• Non ci sono risultati.

CAPITOLO 3 IL VERDE E IL GRIGIO

3.2 I confini rumorosi

La prima volta che andai in cimitero da sola mi spinsi fino al lato sud-ovest. Rimasi basita di fronte alla vista della tangenziale. Di fatto sapevo che la super strada passava vicino al cimitero ma quando la vidi che si ergeva orgogliosamente sopra i fabbricati dei loculi non potei fare a meno di meravigliarmi. La prospettiva dal basso portava a schiacciare l’immagine, quindi ciò che si vedeva erano file di loculi

sovrastate dalle macchine. L’effetto ottico era impressionante. Non potevo crederci. Abituata ai piccoli cimiteri di campagna o agli affascinanti cimiteri monumentali non avevo dimestichezza con la complessità dei cimiteri urbani. I cimiteri che nessuno fotografava. Non sospettavo tali contaminazioni con la città che gli brulicava tutto intorno.

Il cimitero aveva due confini, uno fisico, evidente e palpabile, ovvero il muro che lo circondava separandolo, di fatto, dalla città. E un confine rumoroso che travalicava le mura, che portava la città dentro il cimitero. Avanzavo con la macchina fotografica in mano, intimorita. Pensai subito che doveva essere tremendo andare a trovare un proprio caro sepolto in quella zona. Il piccolo campo a terra costruito accanto al fabbricato levante, nonostante il suo prato all’inglese, mi faceva tristezza. Mi sembrava messo lì esattamente come si mette una toppa per coprire un buco sui pantaloni. Mi si perdoni il paragone di basso profilo. Era palese, ai miei occhi, che tutt’attorno regnasse il grigio. I palazzoni composti dai loculi, la tangenziale, la ferrovia, e anche i palazzoni e gli hotel che componevano il paesaggio esterno al cimitero, che da lì riuscivo a scorgere. Non bastavano certo quattro fili d’erba a rendere quell’angolo di cimitero più civile ed armonico. Quel piccolo campo verde, schiacciato dal grigio, mi sembrava una presa in giro.

Mi addentrai tra i due grandi palazzoni di loculi, il fabbricato Levante e il fabbricato B, entrambi affollatissimi di fiori e fotografie, i cui colori sembravano risaltare ancora di più, sembrando più vividi, in quell’angolo del cimitero. Passeggiare tra queste due strutture mi dava un senso di oppressione, tutto era pesante, la dimensione dei singoli loculi era piccola e stretta, i fiori e le epigrafi ci stavano dentro a stento e questo faceva sembrare i vari loculi ancora più fitti.

Le strutture imponenti sembravano schiacciarti e toglierti ogni via di fuga. Un unico viale li divideva. Lo attraversai, velocemente. Affrontai a passo spedito tutta la sua lunghezza e mi spostai verso il confine del cimitero. Camminavo accanto alle file di loculi e il mio sguardo vorticava da una foto all’altra, senza tregua. Arrivai all'angolo sud-ovest senza nemmeno rendermene conto, ero stata rapita dalle storie silenziose che mi avevano raccontato gli occhi delle persone ritratte nelle fotografie che avevo osservato. Tendevo ad immaginare le loro vite, rimanevo colpita dai loro abita, dai loro nomi e mi ritrovavo a fantasticare sulle loro esistenze, cercavo di immaginare che vita avessero vissuto in base ai dettagli delle loro acconciature o dei loro vestiti. La strana forma del cimitero, irregolare, ha portato alla creazione di bizzarri angoli ciechi. In quei punti le foto sembrano quasi guardarsi tra loro. Claustrofobia ed umidità.

In quegli angoli sperduti sotto la tangenziale ho provato un certo disagio, la vera malinconia cimiteriale. Avevo l’impressione che il sole lì non sarebbe mai arrivato. Mi sembrava un luogo inadatto alla sepoltura, uno spazio poco dignitoso. Allo stesso tempo, però, ne ero affascinata. Il fascino perturbante di Freud, qualcosa che attrae e respinge nello stesso momento. Ero catturata da tutto ciò che vedevo attorno a me, scattavo fotografie con aria un po’ impacciata.

Ero concentrata nel cercare l'inquadratura giusta. Era difficile far incastrare tutti quegli angoli e seguire allo stesso tempo le linee dei muretti e delle grandi strutture dei fabbricati. Angoli dritti come fusi, imperturbabili, granitici. Ma di cemento.

Nel fotografare mi facevo molti scrupoli, quel giorno avevo una macchina reflex abbastanza grande, nuova nuova e ben visibile.

La cosa mi faceva sentire esposta. Non volevo essere vista fotografare il cimitero, in quelle prime visite mi sembrava ancora una cosa poco corretta, c’era un chiaro cartello di divieto all'entrata del cimitero. No foto. Difficile dimenticarsene. Non che mi sia mai abituata all’idea, effettivamente. Allo stesso tempo, però, non riuscivo a fare a meno di scattare qualche immagine, un po’ spinta dalla motivazione datami dalla tesi, un po’ per pura fascinazione.

Cercavo di convincermi che non lo stavo facendo per chissà quali scopi scorretti o per mancanza di rispetto verso i defunti, anzi. Avrei voluto, tramite i miei scatti, far capire ciò che vedevo io di quel luogo. Far capire ciò che provavo. Sembra facile a dirsi, ma probabilmente non c'è nulla di più difficile che esprimersi senza usare le parole.

Mentre scattavo, litigando con i pulsanti nuovi della macchina, mi perdevo nei miei pensieri e cercavo di stare all’erta nel caso arrivasse qualcuno, magari un eventuale custode. Il custode. Figura che, in realtà, non ho mai visto aggirarsi per il cimitero durante i miei numerosi sopralluoghi. Ogni tanto mi è capitato di vedere qualche operatore Veritas, con le loro tute verdi erano facilmente riconoscibili, ma il loro compito non era certo quello di sorvegliare il camposanto. Altre volte, invece, li ho visti scherzare tranquillamente in gruppo, parlando e ridendo a voce alta, totalmente abituati a lavorare in questo luogo così particolare.

I custodi, invece, rimangono per me una figura mitica, inconsistente e pregnante allo stesso tempo. Relegata all’entrata del cimitero. Posti dietro un vetro, li immagino al sicuro nel loro ufficio. Una volta ricordo di aver visto un ragazzo con il motorino della pizzeria Apollo entrare in cimitero. Mi era sembrata un’immagine degna di un film

dell’assurdo. Il ragazzo aveva spento il motorino ed era entrato a passo svelto a consegnare le pizze proprio in quegli uffici. Anche i custodi mangiano.

Mentre inquadravo un angolo che mi sembrava particolarmente interessante un fortissimo rumore di clacson mi fece trasalire. Sarebbe stato veramente ironico morire d'infarto al cimitero. Il clacson, dal suono basso e prolungato, doveva essere appartenuto ad un camion passato proprio sopra di me. Controllai se qualcuno aveva visto il mio imbarazzante saltello causato dall’improvviso spavento. Nessun’ anima viva in vista. Beh! Mi tranquillizzai, ma continuai a chiedermi come potessero sopportare tutto quel rumore le persone venute fin lì a trovare un loro defunto.

A spezzare il costante suono dei motori non erano solo i punti esclamativi dei clacson ma anche l’acuto suono delle sirene dei treni, segnalavano il loro arrivo, infatti a pochi metri dal cimitero si trovava la fermata di Mestre-Carpenedo. Il lato ovest del cimitero confina in tutta la sua lunghezza con la linea ferroviaria che procede dalla stazione di Mestre fino a quella di Trieste.

Passeggiando per il cimitero durante le mie esplorazioni ogni volta che capitavo vicino alla zona sud-ovest mi sentivo invadere da un sottile senso di disagio causato dai diversi rumori urbani. Quasi fossero rumori estranei al luogo e non del luogo stesso. Durante la ricerca sul campo ho sempre domandato cosa ne pensassero di quei suoni i diversi interlocutori che ho avuto modo d’intervistare passeggiando per il cimitero.

Ero assolutamente sicura che tutti avrebbero confermato le mie stesse impressioni. Il fastidio, il disagio, il senso di estraneità. L’incompatibilità della pratica del ricordo con il continuo rumore del traffico urbano di sottofondo.

Le loro risposte, invece, mi hanno assolutamente sorpresa. Nessuno sembrava disturbato dai rumori. Erano previsti. Erano normali. Non ci facevano caso. Era un cimitero di città, cosa mi aspettavo? Perfino Veronica, la ragazza di Ottava Presa che non aveva mai visto un cimitero di grandi dimensioni, mi guardava stupita mentre mi lamentavo dei rumori del traffico. Per lei era normale che un cimitero urbano convivesse con il suono dei clacson. Mea culpa. Per fortuna “mi sveglio sempre in forma e mi deformo attraverso gli altri” scriveva Alda Merini.

Questi sono alcuni dei frammenti delle interviste che ho svolto passeggiando in cimitero con i miei interlocutori. Ho qui trascritto alcuni dei momenti in cui domando ai miei interlocutori cosa ne pensino dei rumori attorno a loro.

Intervista a Cathia, coordinatrice circolo UAAR di Venezia, del 12 maggio 2016:

GIOVANNA: Perché alla fine anche la storia del cimitero è abbastanza recente, il discorso dei grandi cimiteri urbani…

CATHIA: Perché Napoleone li aveva vietati…no?

G.: No, beh, lui aveva vietato quelli vicini alla chiese, quindi aveva obbligato la creazione di questi posti grandi al di fuori della città…

C.: Ah al di fuori…

G.: E quindi in un certo senso l’editto di Napoleone è stato quello che ha creato poi l’idea di…ma infatti anche Mestre…era stato creato questo spazio proprio al di fuori della città, è stato inglobato, ovviamente con l’urbanizzazione degli anni sessanta, settanta e anzi è stato inglobato fin troppo in un certo senso perché sono state chiuse tutte le possibilità di ampliamento…infatti volevo chiederti prima

cosa ne pensavi anche della parte dei loculi che sta proprio sotto la strada, se per te quello è un elemento di disturbo o se lo trovi normale…

C.: Beh no, direi che insomma, sì, non è che sia una strada di passaggio, di confusione, e poi comunque, insomma non è che…[ridacchia.]

G: No ma pensavo…perché…

C.: Cioè se fosse un parco silenzioso…

G.: Perché io la prima volta che sono andata da quella parte, che c’è appunto la tangenziale, mi…cioè…io…sentire tipo i clacson, i camion, e vederli sopra la fila di loculi…

C.: A te ha fatto impressione. G.: Sì.

C.: Sai forse allora io non sono mai stata lì, non ho idea.

G.: Eh, perché prima l’abbiamo sfiorata in effetti quella zona, non ti ho fatto vedere bene forse.

C.: Non ho idea di questa cosa, però sì, può essere, per le persone che capitano in quel momento può essere brutto…

Cathia era stata più volte nel cimitero di Mestre, lì sono sepolti i suoi genitori, eppure si stupisce quando le pongo il problema dei rumori urbani. Lei non li aveva mai notati. Credo sia significativo. Era talmente abituata a quel tipo di suono, anche in cimitero, da non farci caso, non percepirlo come un elemento di disturbo.

Lo stesso accade durante l’intervista del 7 aprile 2016 alle due ragazze trentenni, Veronica ed Alessia. Passeggiando accanto alla zona dei loculi, sento passare il treno e lo segnalo alle due ragazze.

GIOVANNA: Treno! [Annuncio a voce alta il passaggio del treno.] Io ormai sono fissata. L’avevate notato?

VERONICA: Ma quello proprio no… ALESSIA: No…

G.: Alle ore 17.56, con sirena…[Lo dico in maniera ironica avvicinando la bocca al registratore per dare enfasi al gesto.]

V.: Io non l’avrei proprio notato…ma quindi tu concepisci il cimitero come luogo da silenzio assoluto?

G.: No, non proprio silenzio assoluto ma mi piacerebbe molto un posto tipo naturale. A.: Eh a me piacciono molto i cimiteri di campagna , è molto bello, ma essendo in

città…io lo do per scontato e non ci penso.

G.: Dicevo anche alla Vero che proprio dietro questo muro di loculi c’è la ferrovia, quindi è delimitata tutta questa parte da una parte dalla ferrovia e dall’altra dalla tangenziale…

Quello che mi stupisce particolarmente è che io sono cresciuta in una casa edificata proprio accanto a dei binari di un treno. Per tutta la mia infanzia ed adolescenza i suoni della ferrovia hanno accompagnato i miei momenti casalinghi. Dovrei quindi, in linea di massima, esserci abituata. Eppure sentire il suono della sirena del treno in un luogo a cui sono abituata ad associare il silenzio fa scattare in me un’ improvvisa attenzione, mi fa drizzare le orecchie.

Segue uno stralcio dell’intervista con l’architetto Davide Bettiolo del 25 marzo 2016, ci troviamo sempre nella zona dei colombari nella zona sud-ovest:

GIOVANNA: Qui c’è tutta la parte loculi… DAVIDE: La parte edilizia.

G.: Eh qui abbiamo i palazzoni.

D.: Beh sono ancora dignitosi, comunque hanno tentato di fare una cosa uniforme. G.: Sì anche perché sono più bassi, sono meno file, la sensazione è meno… D.: Opprimente.

G.: Sì esatto, meno di massa, non lo so, sono molto larghi.

D.: Anticipano la forma del monumento di Berlino alla deportazione degli ebrei ad una serie di cubi di parallelepipedi, e camminando in mezzo ti straniano, ti inquieta questa mancanza di prospettiva…

G.: E poi sono anche un più discreti, ovviamente, gli ornamenti. Qui invece c’è la parte più bassa e dove già hai la sensazione del traffico [nella registrazione si sentono, infatti le macchine sullo sfondo] pur essendo il muro più antico.

D.: Va beh, dai, è inevitabile che il cimitero venga inglobato dalla città, siamo in Veneto dove tutto viene inglobato dalla città!

G.: Beh…sì e no, nel senso, alla fine, cioè…[cerco di trovare le parole adatte e faccio una pausa] a me questa cosa fa impressione, questa cosa delle macchine sopra i loculi…cosa ti devo dire? [Davide ride.]

D.: Beh dalla macchina è affascinante passare sopra e vedere i lumini di notte. G.: Capisco che il pensiero è solo alla funzionalità ma…

D.: Sono degli anni Cinquanta e Sessanta? G.: Sì anni Sessanta.

G.: Ma perché sono loculi alla fine… D.: Perché sono già regolamentati dici…

G.: Sai cos’è? É che sono molto più grandi alla fine, secondo me…adesso vedrai l’effetto con quelli dopo, più moderni, si riduce un sacco lo spazio, l’idea è di essere accatastati…e in più le foto erano tutte identiche e tutte in bianco e nero, forse le foto in bianco e nero fanno questo effetto. Qui ci sono i bimbi. [Passiamo oltre in silenzio.]

D.: Eh sì il bianco e nero toglie l’impatto tipo del maglione che abbiamo visto prima, o altre scelte stilistiche discutibili…

G.: Ecco, qua sotto siamo proprio sotto la strada. [Ci fermiamo davanti ad un angolo cieco formato dai loculi. La mia voce al registratore ha un leggero rimbombo.] D.: Non hanno pensato di…

G.: Di fare un’apertura?

D.: Sì, non lo so, hanno pensato a fare una torre da castello, ad angolo! [Purtroppo a causa del rimbombo non riesco a capire cosa Davide dice in questo punto della registrazione. L’effetto audio è simile a quello che si può ottenere quando si parla in una grotta. Una grotta di loculi. Immagine inquietante.]

G.: Sì, ma pensa venire qui a trovare un tuo defunto e ti senti proprio le macchine sopra, a me fa stranissimo. E quando passano i tir?

Davide ride di nuovo. Ma io non sto scherzando. Ricordavo benissimo la paura presa la prima volta che ero passata in quel punto e il clacson di un grosso tir mi aveva fatto sobbalzare dallo spavento. Davide continua a guardare le foto, apparentemente senza notare il rumore del traffico. Non sembra disturbato dal

costante rumore di sottofondo dei motori e torna a commentare le fotografie che sta osservando.

D.: Effettivamente il bianco e nero è più dignitoso, anche prese di tre quarti, con le stesse modalità…

G.: Eh. C’erano meno mezzi e meno mezzi creavano una specie di uniformità costretta.

Dopo aver commentato ancora qualche loculo insieme, mostro a Davide il punto da cui ho scattato una fotografia in cui si vede un cartello della tangenziale con scritto “parcheggi” e una grande freccia che punta verso il basso, indicando esattamente i loculi. Un crudele gioco di prospettiva. Davide ride.

Durante l’intervista del 3 maggio 2016 l’ingegner Marzio Sartorel mi segnala come a lui disturbi molto di più la presenza di un confine territoriale, ovvero le mura perimetrali del cimitero, piuttosto che il suono della città in cui esso è inserito.

MARZIO: La domanda che io mi faccio qual è il senso di un cimitero. Perché andare a celebrare la memoria del defunto?

GIOVANNA: Beh ma in realtà da quello he ho capito è quasi sempre perché serve a te come persona per rielaborare.

M.: Sì ma perché ti serve un luogo fisico?

G.: Eh perché sembra che questa cosa di avere un luogo dove tornare sia in un certo senso una terapia quasi per superare la cosa.

G.: Mmmm di formazione culturale, però in realtà c’è anche in altre culture come ovviamente in altre culture c’è il discorso di reintegrare il defunto nella natura e nel luogo in cui diciamo vivono altri gruppi sociali.

M.: Bettiolo, la prima foto qui a sinistra. [Marzio ridendo mi indica un loculo, il cognome sulla lapide è lo stesso del nostro comune amico Bettiolo, l’architetto che ho intervistato durante la mia ricerca sul campo.]

G.: Oddio può essere una macabra foto…invece a me aveva molto fatto impressione all’inizio il discorso del cavalcavia, della rampa, cioè questa cosa…

M.: Che ci passi sopra?

G.: Sì. Invece poi parlando con le altre persone… M.: No anche a me non da…

G.: Non ti da fastidio?

M.: No…anzi avendo visto in altri stati, in altre nazioni come concepiscono il cimitero a me quasi quasi infastidisce di più il fatto che ci siano muri che tendono a nasconderlo!

G.: Ok, però quello…c’è comunque il muro che separa, da noi.

M.: Qui c’è il muro, eh, ma per esempio non mi ricordo se in Slovenia o in Ungheria, forse in Ungheria…in realtà non c’era.

G.: Beh, per i musulmani non c’è per esempio… M.: Lì c’era una recinzione semplicissima, una rete… G.: Ah c’era la rete?

M.: Sì…se c’era…ma in alcuni casi neanche c’era!

G.: Eh ma secondo me qua c’è sia la separazione che in più, mmmm…in un certo senso mi sembra ipocrita perché c’è sia la separazione che al contempo il fatto

che è sempre più ingloba…inglobato nella città, quindi nell’urbe che alla fine lo sta quasi mangiando, perché hai qui dietro, vedi qua i pali, qui dietro c’è la ferrovia, quindi passa il treno e senti il rumore del treno e non so come facciano quelli che hanno i loculi qui…

M.: Non hanno il raccoglimento che hanno quelli dalle altre parti.

G.: Certamente, no? E lo stesso tutti quelli che…se vuoi ci avviciniamo un po’…tutti quelli che sono da quella parte non so, hanno lo strombazzare dei camion, però… parlando anche con altre persone dicevano eh no secondo me è normale perché comunque sei in una città e nessuno pretende che tu sia nel silenzio della campagna…

M.: Sì anche questo cambia da luogo a luogo, il cittadino di Mestre ha sempre conosciuto questo cimitero, con queste cose che gli stanno intorno, quindi lo assume come normale, la Veronica di turno che arriva dal paesetto di campagna lo vede come una cosa allucinante…cioè è questione di formazione, secondo me…

G.: Sì anche se in realtà era la Veronica che mi diceva è normale! [Scoppio a ridere.]

Documenti correlati