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Considerazioni incomplete e marginali su aspetti attuali del disegno nell’architettura

Nel documento De-Sign Environment Landscape City Atti (pagine 90-94)

Franco Purini

Professore Emerito Università La Sapienza Roma

L’architettura è un’attività tra le più importanti, antica quanto la storia dell’umanità, che si configura

come un impegno duplice, comprendente l’arte e la scienza, non in percentuali uguali ma con una forte prevalenza del primo termine. E’ intrinseca in essa l’esistenza della funzione, che non deve essere considerata come un fatto esclusivamente tecnico ma come un luogo teorico e creativo nello

stesso tempo stabile e metamorfico, da pensare in un ambito tipologico molto prossimo a quello delle relazioni strutturali e morfologiche alla quali le componenti di un edificio danno vita. L’energia

intellettuale e creativa che governa il processo generativo di un territorio naturale di una città, dei

suoi edifici, è per me, in accordo con le idee cinquecentesche di Giorgio Vasari e di Federico

Zuccari, ma anche con le concezioni moderne del costruire di Le Corbusier e Ludwig Mies Van der Rohe, il disegno come sorgente primaria delle tre arti, la pittura, la scultura e l’architettura. C’è anche da dire che non sono mai stato convinto che l’architettura sia una disciplina, per di più

composta di saperi specialistici autonomi, ovvero dotati di un proprio campo specifico. Credo invece

che l’architettura sia unitaria, come lo sono tutti gli organismi ma, come questi, articolata in più

parti o aree definite ma non indipendenti che si stratificano, interagiscono, e si integrano al fine di produrre un’identità concettuale e operante definita da precisi confini tematici, coerente nell’insieme

delle sue componenti. In sintesi l’architettura non è formata da saperi diversi, dotati di una loro identità statutaria, ma il suo è un paesaggio conoscitivo e creativo il quale, come tutti i paesaggi, è caratterizzato da zone individuali, al contempo costituenti, come ho già detto, una struttura nel

senso che il linguista Louis Trolle Hjelmslev dà a questa parola.

L’area della rappresentazione ha dato negli ultimi decenni un contributo, che non è esagerato ritenere straordinario, all’evoluzione dell’architettura verso dimensioni più ampie e complesse. Tale contributo ha riguardato due ambiti centrali della conoscenza e della creazione dell’architettura, il rilievo e la progettazione, che in questo testo preferisco, per inciso, da qui in poi, chiamare composizione per sottolineare la sua essenza formalizzatrice. In entrambi i casi le elaborazioni teoriche e le

relative nuove direzioni operative hanno riguardato le potenzialità offerte dalla rivoluzione digitale.

L’introduzione degli strumenti elettronici nel rilevo ha prodotto senza dubbio un avanzamento improvviso e rapido della conoscenza dell’architettura su più piani, rendendo più agevole lo studio

di un insediamento urbano e quello degli edifici che esso comprende. Anche l’archeologia, sebbene l’argomento non rientri in queste note, si è avvalsa con significativi risultati di queste risorse digitali.

I mezzi messi a disposizione dall’architetto hanno inoltre consentito all’architetto di dotarsi di un nuovo senso, una vista capace di entrare più rapidamente, con maggiore esattezza e con una

completezza prima difficile da ottenere, nel dispositivo tettonico di un’architettura, nei materiali di

cui questa è composta, nei suoi dettagli costruttivi. In breve la scrittura architettonica di un’opera risulta più evidente e precisa se questa è rilevata con gli strumenti digitali, tenendo comunque conto che decifrare i contenuti di tale scrittura è un esercizio critico che il rilievo, da solo, non può compiere, data la vastità tematica della ricognizione ermeneutica alla quale, però, un rilevamento più avanzato può dare un contributo essenziale.

Al contempo, per quanto riguarda edifici antichi, anche il sistema delle stratificazioni temporali

che li caratterizza si rende più comprensibile tramite i nuovi strumenti elettronici a disposizione della ricerca. Ovviamente il digitale non è uno strumento neutrale, ma produce, per così dire, un

suo linguaggio figurativo ormai del tutto strutturato. Un linguaggio il quale reca in sé alcuni valori che entrano indirettamente, modificandone l’interpretazione, nell’architettura che esso consente di

conoscere, contribuendo così all’idea che noi possiamo elaborarne. Da questo punto di vista al disegno di rilievo digitale va sottratto tutto ciò che non è la restituzione oggettiva di alcuni dati strutturali e formali del manufatto studiato.

Il secondo ambito nel quale negli ultimi decenni l’informatica ha agito sull’architettura riguarda

il progetto. Tale spazio concettuale e pratico riguarda tre piani. Il primo è quello grafico, che ha modificato in modo sostanziale le procedure previsionali riguardanti le scelte progettuali. Procedure

che hanno trovato nel BIM (Building Information Modelling) uno statuto ormai consolidato. Il

digitale ha prodotto alcune modificazioni genetiche nell’attività progettuale, nel senso che esso tende a separare le fasi di definizione di un manufatto rinunciando a quella necessaria presenza in ognuna

di queste della concezione generale di ciò che si sta cercando di organizzare in una progressione logica di decisioni. Il secondo piano nel quale si articola il ruolo del digitale nel progetto è l’accesso

a un numero incalcolabile di riferimenti figurativi e formali. In effetti la presenza nell’architettura globale di immaginari fitomorfici, zoomorfici, minerali, astronomici, orografici, oltre allo sterminato

repertorio di elementi architettonici che si possono trovare nella rete si deve proprio alla sua natura di wunderkammer, più che di enciclopedia, della rete stessa, che propone un universo iconico che

mi fa pensare all’ossessione classificatoria di Athanasius Kircher. Il terzo aspetto che il digitale

ha assunto nella progettazione architettonica è la dimensione parametrica, che dalle pioneristiche

ricerche di Luigi Moretti è arrivato alle note sperimentazioni di Zaha Hadid. Una constatazione che

mi preme proporre consiste nel fatto che non sono stati i docenti di composizione architettonica,

tranne Antonino Saggio, a introdurre, teorizzare, illustrare l’operatività e infine diffondere il disegno

digitale nell’attività progettuale, come sarebbe stato ovvio aspettarsi, ma tale lavoro esplorativo e F. Purini

sperimentale è stato svolto in prima istanza da ricercatori e professori dell’area della rappresentazione, tra i quali vorrei ricordare Livio Sacchi per le sue illuminanti analisi sulle risorse ma anche sui

limiti dell’era informatica. Se lo spazio di queste note lo consentisse avrei affrontato volentieri la

forte incidenza del pixel nel disegno digitale, un’incidenza dovuta in gran parte dall’assenza, in questa cellula genetica della rappresentazione elettronica, dello spazio e del tempo. Il tutto in una istantaneità tanto suggestiva quanto, ancora oggi, densa di enigmi.

L’avvento del digitale nell’architettura non è stato, però, solo positivo. Nelle Facoltà di Architettura

mi sembra che la diffusione dell’informatica- per inciso all’interno della stagione che vede nascere

le arti elettroniche, indagate in modo esteso e criticamente profondo, nel contesto italiano, da

Lorenzo Taiuti- abbia fatto scomparire, almeno ufficialmente, la pratica del disegno manuale. Con

questa estinzione o, se si vuole, questa eclisse ormai trentennale, si è perduto uno spazio di ricerca che doveva a mio avviso permanere. Lo studio dal vero di forme, di ambienti naturali e urbani o di architetture; la traduzione di soluzioni possibili a un problema architettonico tramite schemi,

diagrammi e configurazioni primarie di elementi espresse in schizzi; le prime stesure degli elaborati

progettuali come piante, sezioni, prospetti in una simultaneità operante tra mente e mano sono entità quasi del tutto assenti oggi, nell’architettura attuale. Si tratta di una mancanza fortemente negativa, perché recide quel legame mentale tra l’idea e la sua rivelazione attraverso il segno, che è tra l’altro, assieme alla scrittura, l’espressione di sé più riconoscibile che un individuo possieda. Voglio anche ricordare che in prima istanza disegno manuale, ma anche quello digitale, come avviene nella ricerca di alcuni architetti delle giovani generazioni, se pensato oltre gli stereotipi ormai consolidati, può

essere ancora uno spazio privilegiato di ricerca teorica. In effetti esiste un’esplorazione concettuale

che solo nel disegno, tra utopia e visionarietà, concretezza e idealizzazione, semplicità e complessità, si esprime compiutamente. Non è certo una scelta lungimirante quella di avere escluso o lasciato in una condizione indeterminata o del tutto individuale questo spazio, da sempre ricco di intuizioni teoriche e formali necessarie all’architetto per la loro vocazione anticipatrice, dal processo formativo in atto nelle nostre scuole oppure lasciato in una condizione indeterminata o del tutto individuale.

Alla luce di queste considerazioni, sono convinto che occorra procedere al più presto dare vita fin

dall’inizio degli studi a una simbiosi teorica e operativa tra il disegno manuale, da riscoprire nelle sue numerose valenze ancora presenti, e il disegno digitale. Tutto ciò cercando di superare un fattore strutturale del sistema universitario attuale che secondo me non è stato una buona scelta, ovvero

la frammentazione degli insegnamenti in settori scientifico-disciplinari. Questi si sono configurati

come binari, paralleli o divergenti, che non consentono incontri e interazioni tra aree diverse di un medesimo sapere. Fino a quando dagli specialismi, oggi dominanti, non si risalirà a una visione generale, ritengo che non sia possibile far sì che l’architettura riacquisti la sua sostanziale unità. Il Novecento ha visto un fenomeno particolare per quanto concerne la concezione del nostro mestiere, vale a dire il suo continuo ampliamento tematico. Un’estensione sempre più vasta che ha prodotto di fatto la dissoluzione dell’architettura in una miriade di competenze diverse, spesso molto lontane le une dalle altre. Questa dilatazione ha tolto molte delle possibilità di riconoscere e di valutare

F. Purini

essa divenuta non solo un ibrido labirintico tra atopia, mediaticità, moda, gusto dell’effimero

e del relativo ma anche un ambito essenzialmente neofunzionale, che ha reso anche la forma e la sua bellezza non più una realtà estetica di matrice intellettuale spirituale, ma una semplice e

gratificante oggettivazione. Il tutto espresso non più da linguaggi architettonici diversi, prodotti

dalle tante culture del mondo, culture la cui molteplicità è un inestimabile valore umanistico, ma da

un artificioso e ingannevole esperanto nel quale tutto si mescola in una casualità incomprensibile e insignificante che deprime ogni singolo luogo rendendolo anonimo e muto. Questa situazione non è frutto di un progresso, ma l’effetto di un arretramento del nostro sapere, caratterizzato attualmente

da una molteplicità inestricabile che occorre contrastare al più presto. A cominciare dal considerare di nuovo l’architettura come un’arte dell’abitare che deve consentire a tutti gli esseri umani di vivere, per quanto è possibile, in modo sempre più libero, aperto e felice.

Incomplete and marginal considerations on

Nel documento De-Sign Environment Landscape City Atti (pagine 90-94)

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