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3. Alle origini della capacità di essere soli

3.1. Il contenimento metaforico dell'altro

In principio (…) la figura di ciascuna persona era tutta rotonda, col dorso e i fianchi formanti un cerchio, e aveva quattro mani e altrettante gambe, e sopra il collo tondo due facce simili in tutto (…). Così erano terribili per forza e per vigore, e avevano ambizioni superbe (…). Allora Zeus (…) ebbe un'idea e disse: “(...) Adesso li taglierò in due uno per uno, e così si indeboliranno (…). Ordunque, allorché la forma originaria fu tagliata in due, ciascuna metà aveva nostalgia dell'altra e la cercava; e così, gettandosi le braccia intorno e annodandosi l'una all'altra per il desiderio di ricongiungersi nella stessa forma, morivano anche di fame e di inattività, poiché l'una non intendeva far nulla separata dall'altra (…). E dunque da tempo così remoto è innato negli esseri umani l'amore gli uni per gli altri, anzi esso è il restauratore dell'antica natura in quanto cerca di curare e di restituire all'unità, di doppia che è divenuta, l'umana natura. Pertanto ciascuno di noi, in quanto è stato tagliato come si fa con le sogliole, è la metà, il contrassegno, di un singolo essere; e naturalmente ciascuno cerca il contrassegno di se stesso. (…) non sembra assolutamente trattarsi del rapporto sessuale, (…) l'anima di ciascuno dei due desidera qualcos'altro, che non sa esprimere, eppure vaticina ciò che desidera e lo manifesta per enigmi159.

In questo suggestivo racconto delle vicende primordiali dell'umanità e delle origini dell'amore, tratto dal Simposio platonico, troviamo raccolta e filtrata in linguaggio mitico l'intima, autentica storia di ciascuno di noi. All'alba della vita siamo una cosa sola con la persona responsabile delle nostre cure; il rapporto che ci stringe a lei è un rispecchiamento e una condivisione di corpi e mondi interiori, un'identificazione reciproca, una comunicazione inconscia, talmente immediata ed empatica da non avere bisogno di parole per esprimersi. Ma, man mano che la vita 159Platone, Simposio, BUR, Rizzoli, Milano 1999, pp. 141-147.

procede, avanza per noi, inesorabile, anche il dolore della separazione, un dolore crudele, e tuttavia necessario perché si aprano sotto i nostri passi i percorsi del buon funzionamento mentale. Della parte più lontana del nostro passato non conserviamo ricordi consapevoli, ma dentro di noi, nel dinamico raccoglitore di tutti i nostri Io che è la realtà psichica, essa continua a vivere, e a farlo pronta a ritornare alla luce, sottilmente e per frammenti, sulla scia di connessioni analogiche innescate in automatico dalle esperienze sensoriali ed emozionali del nostro presente.

Ne è traccia una nostalgia della primissima infanzia che resta sempre con noi, accompagnandoci da quella remota lacerazione che abbiamo subito con il trauma dello svezzamento. La sua essenza consiste nel desiderio di fare ritorno a un passato idealizzato e rimpianto, che stranamente si accompagna a una sensazione agrodolce di piacere, in fondo perché capiamo che il tempo perduto non potrà mai essere recuperato, anche in ragione del fatto stesso che si è smarrita, come annebbiata e polverizzata, la memoria delle vicissitudini correlative, inclini a visitarci solo vagamente, e senza che sia possibile gestirne il riscatto; la parola stessa “nostalgia” è un composto dei termini del greco classico “νόστος”, ritorno, e “άλγος”, dolore, a indicare che il sentimento depressivo di aver subito una perdita significativa e irreparabile e lo struggente sentimento di solitudine che ne affiora generano il fenomeno che essa designa, ossia un desiderio di recupero misto a sofferenza.

La motivazione più potente che sta dietro questo desiderare acidulo è la ricerca della felicità nell'unica forma perfetta che abbiamo conosciuto, legata a una condizione ideale di sferica pienezza d'essere, libera da sospensioni, conflitti, mancanze, vuoti. In definitiva, la nostalgia dell'infanzia è quella di uno stato di completa fusione e comunicazione con l'altro, tale da annullare ogni possibilità di sentirsi fragili, soli e abbandonati; uno stato che rappresenta un richiamo fortissimo per noi esseri umani, costretti a vivere nella separazione e, quindi, nell'isolamento, almeno se vogliamo rimanere nei territori della salute.

Freud introduce il termine nostalgia (“sehnsucht”) esplicitamente in relazione al rapporto primitivo con la figura d'accudimento. E' di essa che parla per descrivere il desiderio struggente che il lattante avverte non appena la madre scompare, venato di dolore in ragione di una perdita che egli sente come definitiva, ma non

accompagnato da disperazione160. Con una variazione, utilizza il termine anche in riferimento al desiderio del ritorno nel corpo materno, cioè l'“antica patria”, luogo in cui ognuno ha dimorato un tempo161, correlando così la nostalgia al rimpianto per la condizione fetale, un passato ancora più remoto e dimenticato, ma non totalmente irrecuperabile alla coscienza, nel quale la fusione corporea e psichica con l'altro è stata doppiamente assoluta, perché letterale, e non metaforica.

La nostalgia spinge alla ricerca, fisiologica potremmo dire, di occasioni in cui poter restaurare almeno parzialmente, in fugaci e fragili istanti, la fusionalità delle origini, legata al primo abbraccio materno, in cui la solitudine sembra sconfitta per sempre. Ciò accade, per esempio, nei momenti di funzionamento empatico con l'altro, quando ci facciamo contenitori del suo mondo interno, del suo vissuto, accogliendolo e attraversandolo in prima persona, in una totale rottura dei nostri e degli altrui confini psicofisici162. Sperimentiamo frammenti di fusionalità anche nella circostanza dell'innamoramento, per il suo essere segnato in modo peculiare dalla reciproca compenetrazione fisica e spirituale di due soggetti che si sentono un tutto unico, in cui non è più possibile stabilire cosa appartenga all'uno o all'altro, complici di una comunione che non ammette intrusi, che non necessita di giudici né consiglieri, custodi di un segreto intraducibile, incomunicabile. Freud stesso, come Aristofane nelle pagine di Platone, inserisce l'amore nella liquida atmosfera della nostalgia, indicando che ogni investimento amoroso avviene sul modello dell'attaccamento del lattante al seno materno163. Dall'autore giunge anche una riflessione sull'innamoramento, nello specifico quello molto intenso, come particolare specie di legame emotivo nel quale l'io assume l'oggetto amato in qualità di unico oggetto, accanto a cui nessun altro viene notato, e contemporaneamente lo colloca al posto del proprio ideale, rintracciandovi la somma di tutte le perfezioni e le limitazioni a cui doversi conformare, in una completa rinuncia alla propria indipendenza e dedizione totale; perciò nell'innamoramento non esistono due esseri 160S. Freud (1925), Angoscia, dolore e lutto, in Opere, Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. X,

aggiunta C a Inibizione, sintomo e angoscia.

161S. Freud (1919), Il perturbante, in Opere, cit., vol. IX.

162Sull'empatia vedi M.A. Galanti, Affetti ed empatia nella relazione educativa, Liguori, Napoli 2001, pp. 118-133.

distinti, esiste piuttosto un oggetto amato che divora l'io, il quale si lascia così assorbire allo scopo di restaurare, per questa via indiretta, la perfezione di cui ha goduto alle origini, quando si è sentito mancante di alcunché164.

Dato che la condizione primaria di totale fusione con il materno annulla la possibilità stessa di sentirsi soli, in quanto non può esserci separazione da ciò che non è vissuto come distinto, capiamo bene come saper recuperare una qualche forma di identificazione con l'altro sia indispensabile anche per riuscire nell'impresa stessa di rendersi la dimensione della solitudine tollerabile.

Possiamo essere capaci di stare da soli, e cioè di convivere con la condizione di separazione psichica o psicofisica dall'altro arginando l'ansia che vi è connessa, unicamente se in precedenza abbiamo posto a dimora l'altro nella nostra realtà psichica, e lì lo teniamo stretto. Rendendoci suoi contenitori a livello fantasmatico, secondo il paradigma contenuto-contenitore che definisce la vita intrauterina e si ripropone agli esordi dell'esistenza165, possiamo far fronte alla solitudine perché otteniamo una difesa rispetto all'angoscia di separazione che facilmente se ne origina, ponendosi come equivalente del sentimento di vuoto incolmabile e dell'assenza di speranza nel ritrovamento legati alla sensazione di perdita definitiva (dell'amore da parte dell'altro). La capacità di tollerare la solitudine (volontaria o imposta che sia) va di pari passo, dunque, con quella di ricordare qualcuno e di pensarlo, perciò anche di sentire la sua mancanza e di provare dolore e, sul versante opposto, di stare nel desiderio e nella speranza del suo ritorno.

Quando non esiste alcuna comunicazione tra il mondo reale degli affetti e il mondo interiore, quando le persone care non sono solidamente interiorizzate ma rimangono distanti, imprigionate nella loro irraggiungibilità, il soggetto vittima di questa separazione non potrà che rimanere schiacciato e mortalmente ferito dall'angoscia distruttiva che il sopraggiungere della solitudine si dimostrerà pronto a 164S. Freud (1921), Psicologia delle masse e analisi dell'Io, in Il disagio della civiltà e altri saggi,

Boringhieri, Torino 2012.

Sulla nostalgia come aspetto comune dell'esistenza umana, legato al desiderio di far ritorno alla primissima infanzia e alla perduta dimensione fusionale che la connota cfr.: J. Kleiner (1977), Nostalgia, in AA.VV., Solitudine e nostalgia, Boringhieri, Torino 1993; E. Morpurgo, V. Morpurgo, La solitudine. Forme di un sentimento. Saggi psicologici e psicoanalitici, FrancoAngeli, Milano 1995, pp. 13-15; M.A. Galanti, Smarrimenti del Sé. Educazione e perdita tra normalità e patologia, ETS, Pisa 2012, pp. 44-52.

procurargli; solitudine che peraltro, in circostanze simili, non tarderà a imporsi come unico orizzonte esistenziale. E' il destino del protagonista di Le notti bianche di Dostoevskij, sognatore, distaccato dalla realtà e da qualsiasi rapporto di amicizia, sedotto e poi abbandonato dall'incarnazione dei suoi fantasmi e dei suoi sogni, una donna, al quale non resta altro epilogo se non il più profondo e lacerato isolamento terreno:

Il sognatore, se volete una definizione precisa, non è un uomo, ma, sappiatelo, un essere neutro. Si stabilisce il più delle volte in un cantuccio inaccessibile, come se volesse fuggire perfino la luce del giorno, e ogni volta che si nasconde, aderisce alle pareti del suo cantuccio, come la chiocciola al guscio, e diventa simile a quell'interessante animale, chiamato tartaruga, il quale è tutt'una cosa con la propria casa166.

Ma come, concretamente, il farsi contenitori degli altri si pone all'origine della capacità di essere soli? La risposta a questo interrogativo è già in parte emersa attraverso le osservazioni dei capitoli precedenti. L'introiezione positiva dell'interlocutore e la sua custodia all'interno del nostro spazio psichico ci permette di sentire che egli è con noi, perché dentro di noi, ovunque andiamo, nonostante il distacco, al di là della distanza. Nel godimento di questa pienezza d'essere, percepiamo in modo nitido che il legame con lui non è dato dal mantenersi reciprocamente vicini a livello fisico e psichico, e cioè dalla simbiosi, ma dal tenersi simbolicamente l'uno all'interno dell'altro. Ci apriamo a una connessione fantasmatica e comprendiamo, dunque, che la solitudine non è sinonimo di rottura del rapporto, che la separazione non equivale a una perdita definitiva; e proprio perché sperimentiamo il perdurare della relazione, riusciamo anche a confidare nel ritorno di chi è assente, nella sua disponibilità a essere ritrovato, nella possibilità del ricongiungimento. Otteniamo, così, un'importante rassicurazione rispetto alla solitudine, che ci rende capaci di controllare l'angoscia di separazione e, di conseguenza, di abitare questa dimensione più serenamente, ovvero di ritirarci con tranquillità in noi stessi, e di attraversare in sicurezza i momenti di distacco dell'altro, 166F. Dostoevskij (1848), Le notti bianche, Einaudi, Torino 1991, pp. 20-21.

compresi quelli dovuti al conflitto; capaci anche di usare agevolmente modalità comunicative legate alla distanza, senza tuttavia dover rinunciare a quelle più primitive legate al contatto, come gli abbracci, che riproducono le originarie forme di interazione all'interno della diade precoce madre-bambino, e rappresentano il simbolico immergersi nel mondo dell'altro.

Comprendendo che l'esistenza e lo spessore della relazione non sono garantiti dalla simbiosi, possiamo vivere la solitudine liberi, inoltre, da sensi di colpa, dall'impressione di mancare di riguardo e sollecitudine nei confronti dei nostri affetti. Anche da questo punto di vista il contenimento metaforico dell'interlocutore ci permette di stare soli senza l'ansia della separazione.

Sembra opportuno, in questa sede, citare Freud e i suoi studi sul “gioco del rocchetto”167, come esempio di attività attraverso la quale il bambino crea un legame simbolico con la madre a riempimento del vuoto generato dal suo allontanamento, imparando così a controllare le angosce dovute al distacco. Mediante la ripetizione del gesto lancio-riavvicinamento del rocchetto, il bambino simula, su un piano metaforico, la scomparsa e il ritorno della madre, attivando in questo modo la capacità di fruire di una riparazione immaginaria dell'evento doloroso che lo vede rendersi autore di un recupero fantasmatico dell'oggetto perduto. Attraverso questa dinamica, il piccolo riesce a trasformare, nello spazio dell'assenza, il sentimento originario di dissolvenza del rapporto nella percezione di un legame che si mantiene, rendendosi con ciò sopportabile l'assenza stessa. La circostanza va anche a conferma del valore dell'isolamento come area funzionale ad appropriarsi di capacità ricreative e simboliche.

Le idee fin qui espresse risultano ampiamente condivise nell'ambito della ricerca psicoanalitica post-freudiana. Sono al centro delle meditazioni di molti dei suoi protagonisti, che hanno sviluppato ricerche sull'originaria conquista della capacità di essere soli, ossia quella realizzata dal bambino piccolo rispetto alla figura affettiva di riferimento.

Imparando a pensare, impariamo a farci raccoglitori a livello psichico dell'oggetto assente, perché il pensiero traduce lo sforzo teso al recupero delle emozioni piacevoli 167S. Freud (1920), Al di là del principio di piacere, in Opere, cit., vol. IX.

legate alla calda e rassicurante presenza materna mediante una rappresentazione mentale di ciò che non c'è. Per questa ragione Klein ritiene che l'attivazione della facoltà di pensiero rappresenti un percorso auto-consolatorio rispetto alla perdita in grado di rendere il bambino perfettamente capace di convivere con la solitudine dolorosa data dal venir meno della fonte di benessere e sicurezza. Questa capacità costituisce il risultato della rielaborazione creativa della perdita che da piccolissimi realizziamo sullo sfondo delle originarie esperienze di distacco dalla madre, come lavoro di riparazione dell'oggetto scomparso consistente nel ricrearne con il pensiero uno interno altrettanto gratificante da conservare per protezione rispetto al vuoto168.

Diversa è la visione offerta da Winnicott nel saggio interamente dedicato all'argomento, che egli così introduce:

Desidero prendere in esame la capacità dell'individuo di essere solo, in base al presupposto che questa capacità sia uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo affettivo169.

E poco più avanti scrive:

La capacità di stare solo è un fenomeno altamente raffinato, (…) o anche è un fenomeno del primo periodo di vita che va studiato con particolare attenzione perché la forma raffinata della solitudine si fonda su di esso170.

Lo scenario cambia, perché Winnicott è intenzionato a evidenziare la positività della solitudine. Tale riabilitazione, estranea a Melanie Klein, appare già potenzialmente espressa nella scelta di parlare di una “capacità” di stare soli, ed è ulteriormente marcata dalla caratterizzazione di questa competenza come uno dei vertici eminenti della maturazione affettiva. All'interno di una simile impostazione, 168Vedi i seguenti contributi di M. Klein: Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi (1935), Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi (1940), Sulla teoria dell'angoscia e del senso di colpa (1948), tutti in Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978. Vedi anche: H. Segal (1964), Introduzione all'opera di Melanie Klein, Martinelli, Firenze 2001.

169D.W. Winnicott (1957), La capacità di essere solo, in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma 2007, p. 29.

diviene naturale per l'autore pensare in modo complesso la genesi della facoltà presa in esame. Egli ritiene che la rappresentazione mentale di quanto perduto sia sufficiente al bambino per consolarsi rispetto alla frustrazione e riuscire a tollerare l'assenza della madre, ma che non possa garantirgli la capacità di essere solo nel senso proprio del termine, la quale costituisce, come appunto egli scrive, un “fenomeno altamente raffinato”, e cioè fondato su un'operazione più incisiva e sulla mobilitazione di maggiori risorse. La pura e semplice immagine interiore della fonte primaria di amore è eccessivamente labile, perciò in sua presenza il bambino ha comunque bisogno che lo stato di separazione psicofisica non si protragga troppo a lungo; non riuscendo ancora a concepirsi come soggetto ben definito e a sé stante, egli non riesce a tenersi presente quell'immagine senza un appoggio, e cioè senza alimentare ripetutamente la propria fiducia nella madre reale come figura benigna e disponibile mediante il ritorno a un contatto con lei.

Abbiamo visto che Winnicott identifica la capacità di convivere con la solitudine con quella, nello specifico, di ritirarsi momentaneamente e per deliberata scelta in se stessi, sospendendo la connessione psichica con il mondo. Adesso occorre aggiungere che la sua attenzione si indirizza a sottolineare come questa abilità possa essere ottenuta unicamente a patto che la stabilizzazione dell'altro nella propria realtà psichica assuma la forma di una sua strutturazione organica, quindi permanente, all'interno di questo spazio. Ritorna, dunque, come ipotesi di lavoro, l'idea che il contenimento metaforico di chi è assente rappresenta la strategia di difesa nei confronti della desolazione interiore e del sentimento di abbandono, il metodo efficace per riuscire a stare da soli superando l'angoscia di separazione, ma lo studio cade a rimarcare che tale contenimento si esprime propriamente come “istituzione di un ambiente interno”, invece di esaurirsi nella conservazione di una raffigurazione di ciò che manca171.

In modo simile, Margaret Mahler collega la piena capacità di tollerare la solitudine al raggiungimento della cosiddetta “costanza dell'oggetto libidico”, punto culminante dell'intenso e fondamentale sviluppo intrapsichico dei primi tre anni di 171Cfr. ibid. Osservazioni che rimandano all'insufficienza dell'immagine mentale dell'oggetto d'amore ai fini della capacità di convivere con la solitudine sono contenute anche in: D.W. Winnicott (1953), Oggetti transizionali e fenomeni transizionali, in Gioco e realtà, Armando, Roma 2006.

vita. Essa si riferisce alla trasformazione da parte del bambino della madre reale in una presenza interna stabile, investita di carica libidica in modo continuato, indipendentemente dallo stato di bisogno istintuale e di disagio, e permanentemente disponibile come fonte di nutrimento affettivo. Anche nella prospettiva dell'autrice la forza portante di questa presenza si esprime nella viva fiducia che grazie a essa il bambino riesce a riporre nella possibilità di ritrovare l'amore della madre in carne e ossa dopo essersi allontanato da lei; nel sentirla intimamente unita a sé in modo saldo e armonico, egli acquista concretamente il senso del continuum della relazione al di là del distacco, perciò nei momenti di solitudine impara ad attendere il suo ritorno, piuttosto che a temere la perdita definitiva, diventando così capace di funzionare separatamente con un moderato livello di tensione.

La mancata conquista della costanza dell'oggetto libidico è la grave carenza di fondo dell'individuo affetto dalla psicosi simbiotica, sindrome le cui peculiari caratteristiche rappresentano l'organizzazione che il soggetto si dà per eliminare in via assoluta la possibilità di contattare l'esperienza, per lui inelaborabile e intollerabile, della solitudine. Questa formazione difensiva, emergente sotto lo stress del panico da separazione e annientamento, consiste nella messa in atto di un meccanismo di re-fusione delle rappresentazioni del sé e della madre finalizzato alla salvaguardia dell'illusione di un funzionamento duale onnipotente con lei, nel quale si perpetua l'unità simbiotica degli albori. Implica anche il ricorso al meccanismo arcaico della scissione, attraverso cui il bambino tiene nettamente distinte un'immagine materna buona e una cattiva; per lui la madre che è lontana non è la stessa che precedentemente si mostrava affettuosa e disponibile, ma è una figura estranea e cattiva, sulla quale egli sposta tutto il proprio odio, mentre si volge libidicamente verso l'immagine materna positiva, aggrappandosi a essa e fondendola con la rappresentazione del sé. L'esteriorizzazione di questa formazione difensiva sta per esempio nel fatto che il bambino si aspetta che la madre risponda a ogni suo minimo segnale, a un gesto, un'emissione di voce o addirittura un pensiero, come se lei davvero fosse un'estensione non individuata di sé172.

172S.M. Mahler (1968), Le psicosi infantili, Boringhieri, Torino 1972; S.M. Mahler, F. Pine, A.

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