 1994). Ricerche collegate a questa prospettiva analitica sostengono che la maggiore propensione al gioco da parte di individui di basso status sociale sia principalmente dovuta, oltre a minori capacità cognitive, a una maggiore tendenza a compiere sistematici errori di valutazione sulle probabilità di vincita e sulle regole che governano i giochi (Stanovich e West, 2008; Park 2011). Le scelte di gioco sono infatti spesso influenzate dalle caratteristiche personali dei giocatori, da processi mentali irrazionali, credenze e percezioni errate piuttosto che da un calcolo obiettivo delle reali probabilità di vincita.

Rifacendosi a Kahneman e Tversky (1979), Canova e Rizzuto (2016), puntualizzano tuttavia che non sempre è corretto liquidare i comportamenti di gioco eccessivo come frutto di decisioni illogiche o anti-matematiche in sé, poiché non è possibile negare a priori un elemento di calcolo,

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sebbene spesso istintuale e non sovrapponibile al livello matematico, nel giocatore. Una stima in cui entrano in gioco fattori personali e mutevoli, come l’utilità percepita, l’istinto di conservazione, l’aspettativa e la propensione al rischio, e che si muove lungo dimensioni parallele a quelle aritmetiche, ma pur tuttavia non meno stringenti per il singolo individuo. In quest’ottica, ciò che conta non sono necessariamente la vincita e la perdita economica, ma il piacere e il dispiacere legati a vincere e perdere, che induce a non ragionare in termini di mero bilancio economico, ma piuttosto a considerando l’esaltazione dovuta alla vincita e il grado di frustrazione indotto invece dalla perdita (Canova e Rizzuto, 2016).

Infine, le teorie culturaliste pongono l’accento sul ruolo del contesto e delle relazioni sociali che si costituiscono e riproducono durante le pratiche abitudinarie di gioco. Per i sostenitori di questo approccio, i soggetti delle classi sociali basse si trovano a crescere in vere e proprie subculture del gioco, dove tali attività non sono etichettate negativamente, ma al contrario contribuiscono a creare e riprodurre reti sociali e a favorire integrazione e sviluppo di identità: una sorta di determinismo culturale, dove giocano un ruolo rilevante le pressioni dei pari (Zola, 1963; Newman, 1968; Scimecca, 1971; D’Agati, 2004). In una survey nazionale statunitense focalizzata su i correlati del PG (Welte et al., 2016), i rispondenti con amici che approvano il gioco presentano una sintomatologica più critica rispetto a coloro i quali hanno conoscenti che invece disapprovano l’azzardo.

Analizzando la relazione tra reddito e spesa in giochi, gran parte delle ricerche è giunta alla conclusione che le lotterie possono essere concepite come una forma di tassazione regressiva, anche se la spesa media in valore assoluto aumenta al crescere del reddito disponibile. Sono le fasce di popolazione meno ricche a spendere una quota più consistente del proprio reddito in vari tipi di gioco (Rogers, 1998): non è in discussione che la frequenza e il volume di gioco crescano con le disponibilità economiche, ma svariate sono le evidenze che la proporzione di reddito annuo dedicata al gioco tende a decrescere all’aumentare del reddito medesimo (Clotfelter e Cook, 1990; Abbott e Cramer, 1993; Aasved, 2003: 227-228). I risultati ottenuti in diversi contesti confermano la regressività fiscale di un nutrito gruppo di giochi d’azzardo, pur con risultati differenziati.

Sarti e Triventi (2012) inquadrano il gioco d’azzardo come fenomeno diffuso dalle importanti conseguenze sperequative, che meriterebbe particolare attenzione in periodi di crisi economica prolungata come l’attuale. Indagando la relazione tra posizione socio-economica e propensione al gioco tra le famiglie italiane nella decade 1999-2008, i due ricercatori, confermando le evidenze di precedenti studi internazionali, concludono che il gioco d’azzardo in Italia può essere considerato come una forma di tassazione volontaria regressiva, poiché le famiglie meno

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abbienti vi spendono una più alta proporzione di reddito rispetto alle famiglie benestanti, secondo un meccanismo in contraddizione con un sistema tributario, quello italiano, fondato sulla progressività dell’imposta sul reddito (Fiasco, 2014; 2016)15.

Secondo una indagine Doxa riportata da Malizia (2016), il 56% degli individui appartenenti agli strati sociali medio-bassi spende soldi giocando, così come il 47% di quelli più poveri e il 66% dei disoccupati, mentre i risultati emersi dell’elaborazione di dati Istat (Sarti e Triventi, 2012) evidenziano che far parte di una famiglia istruita diminuisce il livello di spesa in giochi rispetto alle famiglie meno istruite.

Risultati confermati da un’altra ricerca italiana (Vergura e Luceri, 2015), che, oltre a correlare genere maschile e coinvolgimento nell’azzardo, mostra come la spesa di gioco settimanale cresca con il reddito e decresca all’aumentare del livello di istruzione. Un contributo focalizzato sugli aspetti emozionali legati alla spesa di gioco e ai comportamenti problematici (Bussu e Detotto, 2013), controllando per alcuni determinanti socio-economici, evidenzia come reddito e frequenza di gioco siano positivamente correlati con la spesa: se le femmine giocano meno dei maschi, risultano avere tuttavia maggiore probabilità di sviluppare problemi collegati, così come coloro che possono contare su livelli di reddito e istruzione più bassi. Secondo un recente studio (Bonnaire, 2016), il profilo del giocatore problematico francese è maschio, tra i 25 e i 64 anni e single, con un basso livello di istruzione, disoccupato e che percepisce la propria situazione finanziaria come difficile.

Gli studi che hanno indagato specificamente il ruolo dell’istruzione sulla propensione al gioco nei paesi anglosassoni hanno messo in rilievo che al crescere del titolo di studio diminuiscono le probabilità di giocare al Lotto e similari (Rogers, Webley, 2001), anche se questa relazione non vale per altri tipi di gioco (Ariyabuddhiphongs, 2010), mentre il più recente contributo di Hing et al. (2015) conferma che l’essere maschi e avere un basso livello di istruzione sono fattori di rischio per lo sviluppo di PG. Welte et al. (2016) precisano che, anche se non vi sono chiare evidenze secondo cui le persone più istruite abbiano minor propensione a sviluppare atteggiamenti anti-sociali e criticità psicologiche, costoro possiedono più strumenti per rifiutare schemi di gioco contrari alle leggi della probabilità. Analizzando i dati raccolti da Eurispes, Cavataio (2016) evidenzia, da un lato, che quasi i tre quinti degli intervistati sono spinti a giocare da motivazioni di tipo economico e, dall’altro, come all’aumentare del titolo di studio emergano giudizi sempre meno positivi rispetto al gioco d’azzardo: considerando la condizione

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Per Fiasco, il gioco d’azzardo appare come una “forma di tassazione volontaria coattiva che va a colpire il cosiddetto zoccolo duro dei contribuenti, ovvero gli strati sociali a più basso reddito, che rappresentano il corpo centrale della domanda pagante, attraverso la miriade di occasioni di gioco che essi incontrano nel corso della giornata” (2001: 331).

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occupazionale, si osserva, in controtendenza rispetto ad altri studi, come siano gli occupati e soprattutto le persone in cerca di prima occupazione e dichiarare di sentire maggiormente l’esigenza di dedicarsi al gambling (Eurispes, 2014).

La ricerca di Beckert e Lutter (2009) evidenzia che il livello di istruzione, a parità di altre caratteristiche, è associato negativamente sia alla partecipazione che alla spesa al gioco ed è uno dei più importanti predittori di entrambi gli outcome. In un altro lavoro, gli autori, utilizzando dati di survey ricavati da un campione probabilistico nazionale (Germania), hanno testato tre approcci sociologici (socio-strutturale, culturale e relativo alle reti sociali) per spiegare perché i meno abbienti siano più propensi dei (relativamente) benestanti a giocare alla lotteria. Tenendo in considerazione il peso dei bias cognitivi, si è trovato che l’influenza dei pari, il livello di istruzione e la deprivazione sociale auto-percepita hanno forti effetti sul fatto di giocare, mentre i fattori culturali paiono rivestire un ruolo minore. Sebbene i giocatori dimostrino un orientamento di valori fatalistico, non è una mancanza di ‘etica protestante del lavoro’ a spingere i meno abbienti a spendere in proporzione di più per i biglietti della lotteria. Più importante pare essere l’influenza di fattori strutturali, quali livello di istruzione e condizione socio-economica, nel determinare stati di tensione tali da indurre comportamenti compensatori come il gioco d’azzardo (Beckert, Lutter, 2012).

Se alcuni ricercatori interessati prioritariamente al ruolo dello stato occupazionale hanno rilevato effetti piuttosto contenuti (Worthington, 2001), altri ancora, utilizzando i dati della British Gambling Prevalence Survey (condotta nel 2007), argomentano che gli individui appartenenti a classi sociali medio-basse hanno maggiori probabilità di giocare d’azzardo – e di sviluppare problemi di gioco – rispetto ai professionisti e ai manager (Orford et al., 2009; 2010b; 2013). In particolare, Welte e colleghi (2002), pur riconoscendo che il tasso di partecipazione in molte forme di gioco d’azzardo risulta più elevato tra gli individui abbienti, evidenziano come questi ultimi presentino una inferiore frequenza nelle giocate e una minore propensione a sviluppare problematiche legate al gioco rispetto alla popolazione generale. Reith (2006) rileva come i gruppi socialmente svantaggiati (disoccupati, assistiti della previdenza sociale, con livello di istruzione scarso e basso reddito famigliare) siano a maggior rischio di sperimentare conseguenze negative legate al gioco. Risultati simili vengono raggiunti da Castrén et al. (2013), che notano come bassi livelli di istruzione siano associati a comportamenti di gioco a rischio basso e moderato e come la disoccupazione si accompagni a più severi problemi di gioco, confermando che una situazione complessiva di disagio nella condizione socio-economica rappresenta un rilevante fattore di rischio di PG (Jimenez-Mucia et al., 2011).

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Una linea di frattura rispetto al genere viene rintracciata da Afifi et al. (2010a), con una maggiore propensione al gioco problematico per le femmine tra i 40 e i 49 anni, nubili e con reddito e livello di scolarizzazione medio-bassi e per i maschi separati/divorziati e vedovi con scarso supporto sociale. In accordo con l’idea che l’appartenenza a uno di questi stati civili sia associata all’incremento della probabilità di gioco eccessivo, la maggior parte dei soggetti problematici individuati da Lyk-Jensen (2010) è rappresentata da celibi, separati e divorziati, anche se i risultati in letteratura non sempre paiono coerenti, come dimostra uno studio australiano (Christensen et al., 2015), dal quale, rispetto alla popolazione generale dei giocatori, risulta una maggior tasso di partecipazione al gioco da parte delle coppie senza figli (con una occupazione a tempo pieno e basso grado di istruzione), con il PG associato a una età sotto i 45 anni.

Wardle et al. (2014), mediante la mappatura e la localizzazione (analisi geospaziale) delle macchine da gioco in Gran Bretagna, propongono un confronto tra le caratteristiche socio-economiche delle aree con maggiore densità di slot machine e quelle delle aree dove tale densità è minore. Emerge, in linea con altre realtà nazionali (Wheeler et al., 2006), una significativa correlazione tra densità di opportunità di gioco e deprivazione economica: il profilo socio-demografico dei residenti nelle aree a maggior densità di ‘slot’ combacia con quello dei soggetti più a rischio di sperimentare problemi di gioco. Una rassegna sistematica della letteratura (Vasiliadis et al., 2013) rivela una relazione complessa tra le dimensioni dell’accessibilità fisica alle opportunità di gioco (prossimità e densità dei punti gioco) e coinvolgimento nel gioco e sviluppo di PG: una complessità che chiama in causa gli effetti di mediazione e moderazione esercitati dalla condizione socio-economica, a conferma del fatto che i punti gioco sono di norma sproporzionatamente situati in quartieri svantaggiati. In particolare, i residenti in queste zone hanno una spesa pro-capite in slot machine superiore alla media, spesa che intuitivamente incide in misura maggiore sul reddito disponibile. Inoltre, si rileva che gli individui che vivono in aree caratterizzate da grande svantaggio socio-economico hanno un rischio significativamente maggiore di sviluppare PG rispetto a coloro i quali hanno una prossimità simile ad ambienti di gioco ma vivono in aree meno deprivate.

Un ulteriore spunto interpretativo per riflettere sulla relazione tra comportamenti di gioco e condizione socio-economica emerge da un focus sulle fasi economiche recessive. E’ intuitivo ipotizzare che la riduzione del reddito disponibile associata a una crisi economica induca gli individui a rivedere al ribasso i propri consumi. Un ruolo cruciale giocano le aspettative, che possono convincere a ridimensionare le spese non ritenute indispensabili, e il gioco rientra nella categoria. Tuttavia, le crisi finanziarie ingenerano anche una condizione diffusa di stress sociale.

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L’ansia e la sofferenza emotiva legate a una situazione di difficoltà materiale incidono negativamente sull’auto-controllo e pertanto possono facilitare disordini comportamentali. La disoccupazione, un portato classico delle crisi economiche e della stagnazione, determina il calo complessivo delle ore lavorate e l’aumento del tempo libero. La difficoltà nel dare una struttura temporale alle giornate, nel gestire l’inattività forzata e la noia associata, hanno un peso nell’insorgenza e il mantenimento nel tempo di comportamenti di gioco eccessivo (Rascazzo, 2014). Una considerazione forse banale, ma corroborata dalla associazione tra problemi di gioco e stati prolungati di noia, che, combinati alla suggestione della vincita risolutiva, possono indurre, in modo solo apparentemente paradossale, i consumatori con maggiori difficoltà nel gestire il budget mensile a tagliare altri capitoli di spesa del bilancio familiare per ‘investire’ maggiormente nel gioco d’azzardo (Nower e Blaszczynski, 2006). Esaminando le determinanti della spesa in gioco d’azzardo delle famiglie irlandesi e l’effetto della recessione su di esse, Eakins (2016) evidenzia che i nuclei con breadwinner più anziano, disoccupato e con minor istruzione partecipano e spendono di più al gioco. Da uno studio di Richard (2010) sulla diffusione dei casinò in 13 diversi Stati del mondo, si evince come la massiccia legalizzazione degli stessi coincida con periodi di alta disoccupazione nei paesi analizzati (Horvàt e Paap, 2012).

Il campo di indagine riveste un indubbio interesse, poiché l’Italia, come molte società avanzate, è caratterizzata da numerose disparità legate alle appartenenze di classe e al possesso di determinate credenziali educative, che rappresentano (certamente hanno rappresentato nel recente passato) discreti predittori dello status occupazionale raggiunto e del reddito a disposizione. In particolare, l’indice di disuguaglianza dei redditi, dopo essere sceso dal 40% del 1971 a meno del 30% nel 1982, è recentemente risalito e oscilla fra il 33 e il 35%. Se è vero che la povertà assoluta è diminuita tra il 1985 e il 2001, non bisogna dimenticare la persistenza di sacche di povertà cronica. Si tratta della forma più odiosa di indigenza, quella in cui alle sofferenze causate dalla deprivazione estrema si aggiungono l’esclusione sociale e la mancanza di una speranza di riscatto (Brunetti et al., 2011: 209-233).

Il fatto che l’intensità delle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi non sia sostanzialmente mutata nell’ultimo ventennio, mette in rilievo come, a fronte di una attenuazione delle disparità collegate al genere, le appartenenze generazionali inizino a costituire una linea oggettiva di profonda divisione sociale (Schizzerotto, 2010). Da un lato, buona parte degli ultracinquantenni, lavoratori qualificati o semi-qualificati dell’industria e del terziario che hanno goduto complessivamente di una discreta stabilità occupazionale, possono contare, anche in prospettiva, su di una copertura pensionistica adeguata; dall’altro, le trasformazioni del mercato del lavoro,

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segnate sia da una ridotta occupazione dei giovani – in parte per il prolungamento degli studi – sia da modeste retribuzioni e scarse tutele contrattuali anche tra i laureati, aumenta il rischio di povertà tra gli under 30 (Benassi e Facchini, 2010)16.

Divisione che si sovrappone alla riconosciuta associazione (Wilkinson e Marmot, 2003) tra indicatori di posizione sociale e fenomeni connessi alla salute, quali speranza di vita, comorbilità e adozione di comportamenti a rischio, come emerge da svariate ricerche sulle disuguaglianze sociali nella salute (Blanc et al., 1993, Mackenbach et al., 2008). Accanto ad approcci che considerano il posizionamento sociale come l’esito delle condizioni di salute piuttosto che viceversa e che prendono in esame l’operare di confondenti di stampo genetico, altre interpretazioni si soffermano sulla relazione tra comportamenti individuali (bere, fumare, ecc.) e condizioni di salute. Una spiegazione che va incontro a criticità nella misura in cui determinati stili di vita si scoprono influenzati da variabili di stampo strutturale che fanno sì che soggetti appartenenti a gruppi svantaggiati abbiano maggiori probabilità di versare in condizioni esistenziali tali da favorire l’insorgere di patologie o di comportamenti insalubri. In effetti, la fase recessiva, iniziata nel 2007 e solo parzialmente superata, pare aggravare l’impatto delle differenze socio-economiche sulla salute (Ebner, 2010; Lucchini e Tognetti Bordogna, 2010; Della Bella e Lucchini, 2015).