4. Il masnawī come veicolo di appropriazione ed arricchimento del patrimonio narrativo sindhī: il caso di Hīr e Rānjhā
4.4 Considerazioni conclusive sul racconto di Hīr e Rānjhā
Il racconto di Hīr e Rānjhā non intende solamente offrire un esempio di percorso spirituale che porta all’unione con l’amato, ma fornisce anche degli indizi utili a tracciare uno spaccato sociale del passato del Sindh e del Panjāb, in particolare per quanto riguarda le classi più abbienti. L’amore tra i due giovani viene ostacolato, soprattutto dai fratelli della protagonista, poiché Rānjhā, essendo un pastore, appartiene ad una classe sociale inferiore rispetto a quella di Hīr. Il racconto mette anche in evidenza il ricorso al matrimonio combinato, che in questo caso comporta un’alleanza matrimoniale tra il regno di Jhang Siyāl e quello di Rangpūr. Questa situazione mette in evidenza la predominanza della figura maschile nella società: il sovrano Chuchak, nonostante sembri quasi favorevole all’unione tra Hīr e Rānjhā, alla fine si lascia convincere dai figli maschi a dare la figlia in sposa a Nawrang, non dando più retta alle argomentazioni, anche convincenti, più volte espresse da Hīr. Il racconto, dato anche il messaggio spirituale che intende diffondere, mostra una aperta opposizione alle figure più rappresentative dell’ortodossia religiosa, ossia il mullā ed il qāẓī. La forte critica nei confronti della figura del mullā è evidente solo nella versione di Varīs Shāh, nel celebre episodio in cui Rānjhā, durante il suo viaggio verso il Chenāb, sosta per una notte in una moschea e si scontra che il mullā che inizialmente rifiutava la presenza del giovane all’interno della moschea solo per il suo aspetto fisico. La critica nei confronti del qāẓī è invece ben evidente anche nelle versioni persiane del racconto: quando Hīr rifiuta di unirsi a Nawrang ed il padre manda a chiamare il qāẓī, la protagonista lo affronta senza timore, rivolgendogli parole molto dure ed accusandolo di non conoscere la vera fede. Le stesse accuse sono rivolte al qāẓī di Kotkapūr da parte di Rānjhā quando, dopo che i due innamorati sono stati raggiunti da Nawrang, Hīr viene nuovamente affidata al principe di Rangpūr.
Il racconto introduce, nel caso dell’unione tra Hīr e Nawrang, alcune informazioni utili anche per quanto riguarda le cerimonie nuziali nell’ambiente cortese. Nessuno dei poeti descrive né la preparazione della sposa, né la festa di nozze vera e propria, ma l’attenzione è concentrata sui due cortei nuziali, da e per Rangpūr. L’arrivo di Nawrang è accolto con entusiasmo da tutta la popolazione di Jhang Siyāl e viene organizzato un banchetto in suo onore dove sono serviti vino e kebāb in abbondanza,
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accompagnato dai cantanti e dalla musica di daff, ney a tanbūr.467 Il futuro sposo porta come doni a Chuchak suppellettili, dolci, vino, acqua di rose e profumi, mentre la dote offerta dal padre della sposa è costituita da oro, gioielli, perle, stoffe provenienti dalla Persia, schiavi ed ancelle, cavalli, cammelli ed elefanti.468
Entrambi i protagonisti del racconto assumono il ruolo sia di amante che di amato, ma vi è una differenza sostanziale rispetto al racconto di Sassī e Punhū. Mentre, infatti, quest’ultimo racconto può essere diviso in due parti distinte, in cui nella prima parte Punhū assume il ruolo di amante e Sassī quello di amata e nella seconda parte, ossia dopo il rapimento di Punhū, i ruoli dei due protagonisti s’invertono, nel caso della coppia di Hīr e Rānjhā, invece, ambedue i protagonisti sono allo stesso tempo sia amanti che amati. Rānjhā abbandona la propria condizione sociale di principe per mettersi in viaggio alla ricerca di Hīr e, pur di unirsi alla propria amata, diventa prima pastore e poi yogī, diventando quindi un modello di rinuncia del sé e della materialità. Hīr, invece, si ribella alle convenzioni sociali, al volere della propria famiglia e alla figura autorevole del qāẓī, rifiuta Nawrang in più occasioni e, durante il suo soggiorno a Rangpūr, non fa altro che piangere la distanza dell’amato, sofferenza che le provoca anche un indebolimento fisico.
Sebbene di chiare origine panjābī, il racconto di Hīr e Rānjhā è stato quindi completamente assorbito all’interno della panoramica narrativa sindhī. In questo processo di “appropriazione”, veicolato dal genere letterario del masnawī persiano, si è rivelata fondamentale la vicenda personale di Aḥmad Yār Yektā il quale, trascorrendo solamente due anni della sua vita in Sindh, si è conquistato un’ottima fama non solo come governatore, ma anche come poeta, tanto da essere annoverato da Qāne‘ e da Khalīl quale poeta del Sindh. Un ruolo fondamentale nella diffusione di tale racconto in Sindh è assunto anche dai sovrani Tālpūr, i quali hanno incentivato e sostenuto la composizione di ben quattro versioni diverse in poco più di un decennio, spingendo ad includere la vicenda di Hīr e Rānjhā nella narrativa sindhī.
Le versioni del racconto ad opera di ‘Aẕīm, Ẓīyā, Āzād e Valī, come si è visto, riprendono tutte la trama presentata da Yektā, anche se in alcuni casi con qualche piccola variazione che però non altera la trama. La versione che presenta maggiore
467 Cfr. ‘Aẕīm (1957), p. 51, Ẓīyā (1957), p. 116, Laghārī (1957), p. 252. 468 Cfr. ‘Aẕīm (1957), p. 56, Ẓīyā (1957), p. 118, Laghārī (1957), p. 255.
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originalità è sicuramente quella di Āzād, anche se purtroppo è incompleta: la singolarità dell’opera non è data solo dall’inserimento di diversi tamsīl esplicativi, ma anche dall’iniziale digressione sul concetto d’amore, lasciando intendere che la storia che sta per proporre rappresenta un esempio di amore mistico. Āzād è anche l’unico poeta a parlare di sé e della sua personalità, anche se in modo indiretto, riferendo dell’intrigo di palazzo di cui è vittima inconsapevole. L’episodio fa emergere un poeta molto sensibile, meticoloso, ma anche consapevole dell’autorevolezza dei versi che stava componendo.
La versione di Ẓīyā, invece, non viene citata dai due autori successivi, che non esitano però a menzionare ‘Aẕīm. Il poeta è sottovalutato anche da Sadarangani, il quale non lo elenca neppure tra i poeti persiani del Sindh di epoca Tālpūr. L’autore, nello spazio che dedica ad ‘Aẕīm, introduce infatti un breve giudizio solo sulle versioni del racconto di Hīr e Rānjhā ad opera di Aẕīm, Āzād e Valī:
Of the three poetical versions of Hīr-wa-Rānjhā by “ ‘Aẕīm”, “Āzād” and “Walī”, ‘Aẕīm’s is easily superior to that of Walī and ranks equal with that of Āzād, if not higher. It is modeled on Nizāmi’s Mathnawīs and possesses linguistic beauty as well as artistic embellishment. The development of the plot is skillful, and the romance holds the reader’s attention to the last. The trials and tribulations of love are depicted in a language that is both simple and touching. The sympathetic reader feels keenly the acute distress caused by the difficulties that crop up in the path of the lovers. Some of the incidents related in the poem seem incredible, but the poet accepted the tale without giving it his own colour.469
Sadarangani critica inoltre la versione di Valī per la caratterizzazione ironica di diversi episodi:
The presence of such drawbacks in “Walī’s” version indeed diminishes greatly the merit of his narration, particularly when they are absent from the
469 Sadarangani (1956), pp. 169-70.
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earlier versions of “Āfarīn” (d. 1154 A.H. /1741 A. D.), “Āzād” and “‘Aẕīm” to which the author could easily refer.470
Il ricorso all’ironia da parte di Valī in diversi momenti del racconto fanno cadere la caratterizzazione mistica del rapporto tra Hīr e Rānjhā, venendo così a perdersi il significato intrinseco ed il messaggio trasmesso da tale vicenda. Il poeta riduce infatti il personaggio di Hīr ad una semplice principessa disposta a tutto non per unirsi all’amato, bensì per soddisfare un desiderio, una mera passione carnale.
Il processo di inclusione del racconto di Hīr e Rānjhā nella narrativa sindhī si completa con i versi di Sachal Sarmast, primo poeta a dedicare dei versi sindhī a questa coppia di amanti. Il poeta, contemporaneo ai quattro poeti persofoni sopracitati, compose 18 kāfī in cui non esalta solo l’eroina ma, come accade anche nelle versioni panjābī e persiane del racconto, riconosce anche in Rānjhā il ruolo di amante:
مڪاﺣ
تخت
رازھ
وﺟ
تمسق
ويڪ
،لاگنڪ
ينيڪسم
ﺟ
و
َدرم
،يك
ورطخ
وڪن
،لايخ
تبحم
وناتسم
،يرڪ
وڙھھ
ِسڙيڪ
،لاﺣ
يڇپ
گنھﺟ
،لايس
بُﺣ
هن
تخت
رازھ
يﺟ
471Perché, da sovrano di Takht Hazāra, non è ricco ma povero? Da uomo povero, non si preoccupava dei pericoli
L’amore rende ebbri, guarda la sua condizione
Non ricorda più Jhang Siyāl, ora vi è solo Takht Hazāra
گنرون
،ورودن
وڙيك
ناھﺟو
،َهوك
وھجنار
يجنھنم
،َحور
ادس
يسو
وٿ
رس
نويت
472Affliggiti Nawrang, il villaggio ed il mondo sono tristi Rānjhā è la mia anima, proverò sempre disdegno per te
470 Idem, p. 199.
471 Salīm (2010), p. 257. 472 Idem, p. 259.
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Sachal Sarmast, padroneggiando sia il persiano che il panjābī, rappresenta quindi l‘anello di congiunzione in questo lungo “percorso” che ha portato alla diffusione della storia di Hīr e Rānjhā in Sindh. Questo percorso, durato alcuni secoli, è suddivisibile in quattro tappe, cominciando con l’affermazione del racconto in panjābī e proseguendo con la sua riproposizione in persiano sempre all’interno del Panjāb. In un secondo tempo il racconto ha varcato i confini del Panjāb trovando spazio tra i poeti persofoni del Sindh e questo passaggio, come si è visto, si deve soprattutto alla figura di Yektā. Infine, il processo di inclusione di tale racconto in lingua sindhī ha trovato il suo punto di sintesi nella figura di Sachal Sarmast, che, componendo i suoi versi in sette lingue, tra le quali, come è noto, vi sono il panjābī, il persiano ed il sindhī, rappresenta quindi il traguardo finale di questo lungo percorso letterario.
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