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di Veronica Dini

Avvocato, esperta di mediazione in conflitti ambientali

Diceva George Bernard Shaw che «se tu hai una mela e io ho una mela e ce le scam-

biamo, abbiamo sempre una mela per uno. Ma se tu hai un’idea e io ho un’idea e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee».

Ebbene, in tempi complessi come quelli in cui viviamo, di fronte a sfide sempre più cruciali e a rischi sempre più gravi per la salute del nostro territorio, l’impegno e la creatività dei cittadini possono costituire una risposta decisiva.

Ne è un esempio quanto sta accadendo in molti Comuni d’Italia in relazione al con- sumo e all’occupazione di suolo. È noto che siamo oggi in presenza di due grandi squilibri: quello ambientale e quello economico-finanziario.

In relazione al primo aspetto, le nuove stime del rapporto Ispra «Consumo di suolo

in Italia 2015», confermano una velocità media di perdita di 6 – 7 metri quadri al

secondo, per un totale di 55 ettari al giorno, prevalentemente in aree agricole (qua- si il 60%), ma anche urbane (22%) e naturali (19%). È stato cancellato il 20% della fascia costiera italiana, insieme a 34.000 ettari all’interno di aree protette, il 9% delle zone a pericolosità idraulica e il 5% delle rive di fiumi e laghi.

In un recente articolo su Il Sole 24 Ore, Salvatore Settis ricorda che, rispetto a una crescita di appena lo 0,4% della popolazione italiana, l’Italia consuma suolo per una quantità almeno quaranta volte superiore. Atre fonti ci dicono che, nel Paese, disponiamo di 120 milioni di stanze a fronte di circa 60 milioni di abitanti.

Il quadro diventa ancor più delicato, critico e complesso se questi dati si mettono in connessione con quelli relativi al dissesto idrogeologico: i recenti fatti di cronaca (e, purtroppo, non solo quelli) relativi agli eventi calamitosi causati dalle precipi- tazioni atmosferiche in molte aree del Paese e le pesanti conseguenze sul piano ambientale, testimoniano di scelte poco oculate nell’uso del suolo e raccontano di un territorio violentato, ponendo con forza l’assoluta attualità e centralità del tema del governo e del consumo del territorio.

Analogamente, occorre tenere a mente l’importanza del suolo ai fini dell’assorbi- mento di CO2: 1 ettaro di suolo permeabile trattiene, infatti, più di 250.000 kg di CO2 equivalenti.

Secondo molti osservatori1, la crisi ambientale e quella economico-finanziaria sono connesse e derivano entrambe da una distorta interpretazione delle leggi degli uomini: il diritto collettivo al territorio e la funzione del credito.

La situazione è oggetto di dibattiti, proposte, elaborazioni scientifiche, stimolati anche da alcune leggi regionali di terza generazione e dalle sempre più pressanti sollecitazioni comunitarie, spesso senza una reale incidenza sulla realtà.

Fanno eccezione alcune specifiche realtà locali in cui si è diffusa e radicata l’idea che il territorio in cui viviamo costituisce un bene comune (common), una risorsa finita e non rinnovabile che abbiamo in uso e non in proprietà, da gestire partendo dalle persone e attraverso la collaborazione tra le pubbliche amministrazioni e i cittadini, non più semplici utenti ma parte attiva della città.

L’idea che sottende queste iniziative è quella secondo cui «il bene comune non è a

consumo rivale, presenta una struttura di consumo relazionale che ne accresce il valore attraverso un uso qualitativamente responsabile (e pertanto ecologico)»2.

Si fa riferimento, ad esempio, ai casi di gruppi di cittadini che si attivano da soli insieme al Comune, per recuperare un edificio in disuso o un’area dismessa, per elaborare microprogetti di arredo urbano o d’interesse locale, per costruire un orto urbano: queste iniziative, oltre a rivitalizzare e a conferire una funzione a un bene abbandonato o a offrire una sede per nuove attività, contribuiscono – direttamente – al contenimento del consumo di suolo. Oggi, in Italia, la crisi economica e quella economica si fronteggiano sfruttando le idee innovative ed evitando gli sprechi. A queste iniziative ha contribuito a dare cornice e slancio il Regolamento sulla colla-

borazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, elaborato dall’Associazione Labsus e dal Comune di Bologna nel febbraio

2014 e già approvato da altri 41 comuni (mentre la procedura per l’adozione è stata avviata da altre 75 amministrazioni, tra cui Roma, Torino, Milano e Genova), il quale si propone di accrescere nei cittadini il senso di responsabilità nei confronti del patrimonio comune urbano, che rappresenta una ricchezza, ma implica, conte- stualmente, il dovere di averne cura. Favorisce inoltre l’elaborazione di strategie e strumenti innovativi, per intraprendere pratiche di co-produzione e co-governance della città e quindi, prima ancora, di co-produzione di un’agenda urbana condi- visa e inclusiva, attraverso forme di democrazia partecipativa e deliberativa. La costruzione di una nuova agenda urbana, intesa come sequenza reale di azioni e non mera dichiarazione d’intenti, è del resto uno degli obiettivi centrali della terza conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo urbano sostenibile, che si svolgerà

nel 2016.

In concreto, il Regolamento, trova il suo fondamento nell’art. 118 Cost. (e nell’art. 9 Cost.) e costituisce uno strumento assai avanzato per affrontare, in modo demo- cratico, semplice e trasparente la gestione dei beni comuni abbandonati, la loro cura, valorizzazione – non solo economica ma anche sociale – e rigenerazione. A livello regionale, interessante si rivela, tra l’altro, l’esperienza maturata in Puglia, dove la Legge regionale per la rigenerazione urbana, dal 2008, promuove l’applica- zione di «strumenti di intervento elaborati con il coinvolgimento degli abitanti e di sog-

getti pubblici e privati interessati», facendo della sinergia tra diversi attori del Terzo

Settore un principio cardine di intervento sul territorio.

Un’idea non dissimile, del resto, ispira la proposta, recentemente presentata dal presidente della Commissione Politiche Abitative e Lavori pubblici dell’Anci, volta a limitare le edificazioni su suolo libero, introducendo normative e procedure che stimolino le amministrazioni pubbliche alla riqualificazione e alla rigenerazione ur- bana. Il documento spiega l’importanza di avviare nuove modalità di pianificazione che rigenerino la città: oltre all’esigenza di consumare meno suolo occorre, infatti, lavorare sui tessuti urbani esistenti, cercando di rivitalizzare la trama consolidata, combinando trasformazione fisica, interventi immateriali, produzione di spazi per la collettività, attivazione di nuove forme di partnership e partecipazione, genera- zione di valori e beni comuni.

In attesa di nuovi strumenti normativi, peraltro, alcuni Comuni a partire dal noto caso di Cassinetta di Lugagnano (MI), provano a porre al centro della propria pia- nificazione territoriale le ragioni della natura, delle risorse e dell’ambiente3. Queste esperienze, invero sempre più frequenti, di pianificazione territoriale bottom-up e governo condiviso del territorio hanno liberato energie positive, contribuendo a in- dividuare soluzioni creative, innovative e concrete anche a problemi sistemici e complessi come quello del consumo di suolo. E a rendere davvero smart le città in cui tali esperimenti hanno luogo. Risultati particolarmente significativi in un Pae- se in cui, almeno nella storia recente, all’edilizia è stato assegnato il doppio ruolo di ammortizzatore sociale e di volano dell’economia. E ancor più interessanti se si considera che, effettivamente, rispetto al consumo di suolo, la pianificazione urbanistica rappresenta la causa del problema ma anche l’unico (o, comunque, il più immediato) strumento concretamente utilizzabile per farvi fronte. Non è suffi- ciente, infatti, che il suolo sia tutelato per legge: deve essere al centro di progetti, programmi e idee, innanzitutto di tipo culturale. Il successo di tali iniziative, del resto, conferma le più recenti teorie in materia di governo dei beni comuni: si pensi agli studi di Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia per i suoi studi in materia di governence economica e gestione dei commons. La teoria che le è valsa un premio Nobel è contenuta nel suo lavoro «Governing the commons. The evolutions

of institutions for collective actions», pubblicato nel 1988. La domanda a cui l’autri-

ce ha cercato di trovare risposta riguarda la gestione delle risorse naturali e, più in particolare, come garantire la loro sostenibilità economica di lungo periodo. Al problema non è mai stata data una risposta univoca, né in campo accademico, né tanto meno in quello politico. Alcuni articoli sulla cosiddetta «tragedy of the com-

mons» raccomandano il controllo statale di queste risorse al fine di salvaguardar-

ne la sopravvivenza. Altri propongono, invece, di privatizzare tali beni in modo da garantirne un uso più efficiente. Le rilevazioni empiriche, tuttavia, suggeriscono che né lo Stato, né tanto meno il mercato sono in grado di assicurare, sempre e in tutte le circostanze, una sostenibilità di lungo periodo e un uso produttivo delle risorse naturali.

Elinor Ostrom è andata oltre l’annoso dibattito, prospettando una terza via, che si concreta nella gestione civica del bene attraverso istituzioni di autogoverno. Progressivamente, anche grazie alla spinta propulsiva derivante dalle esperienze descritte, dunque, alla categoria dei commons si comincia a guardare con sempre maggior interesse anche nel dibattito giuridico italiano: si pensi, tra l’altro, alla de- cisiva presa di posizione dalla Corte di Cassazione a sezioni unite che, in chiave attualizzante rispetto ai valori costituzionali, ha affermato che devono ritenersi comuni, prescindendo dal titolo di proprietà, quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell’intero si- stema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività ed alla realizzazione dello Stato sociale.

Il cammino è e sarà lungo. Ma le idee interessanti non mancano. Occorre indivi- duarle e stimolarle.

Note

1. P. Maddalena, Il territorio, bene comune degli italiani, Il Saggiatore, 2014. 2. U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Editori Laterza, Bari-Roma, 2011, p. 78. 3. P. Pileri, Che cosa c’è sotto, Altraeconomia Edizioni, 2015.

Veronica Dini - Avvocato ed esperta di diritto dell’ambiente, si occupa di prevenzione e risarcimento danni ambientali, bonifica siti contaminati, gestione rifiuti, inquinamento atmosferico, acustico, luminoso, idrico, valutazione di impatto ambientale, valutazione ambientale strategica, elettrosmog, audit ambientali, tutela dei beni culturali e paesaggistici, mediazione ambientale.

di Alberto Contri

Presidente Fondazione Pubblicità Progresso, docente Università IULM

L’utilizzo intelligente dell’acqua, un impegno per tutti

Secondo il rapporto delle Nazioni Unite presentato nel marzo 2015 a Nuova Delhi, da qui al 2030 il pianeta dovrà far fronte a un deficit di approvvigionamento idrico del 40%, salvo che non venga fortemente migliorata la gestione di questa preziosa risorsa.

L’acqua è certamente essenziale per la crescita economica e per la lotta con- tro la povertà, e il suo consumo è direttamente influenzato dallo sviluppo eco- nomico. Per risolvere questo dilemma, è necessario raggiungere l’equilibrio tra domanda e offerta di acqua, ma siamo ben lungi dal conseguirlo. Nonostante i notevoli progressi compiuti negli ultimi anni, 748 milioni di persone non hanno ancora accesso a fonti di acqua potabile cosiddette migliorate. Il termine “fonti di acqua ‘migliorata’ si riferisce a cose tipo: una connessione domestica, un tubo pubblico, un pozzo trivellato, un pozzo o sorgente protetti. “Fonti non migliorate” sono i venditori, le cisterne e pozzi o sorgenti non protetti. “Accesso ragionevole” viene definito come disponibilità di almeno 20 litri d’acqua a persona al giorno da una sorgente ad una distanza di un chilometro dall’abitazione.

Nel 2000, meno del 50% delle persone che abitavano nelle zone rurali dell’Africa sub-sahariana avevano accesso alle sorgenti di acqua migliorata. Nelle aree ur- bane, questa cifra superava l’80%.

Attualmente nel mondo si contano 261 bacini idrici internazionali suddivisi tra 145 nazioni nelle quali risiede più del 40% della popolazione mondiale. L’area geografica più critica appare oggi quella mediorientale, all’interno della quale la storica disputa per la gestione delle scarse risorse idriche è acuita dall’ingresso di nuovi attori nel controllo della risorsa e dall’effetto del cambiamento climatico. Questi fattori rischiano di trasformare l’acqua da “amplificatore di conflitti”, nel senso di variabile capace di accentuare le cause di conflitti preesistenti, a “cata- lizzatore di conflitti”, assumendo il ruolo di forza attiva nel provocare conflitti. La crisi della risorsa idrica è un problema anche per molte zone dell’Europa meridio-

nale e dell’America.

Al tempo stesso, il pianeta non ha mai avuto un bisogno così grande di acqua. Per soddisfare le necessità di una popolazione costantemente crescente, i set- tori dell’agricoltura e dell’energia devono continuare a produrre sempre di più. Da qui al 2050 l’agricoltura, settore con i più elevati consumi di acqua, dovrà produrre a livello globale il 60% in più di alimenti – il 100% in più nei Paesi in via di sviluppo. La domanda di prodotti industriali è anch’essa in aumento, ciò che a sua volta comporta un’ulteriore pressione sulle risorse idriche. Secondo le pre- visioni tra il 2000 e il 2050 la domanda di acqua da parte dell’industria aumen- terà del 400%. Tuttavia, al di là dell’impennata della domanda di acqua, con un incremento previsto pari al 55% entro il 2050, e malgrado il sovrasfruttamento che riguarda il 20% delle fonti globali di acque sotterranee, il cuore del problema sta nelle modalità non sostenibili di gestione della risorsa. L’irrigazione delle col- ture intensive, il rilascio incontrollato di pesticidi e sostanze chimiche nei corsi d’acqua e il mancato trattamento delle acque reflue sono tutte concause della situazione attuale. Sappiamo che l’acqua dolce disponibile è distribuita in modo diseguale e ci sono differenze di accesso all’interno dei singoli Paesi e regioni. A livello mondiale, Il 70% dell’acqua dolce esistente sulla Terra è destinata all’a- gricoltura. Nel 2011, circa 3.900 chilometri cubici di acqua dolce sono stati im- piegati per il mantenimento del bestiame e l’irrigazione, il 20% è stato utilizzato per scopi industriali e solo il 10% per utilizzo domestico.

Come se non bastasse, sempre più significativi sconvolgimenti climatici, ancor- ché accompagnati da piogge torrenziali, comportano sempre più lunghi periodi di siccità con conseguente riduzione delle risorse idriche. L’aumento delle tem- perature con picchi di calore prolungati, aumenta drasticamente la richiesta di energia per il condizionamento delle abitazioni e degli uffici e il raffreddamento degli impianti industriali, con un crescente consumo di risorse idroelettriche, già impoverite dal ritiro dei ghiacciai.

Tenuto conto di tutti questi fattori, ci rendiamo conto che la situazione non è per nulla rosea.

Di certo i comuni cittadini non possono intervenire a sedare le guerre per l’acqua, che stanno già serpeggiando in giro per il mondo. Cittadini che spesso si sento- no inermi di fronte al fatto che per molti e svariati motivi ci sono casi in cui fino al 40% del contenuto degli acquedotti non arriva ai destinatari finali ma viene disperso.

Ecco perché la Fondazione Pubblicità Progresso ha deciso di lanciare una grande campagna sull’uso responsabile delle risorse naturali, non soltanto dell’acqua. L’obiettivo è rendere consapevoli i cittadini che molto spesso non è che manchi-

no le risorse, ma accade che siano mal distribuite, anche a causa di chi le spreca. Già il titolo della campagna dice molto: “Sostenibilità. Sobrietà. Solidarietà.” E proporrà suggerimenti e comportamenti virtuosi nell’utilizzo dei beni comuni, facendo ricorso ai media tradizionali e ai social network, molto adatti ad appro- fondimenti, riflessioni e condivisioni. Oramai da tempo a Pubblicità Progresso siamo convinti del fatto che non è sufficiente uno spot di pochi secondi per ot- tenere significativi mutamenti di abitudini. Gli spot pubblicitari e i video su You- Tube vengono creati con lo scopo di destare l’interesse e scuotere le coscienze, invitando le persone a consultare un apposito sito in cui è possibile trovare la descrizione di tutte le buone pratiche da mettere in atto e da consigliare.

Per quanto riguarda l’acqua, ad esempio, la maggioranza delle persone pensa che sia una risorsa infinita e quindi non si cura di applicare quotidianamente comportamenti che potrebbero farne risparmiare ingenti quantità.

Le ricerche ci dicono che nel semplice atto di lavarsi i denti, lasciando scorrere l’acqua, ogni minuto se ne vanno giù per lo scarico 7,5 litri. Per riempire una va- sca da bagno si impiegano dai 150 ai 200 litri, mentre per ogni minuto di doccia si consumano circa 15-16 litri: applicando un frangigetto, il consumo verrebbe addirittura ridotto a 9 litri al minuto. Raramente si fa caso poi allo sciacquone del water, che ogni volta può consumare dai 6 ai 12 litri, mentre usando il tasto più piccolo se ne consumano solo 3.

La campagna non intende comunicare un senso di angoscia per la limitatezza delle risorse ma far riflettere sul concetto che una crescita “felice” è possibile (al contrario della “decrescita” felice promossa dai sociologi più pessimisti), sempli- cemente introducendo abitudini più attente all’impiego virtuoso delle risorse, da trasmettere anche ai nostri figli, così da garantire loro un futuro più sereno su questo fronte.

Alberto Contri - È presidente della Fondazione Pubblicità Progresso dal 1999, consigliere dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. È docente di Comunicazione Sociale presso l’Università IULM di Milano. Ha svolto il ruolo di Consigliere Rai dal 1998 al 2002, gestendo la specifica delega ai nuovi media, progettando tutti gli asset di cui oggi la Rai dispone in questo settore innovativo.

Come stimolare comportamenti sostenibili? Quale ruolo può avere la comunicazione per migliorare rapidamente la cultura della sostenibilità? Il futuro della comunicazione, in particolare sociale, sarà legato alla capacità delle campagne di diventare crossmediali per raggiungere un cittadino sempre più multitasking, alla qualità dei contenuti delle campagne, alla loro capacità di innovare.

Creatività, passione, coraggio: questi alcuni fattori che potranno far crescere la comunicazione sociale.

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