CAPITOLO 3 IL VERDE E IL GRIGIO
3.3 I confini silenziosi
Rispolverando vecchi ragionamenti sull’Illuminismo e sulla sua dirompente novità rispetto al vituperato ed oscurantista Medioevo, non posso fare a meno di coglierne la duplicità. Il cimitero Settecentesco, a Mestre Ottocentesco, realizza un precetto igienista e razionale. Il camposanto non circonda più la chiesetta parrocchiale ma
viene spostato, relegato, in un altro sito specifico scelto per l’occasione. Un luogo delimitato, circondato, isolato, da un muro. Un luogo fin da subito ben codificato con misure, disposizioni e regole. Il muro diventa solco ideologico. Le città, alla fine del Medioevo, rinunciavano alle loro mura, ciò accadeva dopo l’invenzione dell’artiglieria, mentre le città del diciottesimo secolo creavano nuovi muri per i morti, molti causati sempre dalla stessa artiglieria (Ariès 2013).
A Mestre, per fortuna, quando sono stati fatti, i restauri delle parti ottocentesche del cimitero non sono stati restauri conservativi malvagi. Si è aggiunto, si è riempito, ma l’impianto pioniere della zona antica è ancora ben riconoscibile.
Lo sono soprattutto i muri, sbrecciati, incerti, e un po’ fuori squadra. Muri di mattoni che adesso sono usati per dividere i vari settori interni, non hanno più un ruolo confinario ma una funzione più morbida. Su di essi, infatti, si appoggiano lapidi scolorite, si insinua qualche rampicante e i loro mattoni rossastri addolciscono la selva grigia delle tombe. Proprio la loro improvvisa e definitiva scomparsa, nella parte nuova, dilata le misure del cimitero in maniera angosciosa. I piccoli campi quadrati delle prime costruzioni, e i successivi ampliamenti, proprio grazie a questi muri eleganti e sobri, davano come l’impressione di vedere una serie di cimiteri rurali uno attaccato all’altro, con i cipressi ad abbellire e a lato le cappelle delle famiglie benestanti. Un’iconografia riconosciuta, e ancora riconoscibile, in borghi più o meno sperduti del nostro paese. Ma il destino di Mestre e del suo cimitero non era certo quello di sfuggire al tempo e alla storia.
I muri cambiano man mano che giriamo in senso orario intorno al cimitero. I mattoni lasciano il posto ad un muro intonacato, rinforzato, e più alto verso la tangenziale,
che si fa invisibile a ridosso della ferrovia, sostituito dai muri di loculi. Ed infine costruito con lastre prestampate nella zona nuova verso il parcheggio grande.
In un mio recente viaggio nei Balcani ero rimasta affascinata da piccoli cimiteri in mezzo alla campagna, privi di qualsiasi recinzione. Un camposanto in mezzo ai campi mi sembrava molto civile. Molto umano. Mi sono avvicinata e ho capito che molti defunti erano giovani uccisi nelle ultime guerre civili. Molto inumane. Per le lapidi avevano usato un marmo nero con incisa sopra una foto, l’effetto era brutto e stridente. Anche la disposizione del cimiterino era un po’ sbilenca, con molti vuoti. Ho chiesto. I defunti dell’altra parte politica (etnica?) erano stati dissepolti e buttati nella fossa comune, anche famiglie che abitavano in quel paesino da sempre. Tutti i simboli religiosi opposti erano stati cancellati e le sepolture divelte. Rifletto su questo, sui muri tolleranti e sui confini intolleranti.
I confini silenziosi a volte sono quelli che funzionano meglio. I confini che abbiamo nella testa, innestati dentro di noi, sono i muri più difficili da abbattere. Linee immaginarie che non possiamo oltrepassare, non possiamo nemmeno immaginare di oltrepassare. Ci impediscono l’attraversamento tanti fattori diversi, la morale, l’etica, la paura, il disagio. O tutto il bagaglio di regole e comportamenti adeguati, e non, che ci hanno insegnato a rispettare fin da piccoli. Insegnamenti che abbiamo incorporato, a cui non possiamo dare le spalle perché fanno parte di noi. Sono come le ossa che tengono in piedi la nostra struttura.
L’antropologo norvegese Fredrik Barth fu il primo a ridefinire in antropologia il concetto di gruppo e di confine etnico. Fino al 1969, anno in cui Barth pubblicò insieme ad altri suoi colleghi della scuola norvegese l’opera collettiva Gruppi e confini
avevano in comune determinati tratti culturali, come le origini storiche, territoriali o linguistiche, un’idea oggettivista che tendeva a giudicare quei tratti come marcatori di un’appartenenza ad una specifica cultura. Barth rivoluzionò questo teoria monolitica e teorizzò, invece, il gruppo etnico come gruppo definibile in base ai criteri che gli interessati stessi elaborano per sentirsi uniti tra loro.
Barth suggerì di analizzare i gruppi etnici dal punto di vista delle dinamiche, pratiche e simboliche, che vengono prodotte da tali gruppi proprio allo scopo di stabilire dei confini che distinguano loro dagli altri. Tali confini, secondo l’antropologo, sono, però, necessariamente porosi, attraversabili, poiché gli elementi essenziali dell’identità sono frutto di possibili transazioni, compiute a seconda della necessità del gruppo. Il gruppo etnico, attraverso questa sua caratteristica dinamica, elabora un criterio di autoidentificazione mediante una serie di strategie contingenti, che gli consentono allo stesso tempo di attraversare i confini ed interagire con i diversi da loro. Questa definizione permette di pensare ai gruppi come entità in continua relazione reciproca. Esistiamo noi in quanto esistono gli altri, mi verrebbe da parafrasare.
I confini non solo delineano e limitano un perimetro di etnie, di comunità, di popoli, ma qualche volta creano l’ identità, creando i popoli stessi. Il confine non è solo un elemento che demarca differenze, ma può anche creare le differenze. Nel momento stesso in cui si attraversa il confine si realizza che ne esiste uno, che ne è stato costruito uno. Ciò ci fa sentire diversi perché ci è stato segnalata la diversità, ci è stato fatto notare l’attraversamento di una linea di passaggio, e ciò ci ha resi differenti, diversi, ci ha resi noi.
Il muro del cimitero, in questo senso, è un esempio perfetto. Non si può certo parlare di differenti gruppi etnici, certo, ma si può parlare di confine tra noi e loro. Noi vivi che
attraversiamo il confine che ci siamo costruiti per ricordarci di non essere loro, i morti. Attraversiamo la soglia. Ne prendiamo atto. Il cimitero è circondato. Lo sguardo è chiuso, non può fuggire. Il confine ci attende, ci accoglie e ci restituisce al nostro mondo ma non smette mai di essere presente, materialmente e simbolicamente. Mi sono resa conto in più occasioni del cambiamento che assumevano alcuni dei miei interlocutori una volta attraversato il confine del cimitero. Veronica appena varcato il cancello d’entrata ha abbassato sensibilmente il tono della voce, e man mano che ci addentravamo nel cuore del cimitero la vedevo incupirsi, farsi sempre più silenziosa, attirando su di se l’ironia mia e di Alessia, l’altra ragazza che era con noi. Ho notato, poi, il suo palese disagio quando la nostra passeggiata ci portava ad avvicinarsi a certe tombe i cui confini non erano più ben delineati. Confini sgretolati dal tempo, il perimetro delle tombe a terra si faceva indistinto, non era più possibile identificare il confine preciso della sepoltura a causa delle erbacce che la ricoprivano, o a causa dell’erosione dei materiali stessi. Il suo imbarazzo era palese nell’avvicinarsi ad alcuni punti che le indicavo, per osservare foto o epigrafi particolari, e varcare così il confine, ormai totalmente svanito, della sepoltura. Vacillava. Non sapeva più fino a che punto poteva spingersi vicino alla tomba. Non era più chiaro quale fosse il limite calpestabile o meno.
Anche Marzio, l’ingegnere più volte nominato in questo capitolo, ha immediatamente abbassato la voce entrando in cimitero, ma non ha assunto nessuna aria funerea, non era apparentemente colpito dal fatto che ci trovassimo in cimitero ma era molto attento al tono della voce, sua, e degli altri. Si è, infatti, innervosito solo in un momento della nostra passeggiata, quando un signore che si trovava accanto a noi ha iniziato a parlare con un tono della voce troppo alto.
Marzio mi ha poi colpita per un altro atteggiamento legato al senso dello spazio, infatti appena entrati in cimitero mi ha chiesto di segnalargli i bagni pubblici, voleva farci una tappa prima di procedere nella passeggiata. Una volta arrivati davanti all’entrata dei bagni abbiamo, però, incontrato un corteo funebre. Quest’improvviso ostacolo, facilmente aggirabile, ha in qualche modo bloccato Marzio, che ha deciso immediatamente di rimandare la sua tappa. Mi è sembrato evidente che non volesse sconfinare un preciso, ma invisibile, confine che aveva posto tra se e il corteo, non voleva avvicinarsi ad esso, forse ritenendo di essere inopportuno. Giudicando l’azione, forse, ancora più sconveniente visto che la motivazione era accedere a dei bagni pubblici. Come ho scritto nel precedente paragrafo quando ho chiesto a Marzio cosa ne pensasse dei “confini rumorosi”, come il suono delle automobili e del treno, mi ha risposto con sicurezza che tali suoni non gli recavano nessun fastidio, fondamentalmente perché non li aveva notati, esattamente come Veronica ed Alessia. Esattamente come Cathia.
Nessuno ha percepito il confine rumoroso ma invisibile, ma tutti hanno notato il confine silenzioso ma visibile. Le mura.
Intervista all’ingegner Marzio Sartorel del 3 maggio 2016. Questo parte dell’intervista si è svolta all’esterno del cimitero, accanto alle mura perimetrali, mentre procedevamo in direzione dell’entrata più piccola, quella più antica.
GIOVANNA: Questo è il muretto vecchio, anche questo preso leggermente con le bombe.
MARZIO: Beh se ci hanno fatto crescere le piante sopra! [Infatti sopra molti dei muretti, soprattutto quelli più antichi in mattoni, cresce e si sviluppa spontanea l’edera rampicante.]
G.: Beh c’è una tomba di famiglia di quelle più antiche che è tutta, totalmente ricoperta di queste edere che sono anche seccate, nel frattempo, è incredibile… ovviamente non ci si può nemmeno avvicinare però sembra non abbiano i soldi nemmeno per sistemare…però in realtà me lo avevano detto anche di questa chiesa e…oddio ma è chiuso però…va beh guardiamo da fuori allora…in realtà hanno iniziato i lavori adesso…forse è aperto!
M.: Ah c’è il cancello, ok.
G.: Eh tanto qui non c’è la chiusura a pranzo [Lo dico con tono ironico]. Tornello. M.: Ma questo perché? Che senso ha?
G.: Non te lo ricordavi?
M.: No, non c’era, sono sicuro.
Attraversiamo la soglia del cimitero, sorpassando il tornello d’accesso, Marzio ha ragione, il tornello è stato messo in anni abbastanza recenti. Quando chiesi all’ex operatore funebre, durante un’intervista, a cosa servisse quel famoso tornello l’uomo mi rispose che era stato installato per impedire l’accesso al cimitero alle biciclette. Questa spiegazione non mi hai mai convinto troppo, visto che le persone in bicicletta possono facilmente accedere al cimitero dall’altro ingresso, quella considerata ormai l’entrata principale, nuova, grande ed agevole per qualsiasi mezzo, motorizzato o non. Molti degli anziani che da soli vanno a far visita ai loro cari in cimitero sono muniti di bicicletta, soprattutto gli uomini, e non sempre rispettano il divieto di salirci
in sella, infatti numerose volte ho visto persone spostarsi per i lunghi viali del cimitero a cavalcioni delle loro biciclette, senza nessuna forma di imbarazzo o senza guardiani od operatori che li rimproverassero.
Intervista a Cathia del 12 maggio 2016, questo preciso momento dell’intervista si svolge appena varcato il cancello d’uscita del cimitero:
GIOVANNA: C’è tutto un discorso sul…[E indico il cancello alle nostre spalle.] CATHIA: Sul fatto che è chiuso!
G.: Sì, sul fatto che è chiuso, che… C.: Che è recintato, è recintato!
G.: Sì è una città dentro una città, con le sue mura fortificate se vuoi, che va a precludere lo spazio, cosa che magari in altre culture non c’è ovviamente, anche solo…beh anche solo quella musulmana per citare l’altra religione monoteista più importante che non ha una divisione, infatti questa cosa mi aveva molto colpita, perché forse tendiamo a relegarlo come spazio.
C.: Come spazio e come momento. G.: Esatto.
C.: Cioè sei dentro dove ci sono i morti e fuori dove c’è la vita, c’è proprio la contrapposizione. Come i muretti là (intende i fabbricati dei loculi) sono veramente brutti perché ti tolgono la visuale praticamente…
G.: Infatti alla fine non potevo prescindere da queste riflessioni…sul come noi andiamo a dividere, a separare, a creare dei confini rispetto al pensiero della morte.
G.: Che è meno…mmm non lo so…è meno legata alla nostra quotidianità se vuoi… C.: Eh altroché, cioè dall’ospedale quando muoiono in maniera, insomma…si non a
letto o a casa…le persone anziane, o quelle che hanno la fortuna di morire così… cioè dall’ospedale passano direttamente al cimitero, cioè tu non hai neanche un momento in cui ripassa per casa la salma…non so al sud, perché al sud fanno le veglie in casa…
G.: Eh al sud mi hanno detto che fanno carte false per fare le veglie…[ Dico ridendo. Sto pensando ad una conversazione avuta mesi prima con un’altra signora, era stata lei a dirmi questa stessa frase. Suo marito è di Vasto, di giù, come dice lei.] C.: Ma da noi c’è proprio questa divisione netta, cioè la morte deve rimanere
qualcosa di isolato, che non disturba quasi no? Eh, è così.
G.: Sì, si è tolta la dimensione domestica se vuoi della morte, che prima comunque c’era abbastanza, c’era tanto anzi.
C.: C’era nelle persone e negli animali anche. [Dopo aver chiacchierato con Cathia d’altro per qualche minuto alla fine è lei a domandarmi se mi ero interessata a questo luogo come paesaggio fotografico.]
G.: Infatti m’interessava, perché io mi sono sempre occupata a livello di fotografia del paesaggio, del terzo paesaggio, dell’abbandono, è un po’ la mia fissazione se vuoi e mi sono ritrovata un po’ così, in modo ingenuo, a riflettere su questi spazi che sono luoghi altri se vuoi, perché sì, sono dentro la nostra città però è come se ne fossero al di sopra o al sotto, non so nemmeno dire…
C.: Eh sì! Ecco un’altra cosa interessante sarebbe vedere l’età media di chi entra in cimitero che secondo me è molto elevata.
C.: Che ne parlavamo prima…che andrà scemando perché…
G.: Infatti diciamo che ho avuto la conferma andandoci tanto in questi mesi che l’età è sicuramente alta.
C.: Eh lo spazio è troppo ristretto per i giovani lì, se vogliamo parlare in termini di spazio! [Ridacchia Cathia.]