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La conservazione dei dati personali nella giurisprudenza della Corte di giustizia

Nel documento Il Cloud Computing (pagine 131-136)

La Corte di giustizia, con sentenza dell’8 aprile 2014 (cause C-293/12 e C-594/12)276, dichiara invalida la direttiva sulla conservazione dei dati277 ritenendo che la stessa, poiché

trasferimento dei dati a soggetti non accreditati presso le AgID, che potrebbero utilizzarli per finalità proprie, ovvero con strumenti su cui la P.A. cliente non riesce ad avere alcun controllo effettivo.

274 S. LEUCCI,S.GIRELLA,J.L.LOUIS A BECCARA, Pubblica amministrazione cit., p. 43 s., ove si evidenzia, quindi,

come nella conservazione digitale permanga alla P.A. il controllo sui propri dati, mentre, nel quotidiano utilizzo di altre tipologie di servizi (quali quelli offerti attraverso il paradigma del cloud) è alquanto evidente il rischio di perdere definitivamente tali dati. Infatti, gli aspetti tecnici della conservazione digitale sono normativamente disciplinati e in capo all’ente pubblico (titolare) rimangono i poteri di determinare le finalità (conservazione), le modalità e le misure di sicurezza del sistema; il fornitore, quale responsabile, avrà chiare responsabilità legate all’oggetto del processo di cui si farà carico.

275 S. LEUCCI,S.GIRELLA,J.L.LOUIS A BECCARA, o.c., p. 44.

276 Corte di Giustizia, 8 aprile 2014, cause riunite c. 293/12 e c. 594/12, Digital Rights Ireland e Seitlinger e a.,

in www.curia.eu. Per un commento esaustivo si veda M. MESSINA, La Corte di Giustizia UE si pronuncia sulla

proporzionalità delle misure in materia di conservazione di dati generati o trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica e ne dichiara la loro invalidità, in Ordine internazionale e diritti umani, 2014, p. 396 ss.

277 Direttiva 2006/24/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, riguardante la

conservazione di dati generati o trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di reti pubbliche di comunicazione e che modifica la direttiva 2002/58/CE (GU L

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impone la conservazione di tali dati e ne consente l’accesso alle autorità nazionali competenti, si ingerisca in modo particolarmente grave nei i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale. Inoltre, il fatto che la conservazione ed il successivo utilizzo dei dati avvengano senza che l’abbonato o l’utente registrato ne siano informati può ingenerare negli interessati la sensazione che la loro vita privata sia oggetto di costante sorveglianza.

La Corte esamina, quindi, se un’ingerenza siffatta nei diritti fondamentali in questione sia giustificata. Sicché essa constata che la conservazione dei dati imposta dalla direttiva non è idonea ad arrecare pregiudizio al contenuto essenziale dei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale. Infatti, la direttiva non consente di prendere conoscenza del contenuto delle comunicazioni elettroniche in quanto tale e prevede che i fornitori di servizi o di reti debbano rispettare determinati princípi di protezione e di sicurezza dei dati. Inoltre, la conservazione dei dati ai fini della loro eventuale trasmissione alle autorità nazionali competenti risponde effettivamente a un obiettivo di interesse generale, vale a dire la lotta alla criminalità grave nonché, in definitiva, la pubblica sicurezza.

Tuttavia, la Corte ritiene che il legislatore dell’Unione, con l’adozione della direttiva sulla conservazione dei dati, abbia ecceduto i limiti imposti dal rispetto del principio di proporzionalità.

A tale riguardo, la Corte osserva che, in considerazione, da un lato, dell’importante ruolo svolto dalla protezione dei dati personali nei confronti del diritto fondamentale al rispetto della vita privata e, dall’altro, della portata e della gravità dell’ingerenza in tale diritto che la direttiva comporta, il potere discrezionale del legislatore dell’Unione risulta ridotto e che occorre quindi procedere a un controllo rigoroso.

Anche se la conservazione dei dati imposta dalla direttiva può essere considerata idonea a raggiungere l’obiettivo perseguito dalla medesima, l’ingerenza vasta e particolarmente

105, pag. 54). Essa ha per obiettivo principale l’armonizzazione delle disposizioni degli Stati membri sulla conservazione di determinati dati generati o trattati dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di una rete pubblica di comunicazione. Essa è quindi volta a garantire la disponibilità di tali dati a fini di indagine, accertamento e perseguimento di reati gravi, come in particolare i reati legati alla criminalità organizzata e al terrorismo. In tal senso, la direttiva dispone che i suddetti fornitori debbano conservare i dati relativi al traffico, i dati relativi all’ubicazione nonché i dati connessi necessari per identificare l’abbonato o l’utente. La direttiva non autorizza, invece, la conservazione del contenuto della comunicazione e delle informazioni consultate.

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grave di tale direttiva nei diritti fondamentali in parola non è sufficientemente regolamentata in modo da essere effettivamente limitata allo stretto necessario.

In primo luogo, infatti, la direttiva trova applicazione generalizzata all’insieme degli individui, dei mezzi di comunicazione elettronica e dei dati relativi al traffico, senza che venga operata alcuna differenziazione, limitazione o eccezione in ragione dell’obiettivo della lotta contro i reati gravi.

In secondo luogo, la direttiva non prevede alcun criterio oggettivo che consenta di garantire che le autorità nazionali competenti abbiano accesso ai dati e possano utilizzarli solamente per prevenire, accertare e perseguire penalmente reati che possano essere considerati, tenuto conto della portata e della gravità dell’ingerenza nei diritti fondamentali summenzionati, sufficientemente gravi da giustificare una simile ingerenza. Al contrario, la direttiva si limita a fare generico rinvio ai «reati gravi» definiti da ciascuno Stato membro nella propria legislazione nazionale. Inoltre, la direttiva non stabilisce i presupposti materiali e procedurali che consentono alle autorità nazionali competenti di avere accesso ai dati e di farne successivo uso. L’accesso ai dati, in particolare, non è subordinato al previo controllo di un giudice o di un ente amministrativo indipendente.

In terzo luogo, quanto alla durata della conservazione dei dati, la direttiva impone che essa non sia inferiore a sei mesi, senza operare distinzioni tra le categorie di dati a seconda delle persone interessate o dell’eventuale utilità dei dati rispetto all’obiettivo perseguito. Inoltre, tale durata è compresa tra un minimo di sei ed un massimo di ventiquattro mesi, senza che la direttiva precisi i criteri oggettivi in base ai quali la durata della conservazione deve essere determinata, in modo da garantire la sua limitazione allo stretto necessario.

La Corte constata, peraltro, che la direttiva non prevede garanzie sufficienti ad assicurare una protezione efficace dei dati contro i rischi di abusi e contro qualsiasi accesso e utilizzo illeciti dei dati. Essa rileva, tra l’altro, che la direttiva autorizza i fornitori di servizi a tenere conto di considerazioni economiche in sede di determinazione del livello di sicurezza da applicare (in particolare per quanto riguarda i costi di attuazione delle misure di sicurezza) e non garantisce la distruzione irreversibile dei dati al termine della loro durata di conservazione.

La Corte censura, infine, il fatto che la direttiva non impone che i dati siano conservati sul territorio dell’Unione. La direttiva non garantisce, quindi, il pieno controllo da parte di un’autorità indipendente del rispetto delle esigenze di protezione e di sicurezza, come è

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invece espressamente richiesto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 8). Orbene, un controllo siffatto, compiuto sulla base del diritto dell’Unione, costituisce un elemento essenziale del rispetto della protezione delle persone con riferimento al trattamento dei dati personali.

La pronuncia, pertanto, ha affermato un importante principio: i dati relativi alle comunicazioni elettroniche devono essere conservati nel territorio dell’Unione, anche al fine di prevenire e contrastare reati gravi.

Alla luce del nuovo Regolamento UE sulla Privacy, può dirsi che il problema della conservazione dei dati personali (rectius, non conservazione degli stessi all’interno dell’Unione europea), non è poi cosí drammatico come può sembrare e ciò in base alla specificazione, nella nuova normativa europea, dell’àmbito di applicazione territoriale della stessa (art. 3). In altri termini, quand’anche i dati personali venissero conservati in un Paese terzo, tale pratica non sempre varrebbe (nel senso che non automaticamente sarebbe sufficiente) ad escludere l’applicabilità del Regolamento in discorso.

La conservazione è essa stessa un trattamento (di dati personali), consistendo quest’ultimo in «qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insieme di dati personali», come, ad esempio, «la conservazione» (art. 4, n. 2).

Adesso, si ipotizzi che il trattamento di dati personali, sub specie di operazione di conservazione degli stessi, avvenga al di fuori dell’Unione. Siffatta conservazione determinerebbe automaticamente la non applicabilità del Regolamento UE? La risposta giusta dovrebbe essere negativa, anche se la formulazione dell’art. 3, par. 1, non sembra la migliore possibile.

Secondo la citata disposizione, ai fini dell’applicabilità o meno del diritto dell’Unione, non rileva il luogo in cui si realizza la conservazione dei dati personali, ma occorrerà far riferimento all’àmbito delle attività di uno stabilimento di un titolare del trattamento ‘o’ di un responsabile dello stesso nell’Unione. In breve, se un titolare ‘o’ un responsabile è stabilito nell’Unione allora il regolamento si applica «indipendentemente dal fatto che il trattamento sia effettuato o meno nell’Unione» (criterio dello stabilimento nell’Unione di un titolare ‘o’ di un responsabile che effettua il trattamento).

Pertanto, il criterio di riferimento, per radicare l’applicabilità dello stesso, è lo stabilimento nell’Unione delle attività del titolare del trattamento ‘o’ del responsabile del

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medesimo, nel senso che se queste attività - ossia le decisioni sulle finalità e sui mezzi del trattamento (rectius, sulla conservazione) dei dati personali o comunque le principali attività del trattamento stesso - sono poste in essere in un suo stabilimento sito in uno Stato membro ciò farà sí che sarà applicabile il Regolamento.

Per il concetto stabilimento, non espressamente definito nel Regolamento, occorre far riferimento al considerando 22°, il quale specifica come lo stabilimento prescinda da una determinata forma giuridica, essendo suo elemento qualificante «l’effettivo e reale svolgimento di un’attività nel quadro di un’organizzazione stabile.».

In altri termini, in base al criterio dello stabilimento nell’Unione di un titolare ‘o’ di un responsabile che effettua il trattamento dei dati personali di una persona fisica identificata o identificabile (rectius, l’interessato), non rileva il luogo in cui sono conservati i dati personali, che potrebbe, ad esempio, situato anche al di fuori dell’Unione, occorrendo, invece, fare riferimento all’effettivo e reale svolgimento di un’attività di un titolare o di un responsabile nel quadro di un’organizzazione stabile all’interno dell’Unione.

Altro caso: titolare o responsabile del trattamento non stabiliti nell’Unione, ma gli interessati si trovano nell’Unione (art. 3, par. 2). Si applicherà il Regolamento in discorso quando le attività di trattamento riguardano: a) l’offerta di beni o la prestazione di servizi ai suddetti interessati nell’Unione, indipendentemente dall’obbligatorietà di un pagamento dell’interessato; oppure b) il monitoraggio del loro comportamento nella misura in cui tale comportamento ha luogo all’interno dell’Unione.

Emerge chiaramente la portata innovativa del criterio in parola, consistente nel fatto che l’elemento che determina l’applicabilità del Regolamento europeo è legato al luogo in cui è situato l’interessato (criterio del luogo in cui l’interessato si trova); se questi si trova nell’Unione, si applicherà il regolamento anche se titolare o responsabile del trattamento non sono stabiliti nell’Unione.

Inoltre il regolamento si applica al trattamento dei dati personali effettuato da un titolare del trattamento che non è stabilito nell’Unione, ma in un luogo soggetto al diritto di uno Stato membro in virtù del diritto internazionale pubblico (art. 3, par. 3).

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