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Solitudine e coinvolgimento affettivo: dalla simbiosi originaria alla relazionalità consapevole

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione

3

1. Forme e percorsi della solitudine

9

1.1. La solitudine tra stato di fatto e stato dell'anima 9

1.2. La solitudine come esperienza ambivalente 14

1.3. Crisi dell'ambivalenza della solitudine 29

1.4. La solitudine fondamentale dell'individuo 47

2. Separazione, perdita, lutto e formazione. La solitudine come

fattore di sviluppo nella prima infanzia

53

2.1. La nascita del pensiero e della funzione simbolica come forme di elaborazione creativa e consolatoria della perdita 53

2.2. La solitudine come strumento di individuazione 64

2.3. Dalla dipendenza all'autonomia attraverso la separazione 77

2.4. La fondazione dell'identità personale tra solitudine e interazione con gli altri 82

2.5. Effetti destrutturanti di una solitudine troppo precoce o prolungata 90

3. Alle origini della capacità di essere soli

103

3.1. Il contenimento metaforico dell'altro 103 3.2. Un'applicazione del contenimento metaforico:

il “lavoro del lutto” 115

3.3. Il gioco, l'esperienza artistica e la cultura come modalità

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coinvolgimento, separazione, individuazione 132

4. Il deserto relazionale: forme di solitudine negativa

137

4.1. Una folla di solitari. La solitudine come malattia del

nostro tempo 137

4.2. Negli abissi senza fondo dell'isolamento:

autismo e psicosi 148

4.3. La solitudine in un caso di disagio esistenziale:

il fallimento di un patto d'amore 154

5. Ritiro interiore e vita autentica

159

5.1. Il contributo degli autori post-freudiani:

la formazione come processo ambivalente 159

5.2. Il ritiro interiore come dimensione del colloquio con se stessi

ed esperienza per sentirsi soggetti 164

5.3. Esibizione e nascondimento di Sé. La relazione adeguata

con l'altro 179

Conclusioni

185

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Introduzione

L'epoca nella quale viviamo è connotata dalla tendenza a porre l'accento sulle relazioni e sull'importanza di alimentarle lungo l'intero arco dell'esistenza. Meno abitualmente si indirizza il focus dell'attenzione sulla solitudine e la sua natura. Spesso alla domanda “cosa ti rende felice?” seguono risposte riferite ai rapporti con i familiari e gli amici o alla realizzazione di progetti personali; vi è una scarsa abitudine a citare come fonte di benessere piccoli spazi in cui si è da soli.

La nostra è una società che poco valorizza la solitudine, e non per una spontanea, quasi irriflessa, indifferenza nei suoi riguardi. E' in gioco, piuttosto, nella vita di ogni giorno della maggior parte delle persone, uno sforzo attivo e consapevole volto a ridurre quanto più è possibile il confronto con questa dimensione umana, nella convinzione che essa rappresenti un'esperienza così terrificante da doversene necessariamente tutelare.

Si tende a privare la solitudine del diritto di esistenza anche tra gli oggetti di riflessione e addirittura nella sfera del linguaggio, pur di mantenerla a distanza. Ed è tanto sorprendente quanto inquietante osservare come questo fobico, coatto, evitamento ogni volta rinasca non solo nell'individuo impigliato nel circuito del tempo quotidiano, scandito da continue attività, ma anche in chi ha scelto di fare dell'indagine psichica e dell'incontro con il destino umano la propria professione. I riferimenti ufficiali alla solitudine da parte della psicoanalisi, per esempio, risultano frammentati e dispersi, nonostante il ripiegarsi della mente su di sé sia elemento costante del lavoro psicoanalitico; nei dizionari, anche i più accreditati, essa ricorre come una grande sconosciuta, perché superficialmente definita o, talvolta, perfino assente.

Eppure la solitudine è una componente ineliminabile della vita. Il viaggio di ciascuno di noi nel mondo inizia con una separazione e si chiude con una separazione; si è soli al momento della nascita, quando all'improvviso si è tagliati

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fuori dal caldo e accogliente corpo materno, e si muore soli, perché la morte, oltre a possedere il carattere dell'esser-sempre-mio, come scrive Heidegger1, è l'esperienza che strappa in via assoluta alla dimensione rassicurante degli affetti; prima ancora, quella che sottrae alla realtà legata alla propria persona, fatta di ricordi, vissuti, conoscenze e sogni noti unicamente al soggetto a cui appartengono. Oppure potremmo far valere la prospettiva di D.W. Winnicott, sensibile e fantasiosa voce della ricerca psicoanalitica post-freudiana, e pensare la solitudine come lo stato da cui l'essere emerge e a cui, infine, ritorna; il silenzio delle origini, quella condizione insopprimibile che precede l'esser vivi, intrinseca e fondante l'esistenza, la quale ispira a tutti noi le fantasie circa la nostra morte2.

In ogni caso, tra le due sfingiche Solitudini, dell'inizio e della fine, si inseriscono innumerevoli ulteriori distacchi, ripetuti abbandoni, altrettanto inevitabili; solitarie perdite di persone amate e di dimensioni d'esistenza, di certezze, ricordi e occasioni, di dimore fisiche e paesaggi spirituali, di animali di casa e oggetti-simbolo di palpitanti relazioni, il cui prodursi è il segno della nostra storia di vita in costruzione e progressivo svolgimento. Già per questa ragione sembra importante imparare a convivere con la solitudine invece di continuare a esorcizzare la paura che se ne origina mediante il ricorso a fughe, in fondo, insensate.

Questo lavoro vorrebbe cercare di analizzare e descrivere il modo di essere della solitudine, come primo passo verso un'educazione a questa forma di vita. Il primo passo non può che essere il parlarne, rompendo la corrente di generalizzata reticenza, con la lucidità filosofica degli strumenti della ragione, e quindi al margine della retorica, e insieme con la premessa dell'analisi per via emozionale, arrischiata e soggettiva, di ciò che si svolge in noi, come è necessario che sia quando si oltrepassa la sfera dell'immediatamente producibile e ci si confronta con le esperienze fondamentali dell'essere umano.

Vero è, poi, che comprendere la solitudine e acquistare la capacità di abitarla sembra essere un compito essenziale non unicamente, e forse neppure in prima istanza, per il fatto che la separazione legata alla perdita definitiva appartiene intrinsecamente all'esistenza ed è importante per noi, dunque, riuscire a governare i 1 M. Heidegger (1927), Essere e tempo, Longanesi, Milano 1992, p. 294.

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turbamenti che la connotano per non lasciarcene narrare e demolire.

Lo rende particolarmente urgente, oggi, la società del benessere in cui viviamo, nella quale le persone si sforzano di non stare da sole ma tremano, infine, di oceanico isolamento, proprio a causa della loro visione del tutto tragica della solitudine e del conseguente sforzo compulsivo di annullamento degli spazi di reciproca distanza. Spesso il richiamo ai rapporti con le persone care avanzato, come dicevamo, in risposta all'interrogativo sull'origine della felicità altro non è che un riferimento a forme d'amore e d'amicizia paradossalmente destinate a consegnare al più oscuro sentimento di vuoto, a motivo dell'esclusione netta di spazi solitari.

Intendiamo affermare che non esiste unicamente la solitudine connessa alla mancanza scomoda e sofferta, al disagio psichico e alla patologia. Noi moderni siamo affetti da una singolare miopia, e tendenza alla scissione; e anche in questo caso, come molto spesso accade, il coraggio della parola e la superiore sensibilità umana rimangono proprietà dei poeti e degli artisti, capaci di cogliere, al di là dei tormenti e delle illusioni di un'intera epoca, le stratificazioni di significato che si condensano in un'esperienza emozionale ed esistenziale, anche la più apparentemente semplice e lineare. Così, la solitudine rifulge in questi versi di Emily Dickinson, ricolmi di un'attitudine introspettiva che sboccia negli ultimi due versi:

C'é un'altra Solitudine Di cui molti muoiono

senza-Non il bisogno di un amico la provoca O le circostanze della Sorte

Ma la natura, talvolta, talvolta il pensiero E chiunque la assapora

E' più ricco di quanto possano rivelare Numeri mortali-3.

In questo lavoro scegliamo la via dell'integrazione, proponendoci di considerare i modi di essere della solitudine in quanto dimensione complessa, ambivalente, che può tingersi di sentimenti di abbandono totale e di alienazione ed esacerbare vissuti 3 E. Dickinson, Tutte le poesie, a cura di M. Bulgheroni, Mondadori, Milano 1998.

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di tristezza o vero disagio psicologico, ma può anche, all'opposto, sgorgare da un languido e molto fragile senso di perdita temporanea della connessione con l'altro e con il mondo e trasformarsi in un'isola di benessere e di arricchimento, indispensabile in vista, potremmo dire, di un addestramento dell'individuo alla soggettività. Due immagini radicalmente diverse di solitudine, anche se occorre, di nuovo, guardarsi da nette scissioni.

Con ciò, questo testo non vuole togliere importanza alla dimensione della relazionalità. I legami affettivi sono uno dei nuclei essenziali della vita dell'uomo, ma è anche vero che non sono l'unico. E, forse, una teoria dell'attaccamento, come lo è quella di John Bowlby, rende scarsa giustizia al significato emotivo dello stare da soli e al suo ruolo centrale nella formazione del singolo individuo -bambino, adolescente e adulto-.

Ciò che questo lavoro si propone di illuminare è l'esistenza di una solitudine positiva, sana, che, in quanto distacco dai riferimenti abituali, riparo dalle suggestioni esterne e luogo privilegiato del contatto con la dimensione interiore, si dà come presupposto proprio della relazionalità, quella autentica, con se stessi e con l'altro. Una sorta di “stadio zero” dei rapporti, che ci lascia liberi di apprezzare la compagnia della nostra persona e contemporaneamente di star bene con gli altri.

Dall'infanzia all'età adulta una dialettica tra solitudine e relazione è necessaria per una sana crescita. Bruno Bettelheim, recuperando una meditazione schopenhaueriana, paragonava la condizione umana a quella di due porcospini in lotta contro un rigido inverno. Inizialmente si scavano una tana, ma in seguito, poiché questa è molto fredda, cercano calore e compagnia stringendosi l'uno all'altro. Tuttavia, più si avvicinano e più si feriscono con i loro aculei, perciò, sofferenti, si separano di nuovo, ed ecco che di nuovo si fanno sentire il freddo e il vuoto. Alla fine, a forza di reiterate ricerche di prossimità e di rinnovati allontanamenti, imparano a tenersi abbastanza distanti da non pungersi troppo e abbastanza vicini

da scaldarsi e confortarsi4. Bisogna, cioè, imparare a vivere in stretta intimità, fisica e psichica, ma senza evitare di nascondersi anche un po', altrimenti o rimaniamo congelati nella reclusione emotiva o feriamo il nostro valore individuale per un 4 B. Bettelheim (1987), Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 393-394.

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eccesso di sconfinamenti nello spazio altrui.

Naturalmente, ci accingiamo a confrontarci con questioni di forma e non di quantità della solitudine. Non è importante quanto spazio si concede alla relazione e quanto, invece, al distacco. Conta il carattere delle due esperienze; conta individuare la qualità che il movimento all'interno delle due sfere dovrebbe assumere. Il quanto è relativo, perché il grado di necessità dell'una o dell'altra dimensione varia necessariamente da individuo a individuo, in base al temperamento e alle vicende di vita.

Il concetto di solitudine è misterioso; non si ha a disposizione, nell'immediato, una formula in grado di esaurirlo. In questo lavoro vorrei iniziare, dunque, con un tentativo di definizione della parola tematica del discorso. Cercherò di proporre una descrizione che riesca a dar conto degli elementi di somiglianza tra le molteplici, e tutte diverse, forme che questa esperienza può assumere, cioè di una sorta di denominatore comune sotto cui è possibile riunirle; e contemporaneamente che riesca a mostrare come questo nucleo comune assuma connotati specifici di volta in volta diversi secondo il tipo particolare di solitudine che consideriamo.

Per orientarmi in questo cammino, introdurrò distinzioni di base, da mantenere come riferimenti mentali, nell'ampio panorama dei modi di essere dell'essere-soli, recuperando idee offerte sul tema da autori della psicoanalisi post-freudiana che si sono occupati dell'argomento e, insieme, richiamandomi all'etimologia, dibattuta, della parola solitudine. Così il tentativo di definizione, oltre che risultare ordinato, potrà esprimere la presenza effettiva di due opposti volti della solitudine, l'uno positivo e l'altro negativo, a partire dalle stesse dinamiche psichiche che li generano.

Il cammino mi porterà a confrontarmi con la crisi dell'ambivalenza della solitudine in atto nella società odierna e, poi, direttamente al cuore dell'argomentazione, costituita da un'indagine dei due opposti caratteri dell'essere-soli condotta dal punto di vista dei loro effetti sul piano esistenziale. Mi occuperò, in questo modo, di tutte le implicazioni contenute nella solitudine come sentimento, e cioè nel “sentirsi soli”, tralasciando, invece, la pura e semplice situazione di solitudine fisica.

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La mia analisi si concentrerà, innanzitutto, sul ruolo centrale che le originarie esperienze di separazione dalla madre intesa come agente delle cure fisiche e affettive assumono nel percorso di formazione del bambino piccolissimo (dalla nascita ai tre anni). All'interno della letteratura psicoanalitica, infatti, tracce positive di solitudine sono comunque reperibili; e lo sono presso gli studiosi del dopo-Freud che hanno assunto il processo di strutturazione del Sé lungo l'arco della primissima infanzia come privilegiato oggetto di studio. Si tratta di individuare queste tracce e di connetterle all'interno di una visione integrata, dato che esse provengono da molteplici autori, che spesso hanno consegnato le loro riflessioni sull'argomento a brevi saggi o porzioni di saggi all'interno delle loro varie opere.

L'indagine mi condurrà poi a interrogarmi sulle condizioni di possibilità della capacità di essere soli, perché questa facoltà, nel contesto di un sano percorso di crescita, si instaura nei primi anni di vita.

La mia ricerca si avvierà alla sua conclusione indagando l'importanza della solitudine per l'individuo adulto, ma non prima di essersi confrontata con alcune dimensioni fenomenologiche di solitudine profondamente diverse da quelle luminose, con l'aspirazione di offrire un quadro verosimile dei vissuti interni dell'isolamento e, in alcuni casi, anche qualche spunto per riconoscere se stessi in esperienze apparentemente lontanissime dalla “normalità”.

Ai vissuti più terribili saranno dedicate anche le pagine finali, che cercheranno di individuare possibili vie terapeutiche, oltre ad alcuni metodi che appaiono essere i più efficaci nel garantire il mantenimento della capacità di apprezzare le forme più radiose di solitudine e di gestire i turbamenti di quelle meno felici.

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Capitolo primo

Forme e percorsi della solitudine

1.1. La solitudine tra stato di fatto e stato dell'anima

Fra tutte le esperienze umane la solitudine è forse la sola a distinguersi per l'inadeguatezza delle cose che si dicono quando si cerca di descriverla5.

Con queste parole Harry S. Sullivan esprime quanto possa rivelarsi difficoltoso cogliere e comunicare l'esperienza della solitudine nella sua essenza più intima e autentica. Questa dimensione della nostra esistenza sembra spesso indefinibile, o persino ineffabile, poiché il vissuto che la connota ha una forza emotiva tale da sottrarsi facilmente al controllo della ragione, talvolta addirittura tale da destabilizzare il nostro Io pensante e narrante6.

Potremmo formulare considerazioni simili in riferimento anche a molte altre esperienze della vita, come l'amore, la rabbia o il lutto, tutte ugualmente contraddistinte dalla tendenza a sfuggire alla comprensione razionale per preferire l'intuizione, e cioè la conoscenza a cui si giunge con le ragioni del cuore. Ma forse la solitudine risulta ancora più difficile da afferrare concettualmente rispetto ad altre forme d'esistenza emozionalmente intense perché il solo pensarla genera nell'immediato, oltre a una grande risonanza affettiva, le più imprevedibili evocazioni, una sorta di inaspettata resurrezione di innumerevoli circostanze ed esperienze, spesso anche del tutto indipendenti e diversificate per affetti, dinamiche psichiche e vissuti interni. La solitudine presenta, infatti, confini semantici e vitali vertiginosamente estesi e raccoglie e condensa in sé realtà umane radicalmente contrastanti. Siamo soli quando ci ritiriamo con serenità in noi stessi per meditare, 5 H.S. Sullivan (1945), L'esperienza della solitudine, in AA.VV., Solitudine e nostalgia,

Boringhieri, Torino 1993, p. 19. 6 Cfr. ibid., pp. 19-22.

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ricomporre trame di ricordi oppure esprimerci creativamente, ma siamo soli anche quando, per esempio, perdiamo una persona cara o non riusciamo a condividere con gli altri quanto si muove nel silenzio del nostro cuore7.

Per iniziare a dischiudere l'arcano concetto di solitudine possiamo recuperare le considerazioni con le quali si apre il saggio di Melanie Klein interamente dedicato all'argomento. Le parole dell'autrice sono queste:

Per senso di solitudine non intendo la situazione oggettiva in cui si trova chi è privo di compagnia esterna; intendo invece il senso di solitudine interiore - il senso di essere solo indipendentemente dalle circostanze esterne, di sentirsi privi di compagnia anche se si è circondati da amici e da affetto8.

In breve, la solitudine corrisponde a una condizione di separazione e si declina, come tale, in due diverse forme.

Esiste una solitudine esteriore ed evidente, esprimibile nei termini di un puro e semplice stato di fatto privo di specifiche connotazioni emotive, connesso con la materiale assenza di persone intorno a noi. Essa corrisponde a una condizione di separazione fisica, perciò oggettiva e visibile, rispetto agli altri.

Ma esiste anche una solitudine profonda e misteriosa, spesso oscurata dalle molte maschere che scendono sui nostri volti e la nascondono allo sguardo di coloro che ci circondano. Essa consiste in un'esperienza di separazione dagli altri vissuta nel silenzio e nel segreto della dimensione interiore; si delinea, cioè, come una condizione psicologica, uno stato dell'anima. Non sono le circostanze ambientali a permetterci di decifrare la sua presenza, poiché questa può essere legata all'effettiva mancanza di compagnia, ma anche esserne completamente indipendente.

E' possibile, per esempio, sentirsi soli nonostante le condizioni esteriori siano favorevoli, poiché la realtà oggettiva, come Klein ci suggerisce, non conta quanto il vissuto interno. Un individuo può essere circondato dagli amici e dal loro affetto, ma non riuscire a lasciarsi riscaldare da questa vicinanza e sentirsi, così, completamente 7 Cfr. E. Borgna (2011), La solitudine dell'anima, Feltrinelli, Milano 2013.

8 M. Klein (1959), Sul senso di solitudine, in Il nostro mondo adulto e altri saggi, Martinelli, Firenze 2002, p. 139.

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isolato. Qualcosa di simile accade secondo l'autrice al bambino molto piccolo giunto alla posizione depressiva, che è realmente amato dalla madre, eppure è convinto di averla perduta per sempre come oggetto buono, e per questa ragione è afflitto da un lacerante sentimento di solitudine9. Possiamo sentirci soli, inoltre, anche nel contesto di una folla, se siamo immersi in un oceano di indifferenza e indisponibilità oppure se indossiamo una maschera di inautenticità per renderci accettabili e graditi agli altri e non condividiamo mai con loro i nostri pensieri e le nostre verità; in tali circostanze, siamo costretti a sperimentare un'incolmabile distanza psichica dalle persone presenti fisicamente intorno a noi, perciò proviamo un amaro senso di vuoto e di desolazione10.

Risultano interessanti, a questo proposito, alcune riflessioni proposte da Heidegger in Essere e Tempo. L'autore sottolinea che l'Esserci esiste come un soggetto che è sempre in relazione con gli altri, anche quando questi non sono nelle vicinanze. La relazione con gli altri si fonda, infatti, sulla struttura essenziale dell'Esserci, che è l'essere-nel-mondo: in quanto ha il modo di essere dell'essere-nel-mondo, l'Esserci è già da sempre, per costituzione, un con-essere, nel senso che si trova già da sempre a condividere il mondo con altri. Il con-essere determina esistenzialmente l'Esserci anche qualora, di fatto, l'altro non sia presente. Per questo e in tal modo, sottolinea l'autore, non è mai dato un Io isolato. Anche l'esser-solo dell'Esserci è un modo di con-essere nel mondo; nello specifico, è un modo difettivo del con-essere, che si realizza quando il con-essere prende le forme dell'estraneità, dell'indifferente accompagnarsi l'uno accanto all'altro, del reciproco trascurarsi, della mancanza di riguardo dell'uno verso l'altro. In questo senso, per quanto numerosi siano i presenti, l'Esserci può restare solo, e il semplice avvicinarsi di un altro uomo non può cancellare la sua solitudine11.

Attingendo, a titolo esemplificativo, all'esperienza infernale dei campi di concentramento, ricordiamo che esisteva una particolare condizione psicologica per 9 Cfr. ibid., p. 141; M. Klein (1935), Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, in Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978; M. Klein (1940), Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi, in Scritti, cit.

10 Tra i contributi di riflessione sulla distinzione tra solitudine fisica e solitudine interiore vedi: E. Borgna (2011), La solitudine dell'anima, cit.; E. Morpurgo, V. Morpurgo, La solitudine. Forme di un sentimento. Saggi psicologici e psicoanalitici, FrancoAngeli, Milano 1995.

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la quale alcuni prigionieri venivano denominati “mussulmani”: questa espressione veniva utilizzata per definire uno stato di sconforto e disperazione tali da precipitare il prigioniero nell'apatia più totale, nella più completa incapacità di pensare, di agire e di mantenere un legame significativo con i compagni, basato sul reciproco affetto e sulla condivisione di esperienze e sogni; ebbene, di questi individui Primo Levi scriveva:

Benché inglobati e trascinati senza requie dalla folla innumerevole dei loro consimili, essi soffrono e si trascinano in un'opaca solitudine, e in solitudine muoiono e scompaiono, senza lasciar traccia nella memoria di nessuno12.

Che la solitudine come stato d'animo possa essere riconosciuta e valutata unicamente muovendo dall'interiorità, dalla soggettività, di colui che la vive risulta confermato se consideriamo che essa può derivare anche da separazioni intrapsichiche, o, detto altrimenti, da insufficienti integrazioni tra parti di sé. Melanie Klein stessa mette in evidenza che l'integrazione, per quanti progressi possa compiere, non può far scomparire la sensazione che alcune parti del Sé non siano disponibili, perché si sono distaccate dall'individuo e non sono recuperabili; da ciò deriva una dolorosa esperienza interiore di solitudine, che si esprime nel sentimento di non essere pienamente in possesso della propria persona, cioè di non appartenere completamente a se stessi, né, quindi, a nessun altro13. Anche per questa ragione vi sono più solitudini interne: non solo quelle legate alla perdita degli affetti, alla frustrazione del bisogno di essere compresi e accettati dagli altri o alla temporanea e volontaria sospensione del dialogo con il mondo esterno, ma anche quelle generate, per esempio, dalla perdita dei ricordi, che il trascorrere del tempo consegna inesorabilmente all'oblio, oppure dalla sensazione, per molti spaventosa, di non possedere il pieno controllo della propria dimensione interna; una sensazione, questa, alla quale la riflessione psicoanalitica ci ha consegnati, indicandoci che un territorio estraneo alla coscienza alberga nella nostra psiche14.

12 P. Levi (1958), Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1987, pp. 111-112.

13 M. Klein (1959), Sul senso di solitudine, cit., pp. 143-144. Cfr. anche E. Morpurgo, V. Morpurgo, La solitudine. Forme di un sentimento. Saggi psicologici e psicoanalitici, cit., pp. 69-70.

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A differenza dell'italiano, la lingua inglese distingue, a livello terminologico, la solitudine fisica e quella interiore, indicando la prima con “aloneness” e la seconda con “loneliness”. Ma il termine “loneliness” risulta semanticamente povero, poiché dotato esclusivamente di una coloritura emotiva di abbandono totale e desolazione, che in realtà non appartiene necessariamente alla solitudine come stato d'animo15. Essa, infatti, come chiariremo più avanti, può essere dovuta alla perdita definitiva di relazioni ed esprimersi in un senso di abbandono e di esclusione, ma può anche corrispondere a una condizione di sereno e fertile ritiro in se stessi realizzato attraverso un volontario distacco dalla realtà e dalle sue sollecitazioni e, così, tradursi in un sentimento di separazione, ma non di radicale isolamento.

Qualsiasi genere di suddivisione concettuale, tuttavia, risulta utile all'analisi se impiegata come metodo per orientarsi, e non come rigida griglia secondo cui scomporre e ordinare un oggetto di riflessione, poiché in tal caso rischierà di dissociare elementi che, seppur distinti, talvolta si presentano in unità. Così Eugenio Borgna non manca di ricordare che:

L'essere soli, il vivere soli, è una condizione di vita nella quale i confini tra le due solitudini, quella interiore e quella esteriore, non sono sempre bene determinabili16.

L'essere oggettivamente privi di compagnia ha spesso una sua dimensione psicologica, perché la distanza fisica degli altri può essere vissuta come il segnale di una distanza psichica, oppure può facilmente trasmettere una sensazione di impermanenza e di vuoto; altrettanto facilmente può trasfigurarsi in un silenzio dell'essere che distoglie dagli scambi con il mondo, disponendo al raccoglimento interiore. Pensiamo a quando passeggiando da soli in campagna oppure sedendo su una spiaggia deserta di fronte al mare aperto siamo colti, improvvisamente, da un sentimento di desolazione e di abbandono così acuto da essere quasi doloroso, o siamo indotti a ritirarci in noi stessi per lasciarci assorbire dai nostri pensieri;

psichica, in Opere, Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. XI, p. 184.

15 E. Morpurgo, V. Morpurgo, La solitudine. Forme di un sentimento. Saggi psicologici e psicoanalitici, cit., p. 7. La sfumatura esistente tra “loneliness” e “aloneness” è rilevata anche da F. Fromm Reichmann in: (1959), La solitudine, in AA.VV., Solitudine e nostalgia, cit., p. 41.

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potremmo considerare, inoltre, le ore che la malattia costringe a trascorrere in una situazione di forzato ritiro dalla vita di ogni giorno, così piena di contatti interpersonali, di cose da fare e da immaginare: in quelle ore, in cui perdiamo le abitudini e le consuete relazioni e avvertiamo la condizione di vita degli altri come distante rispetto alla nostra, siamo consegnati a una penosa sensazione di emarginazione, se non addirittura di estraneità a noi stessi.

Anche Bruno Bettelheim ci suggerisce, a suo modo, la connessione tra la solitudine esteriore e quella dell'anima. Lo fa sottolineando che nella società moderna gli individui tendono a sottrarsi al reciproco contatto fisico e, per questa ragione, a rimanere prigionieri di un bruciante senso di isolamento che sfocia quasi sempre nella disperazione esistenziale. E' vero, infatti, che la vicinanza fisica non produce immediatamente l'intimità emotiva, ma è altrettanto vero che questa non può esistere se si desidera la distanza fisica. Vivere abitualmente in una condizione di materiale segregazione dalle altre persone non permette di stabilire rapporti profondi e confidenziali e, in questo modo, genera un senso di mancata appartenenza e di vuoto interiore dal quale si origina una sofferta solitudine17.

1.2. La solitudine come esperienza ambivalente

Nomina sunt consequentia rerum, scrive Dante nella Vita Nuova, utilizzando

un'espressione la cui origine è in un passo delle Istituzioni di Giustiniano e il cui intento è quello di esprimere l'idea che i nomi abbiano spesso il potere di rivelare l'essenza o alcune qualità dell'oggetto, della persona o della condizione che designano18. Così accade che la parola “solitudine”, al primo incontro assai sfuggente, dimori in verità nel nostro linguaggio come una splendida chiave pronta ad aiutare chi intende sbloccare la fortezza del concetto a cui essa rimanda, pronta ad aprire il sentiero lungo il quale si rende possibile la comprensione dei modi di essere 17 B. Bettelheim (1987), Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 382-398. Cfr. anche

F. Fromm-Reichmann (1959), La solitudine, in AA.VV., Solitudine e nostalgia, cit., p. 59. 18 Giustiniano, Istituzioni, II, 7, 3: “Nos (…) consequentia nomina rebus esse studentes”.

Dante, Vita Nuova, XIII, 4: “Con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: Nomina sunt consequentia rerum”.

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di questa dimensione esistenziale.

Etimologicamente, infatti, “solitudine” proviene dal latino “solus”, che secondo alcuni prende la radice nel pronome “se” e significa: che sta per sé, che non è accompagnato da altri; ma i più lo vogliono identico all'arcaico “sollus”, “intiero” (da cui l'italiano “solido”), quasi dica: che da per sé forma un tutto, un intero19. Secondo la prima interpretazione, dunque, il termine esprimerebbe una condizione connessa con la separazione intesa come mancanza, privazione (stare per sé, cioè senza compagnia), mentre secondo l'opinione più diffusa esso indicherebbe il fatto di costituire in se stessi, senza bisogno di aggiunte, rimandi e sostegni, un tutto unico, perciò rinvierebbe a un concetto puramente positivo di separazione, comprendente l'idea dell'indipendenza da altri, dell'autonomia.

L'ambiguità insita nell'analisi etimologica del termine “solus” può suggerire una lettura della solitudine condotta in nome della categoria della complessità, cioè tale da metterla in luce come condizione ambivalente, dotata di un doppio volto, uno positivo e l'altro negativo, uno dolce e l'altro amaro.

L'indagine può partire da Donald W. Winnicott, uno degli autori più originali della psicoanalisi post-freudiana, che con il saggio La capacità di essere solo ha offerto un significativo contributo alle riflessioni sulla tematica della solitudine.

Winnicott enfatizza la differenza tra l'esperienza di chi è confinato in solitudine senza essere in grado di stare solo e quella di chi è solo ed è capace di esserlo. Egli sostiene che nel primo caso la solitudine è lacerata da tremende sofferenze, mentre nell'altro è vissuta con serenità ed apprezzata come una risorsa assai preziosa. Chi non è in grado di convivere con la solitudine, infatti, non ha la possibilità di scoprire la propria vita personale ed è costretto ad avvertire il bisogno disperato degli altri e a stabilire con loro legami adesivi, cioè superficiali e imitativi.

Per questa ragione Winnicott sottolinea la necessità di parlare anche di una capacità di essere solo, invece di limitarsi a considerare la paura e il desiderio di essere solo oppure lo stato di ritiro assunto nel significato negativo di organizzazione difensiva messa in atto in risposta all'angoscia persecutoria, e cioè gli argomenti sui 19 O. Pianigiani, Vocabolario etimologico della lingua italiana, Soc. ed. Dante Alighieri di Albrighi e

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quali la letteratura psicoanalitica si è ampiamente espressa20.

L'autore ci dice, dunque, che la solitudine dovrebbe essere ritenuta anche una competenza, perché la capacità di essere soli, da intendere come capacità di ritirarsi in se stessi per libera scelta, per il desiderio non timoroso di stare in compagnia di se stessi, rappresenta la condizione necessaria per partecipare all'intimità del proprio essere più segreto e poter intrattenere relazioni mature e adeguate con gli altri21.

Nella prospettiva di Winnicott possiamo acquistare questa capacità costruendoci uno spazio psichico prettamente personale, in grado di albergare in sé tutti i nostri affetti. Tenendo stretti gli altri nella nostra dimensione interna, infatti, otteniamo la possibilità di sentirli con noi, appunto perché dentro di noi, anche quando ne siamo separati; riusciamo allora a tollerare la solitudine poiché siamo accompagnati dal sentimento di una relazione che perdura al di là del distacco. La solitudine serenamente vissuta si delinea, quindi, come una condizione a suo modo paradossale, in quanto implica sempre la presenza, al nostro interno, di coloro dai quali ci siamo ritirati22.

L'autore formula le proprie osservazioni dialogando sia implicitamente che apertamente con Melanie Klein, la studiosa che come lui, sempre all'interno del panorama delle ricerche psicoanalitiche del dopo-Freud, ha riflettuto attentamente sulla solitudine, ma lo ha fatto attribuendole una connotazione emotiva esclusivamente dolorosa e senza riconoscerle alcuna valenza che possa dirsi legata alla capacità di essere soli di Winnicott; questo forse anche perché l'autrice ha affrontato la tematica all'interno dell'orizzonte rappresentato dalla fenomenologia sintomatica dei pazienti psicotici.

Secondo Klein il sentimento di solitudine nasce dalle angosce paranoidi e depressive, che, a loro volta, derivano dalle angosce psicotiche associate ai momenti 20 D.W. Winnicott (1958), La capacità di essere solo, in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando,

Roma 2007.

21 Cfr. M.A. Galanti, Complessità, apprendimento e relazione: dalle origini della vita psichica alla capacità di essere soli, in F. Cambi, M.A. Galanti, P. Pfanner, Apprendimento, autonomia, complessità, ETS, Pisa 2007, pp. 56-57.

L'importanza della capacità di essere soli ai fini di una relazione adeguata con se stessi e con gli altri è trattata più ampiamente nel quinto capitolo.

22 D.W. Winnicott (1958), La capacità di essere solo, cit. L'argomento è approfondito nel terzo capitolo, dedicato alle origini della capacità di essere solo.

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estremamente precoci del nostro sviluppo23.

Nei primi tre mesi di vita il bambino è dominato dalla lotta tra le pulsioni aggressive (l'istinto di morte) e quelle libidiche (l'istinto di vita) e lacerato, a causa della violenza degli impulsi distruttivi, dalla sensazione di essere perseguitato ad opera di una forza aggressiva interna intesa ad annientarlo. Questa primitiva angoscia di carattere paranoide-persecutorio, questa diffidenza e disposizione al sospetto danno già alimento in lui a un doloroso senso di solitudine: il bambino si sente completamente privo di compagnia e abbandonato a se stesso.

Il bisogno di salvaguardare la propria sopravvivenza e quella dell'oggetto d'amore lo costringe ad attuare procedimenti di scissione. Egli separa in fantasia l'istinto di morte da quello di vita, ovvero scinde se stesso dividendo le proprie opposte pulsioni, e proietta una parte della pulsione aggressiva fuori di sé, nel seno esterno che frustra (il seno cattivo), per limitare l'angoscia di essere annientato da questa forza distruttiva interna; compie la stessa operazione anche con una parte della libido, che proietta, però, nel seno esterno che appaga (il seno buono), così da creare un oggetto capace di soddisfare la spinta alla preservazione della vita. Queste scissioni impediscono al neonato di procedere verso una sufficiente integrazione della personalità, perciò lo obbligano ad avvertire gli elementi del proprio Io distaccati in fantasia come irrecuperabili, ingenerando in lui un'angoscia di natura depressiva, data appunto dal sentimento di aver subito una perdita irreparabile di parti di sé. Tale angoscia produce un nuovo e sofferto senso di solitudine. Esso viene ulteriormente alimentato dal ritorno dell'angoscia paranoide, dovuto al fatto che il seno esterno cattivo, trasfigurato dalle fantasie di proiezione, inizia ad apparire al neonato come un oggetto vendicativo e persecutorio, teso a distruggerlo24.

23 M. Klein (1959), Sul senso di solitudine, in Il nostro mondo adulto e altri saggi, Martinelli, Firenze 2002, p. 139.

24 Ibid., pp. 140-141, 144-145. Cfr. anche M. Klein (1946), Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978. Vedi inoltre: E. Morpurgo, V. Morpurgo, La solitudine. Forme di un sentimento. Saggi psicologici e psicoanalitici, FrancoAngeli, Milano 1995, pp. 34-36.

Klein chiama “posizione schizo-paranoide” la configurazione (appena descritta) del rapporto con l'oggetto, delle angosce e delle difese caratteristica dei primi tre mesi di vita; nella prospettiva dell'autrice ad essa ne segue un'altra, del tutto diversa, denominata “posizione depressiva”.

Sulla posizione schizo-paranoide cfr. M. Klein (1946), Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Scritti, cit. Sulla posizione schizoparanoide e sul concetto di posizione psichica vedi inoltre: H. Segal (1964), Introduzione all'opera di Melanie Klein, Martinelli, Firenze 2001. Cfr. anche M.A.

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L'angoscia depressiva e il conseguente sentimento di solitudine si riattivano, poi, in tutti i momenti in cui il bambino sperimenta la distanza fisica, e dunque psichica, della madre, poiché in queste occasioni egli sente la sua figura d'accudimento come perduta, e questa sensazione equivale per lui alla paura della sua morte25.

Ma dal punto di vista di Klein il senso di solitudine più sofferto nell'esperienza individuale del neonato emerge in associazione al raggiungimento della posizione depressiva, che avviene intorno all'ottavo mese di vita, al culmine dello svezzamento, quando il bambino porta a compimento il processo di integrazione del proprio Io e degli oggetti esterni. Ciò significa che egli realizza una sintesi tra le parti scisse delle figure esterne, ovvero entra in rapporto non solo con il seno della madre, con le sue mani, il suo volto, i suoi occhi come oggetti separati, ma con lei stessa come oggetto intero, come persona; simultaneamente, opera una sintesi anche tra le parti scisse del proprio Io, giungendo così ad acquistare il senso di Sé, la consapevolezza di essere un'unità psicofisica a sé stante, separata dal mondo esterno.

Queste integrazioni hanno implicazioni molto vaste. In virtù dei processi di ricomposizione delle parti scisse di sé e dell'oggetto, il bambino diventa cosciente dell'ambivalenza che caratterizza tanto l'Io quanto le figure esterne, perciò rompe l'immagine idealizzata di entrambi caratteristica della posizione schizo-paranoide. Egli scopre che le esperienze buone e cattive non provengono da un seno buono e uno cattivo, ma dalla stessa madre, nella quale sono compresenti il bene e il male; contemporaneamente, si rende conto che bene e male sono compresenti anche dentro di sé, poiché riconosce di aver amato e insieme odiato, e di amare e odiare ancora, la stessa persona, sua madre. Si trova, allora, a fronteggiare i conflitti relativi alla propria ambivalenza: poiché ricorda di aver amato ma anche odiato e aggredito il proprio oggetto buono, sia esterno che interno, è preso dalla sensazione di averlo irrimediabilmente distrutto e di non avere, dunque, la possibilità di ritrovarlo disponibile. Ciò lo espone a un acuto sentimento di perdita degli oggetti d'amore, al Galanti, Complessità, apprendimento e relazione: dalle origini della vita psichica alla capacità di essere soli, in F. Cambi, M.A. Galanti, P. Pfanner, Apprendimento, autonomia, complessità, cit., pp. 38-40; M.A. Galanti, Smarrimenti del Sé. Educazione e perdita tra normalità e patologia, ETS, Pisa 2012, pp. 177-178; L. Trisciuzzi, C. Fratini, M.A. Galanti, Dimenticare Freud? L'educazione nella società complessa, La Nuova Italia, Firenze 2001, pp. 63-64.

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quale si associa un lacerante senso di colpa. Il risultato finale è una profonda angoscia depressiva, fatta di dolore, afflizione e cordoglio per gli oggetti d'amore ormai assenti (il cosiddetto “struggersi per l'oggetto amato”), e connotata dal senso di perdita definitiva (esperienza del lutto) e di colpevolezza; un'angoscia che si fa fonte di un lacerante sentimento di solitudine26.

Klein sottolinea che in nessuna persona sana si verifica un superamento completo delle angosce paranoidi e depressive primarie. Esse rimangono sempre attive nella personalità di ciascuno, seppur destinate a riemergere in forma variata e, in generale, con minore intensità; l'individuo non può sfuggire, per esempio, al sentimento depressivo che alcune parti di sé siano scisse e irrecuperabili, poiché l'integrazione non può mai essere realizzata in modo completo e una volta per tutte. Ciò significa che il senso di solitudine è in una certa misura, e inevitabilmente, sperimentato da tutti27.

A questo punto, alla luce delle ricerche di Winnicott e Klein, emerge la necessità 26 Ricordiamo che, come indicato da Maria Antonella Galanti, conoscenze più attuali rispetto ai bambini nel primo anno di vita permettono di leggere in modo più complesso la genesi della posizione depressiva individuata da Melanie Klein: si può, per esempio, interpretare l'angoscia depressiva come derivante dall'acuta presa di coscienza, a livello di sensazione, del fatto che il male e la cattiveria sono presenti, al di là dei comportamenti visibili, anche nelle figure di riferimento affettivo e all'interno di sé; perciò, come derivante dalla consapevolezza del fatto che l'Io e l'oggetto esterno non potranno mai approssimarsi alla perfezione dell'ideale. Da qui nasce un dolore depressivo connotato dalla disillusione, dall'autosvalutazione legata al senso dei propri limiti, dalla sensazione di perdita degli oggetti buoni interni ed esterni e dal senso di vuoto esistenziale. Vedi in M.A. Galanti, Sofferenza psichica e pedagogia. Educare all'ansia, alla fragilità e alla solitudine, Carocci, Roma 2007, pp. 54-55.

Sul senso di solitudine che scaturisce nel bambino dall'angoscia depressiva vedi M. Klein (1959), Sul senso di solitudine, in Il nostro mondo adulto e altri saggi, cit. Vedi inoltre: E. Morpurgo, V. Morpurgo, La solitudine. Forme di un sentimento. Saggi psicologici e psicoanalitici, cit., pp. 36-38.

Sulla posizione depressiva cfr. i seguenti contributi di M. Klein: Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi (1935), Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi (1940), Sulla teoria dell'angoscia e del senso di colpa (1948), Alcune conclusioni teoriche sulla vita emotiva del bambino nella prima infanzia (1952), tutti in Scritti, cit. Vedi inoltre: H. Segal (1964), Introduzione all'opera di Melanie Klein, cit. Cfr. anche M.A. Galanti, Complessità, apprendimento e relazione: dalle origini della vita psichica alla capacità di essere soli, in F. Cambi, M.A. Galanti, P. Pfanner, Apprendimento, autonomia, complessità, cit., p. 40; M.A. Galanti, Smarrimenti del Sé. Educazione e perdita tra normalità e patologia, cit., pp. 178-179; L. Trisciuzzi, C. Fratini, M.A. Galanti, Dimenticare Freud? L'educazione nella società complessa, cit., p. 64.

27 M. Klein (1959), Sul senso di solitudine, in Il nostro mondo adulto e altri saggi, cit.

Klein evidenzia che le angosce paranoidi e depressive sono presenti nei casi patologici in forme particolarmente violente. Il senso di solitudine, dunque, è anche un aspetto delle malattie di natura schizofrenica e depressiva.

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di distinguere almeno due principali forme di solitudine, due forme così diverse tra loro da non poter essere pensate neppure come conseguenti o correlate; esse rappresentano due monadi del tutto indipendenti ed estranee dal punto di vista delle sensazioni, delle dinamiche psichiche e del vissuto interno.

Una di queste esperienze di solitudine può dirsi definita dalla relazione, mentre l'altra, all'opposto, da una negazione della relazione.

Winnicott ci induce a considerare che la solitudine può corrispondere a una condizione di temporaneo ritiro interiore, desiderato e ricercato per il bisogno di stare in compagnia di se stessi. In queste vesti, essa si risolve in un'esperienza di separazione dagli altri e dal mondo, ma non di radicale distacco; in tali circostanze, nonostante ci sentiamo distanti dalle persone care e da tutte le figure che costellano la nostra esistenza quotidiana e solo il silenzio ci circondi, non proviamo un penoso senso di abbandono e di emarginazione. Al contrario, siamo confortati e protetti dal sentimento di una relazione che si mantiene anche nella lontananza e dalla consapevolezza di poter facilmente risorgere dal nostro estraniamento per tornare a stabilire anche nella realtà oggettiva un contatto con le persone per noi significative. Ci sentiamo soli, ma non completamente, non realmente esclusi e isolati.

La solitudine come condizione di temporaneo ritiro in se stessi, infatti, rappresenta un'esperienza alla quale possiamo consegnarci sospendendo i nostri scambi con la realtà condivisa, sottraendoci psichicamente alle sue richieste e sollecitazioni, cioè realizzando un'operazione che possiamo liberamente e agevolmente revocare e che, inoltre, non ci priva della possibilità di mantenere un legame simbolico con le persone lasciate, dato dal fatto di continuare a custodirle nella dimensione psichica come una sorta di nucleo caldo, di riserva energetica di amore che nutre dall'interno. Così, possiamo immergerci nella nostra esperienza di raccoglimento in noi stessi, nella nostra solitudine, senza provare un sentimento di perdita definitiva della connessione con qualcuno. Saremo, all'opposto, accompagnati dall'idea di disporre di un passaggio sempre aperto verso i territori del dialogo effettivo con gli altri e, contemporaneamente, dalla sensazione che i nostri cari siano comunque insieme a noi, seppur lontani; una sensazione che ci permetterà di nutrire anche una viva fiducia nel fatto di poterli ritrovare disponibili al momento del nostro ritorno.

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Questa solitudine voluta e cercata, questa solitudine che è sempre un esser soli in presenza di qualcuno è la risorsa che abbiamo a disposizione per scoprire, come ci dice Winnicott, la nostra vita personale. E', cioè, la dimensione segreta nella quale si rende possibile il colloquio interiore, nella forma del viaggio all'interno della propria realtà psichica e del contatto con le proprie istanze più intime e profonde, con quel nucleo di verità per il quale si è se stessi e non altri. Si tratta, allora, di un'esperienza emozionale definita dalla relazionalità anche in quanto luogo della sconfinata apertura al proprio Sé; un'apertura di cui si può godere unicamente al riparo dall'incessante cicaleggio della realtà collettiva, dalle sue convenzioni, richieste e aspettative, in una sorta di temporanea introversione, il cui silenzio permette di penetrare finalmente in se stessi e di aprire il dialogo infinito con la propria anima28.

Così, Borgna giunge a scrivere:

(…) ci si può non sentire soli anche nel deserto: quando questo sia riscattato, e redento, da una palpitante apertura a noi stessi e, benché assenti, agli altri. Così, siamo soli nel deserto, o nella casa in cui abitiamo, nella cella di un monastero, o su di un'alta montagna, e nondimeno la nostra anima non è lacerata dalle spine roventi dell'essere-soli, ed è aperta alla solidarietà e al colloquio interiore29.

Anche quando siamo materialmente isolati, privi di compagnia esterna possiamo non sentirci completamente soli se trasformiamo la nostra solitudine fisica in una solitudine interiore, in un'esperienza di distacco dall'altro e dal mondo vissuta intenzionalmente, per una libera scelta che segue il cammino misterioso verso l'interno.

Tuttavia, e qui veniamo alla lezione di Melanie Klein, esiste anche una solitudine indesiderata e sofferta, derivante da un sentimento di perdita irreparabile della relazione con l'altro o con parti di sé, dovuto alla sperimentazione di un'incolmabile distanza psichica o psicofisica dall'altro oppure alla sensazione che alcuni contenuti psichici personali siano scissi e non più disponibili.

28 Sulla solitudine come dimensione del dialogo interiore e, quindi, della relazione con se stessi vedi il quinto capitolo.

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Come indicato da Anna Freud, l'esperienza della solitudine si lega sempre a quella della perdita30; e potremmo aggiungere, seguendo Klein, che è irrilevante che la perdita sia o meno avvenuta nella realtà oggettiva, poiché a contare, come fonte di solitudine, è il fatto che essa sia avvertita come tale, e cioè il vissuto interno. Riveste, però, una notevole importanza, in relazione ai modi di essere interiori della solitudine, la connotazione che questo sentimento di perdita assume. Quando, infatti, ci sentiamo privati in modo definitivo della connessione con l'altro o con parti di noi, il nostro animo è scosso da un doloroso senso di vuoto, che ci fa sentire radicalmente soli, cioè completamente e irrevocabilmente senza compagnia e abbandonati; la solitudine che accusiamo si delinea come un'esperienza interiore di forzata e totale separazione dalle altre persone o dalla nostra, ovvero dall'immagine che abitualmente abbiamo di noi, quella con cui tendiamo a identificarci.

Ai suoi livelli più profondi, questa solitudine diventa gelida chiusura nei confini di un Io trasformato in monade senza porte e senza finestre, reclusione autistica che rende difficile, se non impossibile, anche aprire un dialogo significativo con la propria anima; oppure diventa un'esperienza di radicale estraneità a se stessi, che smantella anche la possibilità di considerare il contatto con altri esseri umani un sentiero ancora percorribile.

Questi vissuti di solitudine, connotati dalla totale mancanza di riferimenti e certezze, possono essere così spietati da far svanire, infine, la capacità di intrattenere qualsiasi genere di relazione psichica con quanto considerato perduto, anche quella data dal custodirlo nella dimensione interna e dal continuare a desiderarlo. L'aridità interiore raggiunge così le sue vette più vertiginose, e l'individuo è destinato a precipitare nello sconforto più paralizzante.

Proprio la radicalità di queste esperienze ha indotto molti autori a scinderle anche a livello terminologico rispetto a quelle di intenzionale e fertile ritiro in se stessi. Otto Kernberg, per esempio, distingue tra la persona solitaria (“lonely”) e quella desolata (“empty”), sottolineando che la condizione solitaria è caratterizzata dal rapporto che il soggetto intrattiene con l'oggetto perduto continuando a desiderarne e 30 A. Freud (1966), Perdere e essere persi, in AA.VV., Solitudine e nostalgia, Boringhieri, Torino 1993. Cfr. anche E. Morpurgo, V. Morpurgo, La solitudine. Forme di un sentimento. Saggi psicologici e psicoanalitici, cit., p. 116.

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ad attenderne il ritorno, mentre nella situazione di desolazione si prova solo rassegnazione per la perdita di qualcuno31. Frieda Fromm-Reichmann contrappone l'essere soli temporaneamente e per volontà propria all'esperienza vissuta dall'individuo desolato e descrive quest'ultima come uno stato mentale in cui:

(…) il fatto che vi siano state persone nella propria vita passata è più o meno dimenticato e la speranza che vi possano essere rapporti interpersonali in futuro è al di fuori del regno dell'aspettativa o dell'immaginazione32.

Anche Borgna parla di due modalità totalmente diverse di essere soli, chiamando l'una “solitudine aperta” e l'altra “solitudine chiusa” o “isolamento”. La prima è l'esperienza del distacco intenzionale dal mondo delle persone e delle cose, delle distrazioni e della routine; in essa l'individuo è solo e, contemporaneamente, non solo, poiché simbolicamente aperto all'altro-da-sé, in dialogo con le latitudini sconfinate della propria vita interiore, immerso nella nostalgia delle umane relazioni e nutrito dalla fiducia nel possibile ricongiungimento con quanto perduto. L'isolamento, invece, è definito da un indesiderato e completo sfaldamento dei rapporti, è ostinata chiusura agli altri e a se stessi, solitudine radicale e assoluta, sigillata nella vertigine del dolore e dell'angoscia33.

L'autore aggiunge:

Forse, è possibile dire che l'isolamento nei riguardi della solitudine è quello che il mutismo è nei riguardi del silenzio. Tacere, essere nel silenzio, significa che si ha, o si può avere, qualcosa da dire: anche se non si ha voglia di dire nulla; mentre nel mutismo non si ha la possibilità di dire qualcosa34.

Come precedentemente sottolineato, la solitudine subita e sofferta è dovuta alla sperimentazione di un'incolmabile distanza psichica o psicofisica dall'altro, oppure alla sensazione che alcuni elementi del Sé non siano più recuperabili. Sullivan, che 31 O. Kernberg (1975), Disturbi gravi della personalità, Bollati Boringhieri, Torino 1987.

32 F. Fromm-Reichmann (1959), La solitudine, in AA.VV., Solitudine e nostalgia, cit., p. 46. 33 E. Borgna (2011), La solitudine dell'anima, cit.

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ha dedicato un saggio all'analisi delle componenti della straziante esperienza di essere soli, sottolinea che essa nasce dalla frustrazione continuata del bisogno di intimità interpersonale. Per l'autore è alle porte dell'adolescenza che si può iniziare a parlare di solitudine in senso pieno, ma tra i vari fattori che culmineranno in questa esperienza il primo emerge nell'infanzia, ed è il bisogno di contatto corporeo con l'altro e di intimità fisica in genere. Questo bisogno si estende alla fanciullezza, trasformandosi nel desiderio della partecipazione degli adulti alle proprie attività, soprattutto quelle ludiche. Nell'età scolare si sviluppa nella necessità di compagni di gioco e, nelle ultime fasi di questo periodo, nell'esigenza di accettazione, alla quale si connette la paura dell'ostracismo, ovvero il timore di essere rifiutati da chi riveste il ruolo di modello da cui dover imparare. La componente finale dell'esperienza della solitudine si colloca, per l'autore, nella preadolescenza ed è rappresentata dalla necessità di scambi intimi con un amico o un amico speciale, cioè del genere più profondo e affettivamente significativo di rapporto. A partire da questo momento, un perdurante non appagamento del bisogno di intimità con l'altro fa sentire l'individuo terribilmente solo35.

Sono innumerevoli i percorsi della solitudine lacerata, definita dalla dissolvenza delle relazioni.

Essa può essere causata dalla morte, dall'allontanamento o dall'indifferenza delle persone che amiamo, oppure nascere dalla percezione della nostra distanza rispetto al modo di essere, di sentire e di pensare di coloro che ci circondano e, quindi, della loro incapacità di ascoltare, accettare e condividere quanto si muove nel nostro cuore. Può essere determinata anche da forme di vita incrinate dal dolore del corpo e dell'anima, dalla malattia psichica e dalla patologica incapacità relazionale, oppure sgorgare da conflittuali grovigli personali, egoistici e narcisistici, che non hanno a che fare con un qualche disturbo psichico, ma con aridità di cuore e deserti emozionali, con l'incapacità di provare empatia e vicinanza affettiva o di condividere se stessi -i propri pensieri, le proprie verità, i propri bisogni- con gli altri. Può, inoltre, accompagnare la consapevolezza dell'età che avanza, la vecchiaia, il franare 35 H.S. Sullivan Sullivan (1945), L'esperienza della solitudine, in AA.VV., Solitudine e nostalgia, cit. Sulla solitudine secondo H.S. Sullivan cfr. anche F. Fromm-Reichmann (1959), La solitudine, in AA.VV., Solitudine e nostalgia, cit., pp. 43-44.

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degli ideali, dei sogni giovanili, la perdita di ricordi, certezze e opportunità36.

Umiliazione, senso di colpa, paura, rabbia, rancore, desiderio di vendetta sono solo alcune delle sfumature psicologiche che possono derivare dalla solitudine indesiderata e dolente, legata alla perdita definitiva di relazioni. Ai suoi livelli più profondi, inoltre, questa esperienza facilmente si traduce in manifestazioni altamente distruttive; Maria Antonella Galanti ci indica che dal senso di vuoto cronico possono scaturire la patologia del consumo e quella dell'autosvalutazione depressiva37, mentre Borgna sottolinea come per il dolore dato dal sentimento di radicale separazione dagli altri si possa addirittura morire38.

All'opposto, la condizione di temporaneo e volontario ritiro in se stessi rappresenta il volto luminoso della solitudine. Leopardi le dedica splendide parole nel suo diario personale, lo Zibaldone di pensieri, elogiandola come un'oasi di pace, dotata di caratteristiche rigenerative ed equilibranti:

Il giovanetto (…) è felice nella solitudine per le illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe (…). L'uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desiderii, nella solitudine appoco appoco si rifà, ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni modo risorge (…). Come questo? Forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel diverso e più vago aspetto che prendono per lui quelle cose già sperimentate e vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e dall'intelletto, tornano a passare per la immaginazione sua, e quindi ad abbellirsi. Ed egli torna a sperare e desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere, e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra nel mondo39.

La condizione inafferrabile e silenziosa, fragile e arcana di ritiro in se stessi, al riparo dal ritmo consueto e stremante dell'esistenza quotidiana e dallo sguardo invasivo e indiscreto degli altri, costituisce una delle esperienze più formative e vivificanti che un essere umano possa vivere. Questa solitudine, dalla quale ogni 36 Cfr. E. Borgna (2011), La solitudine dell'anima, cit. Vedi anche: E. Morpurgo, V. Morpurgo, La solitudine. Forme di un sentimento. Saggi psicologici e psicoanalitici, cit.; F. Fromm-Reichmann (1959), La solitudine, in AA.VV., Solitudine e nostalgia, cit.

37 M.A. Galanti, Smarrimenti del Sé. Educazione e perdita tra normalità e patologia, cit., p. 93. 38 E. Borgna (2011), La solitudine dell'anima, cit.

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volta rinasce e si rinnova l'infinito colloquio con se stessi, permette di tessere nuovi progetti e sogni, di prendersi cura delle parti più fragili e vulnerabili del proprio Sé e di rinnovare le energie. Rappresenta anche la dimensione esistenziale che rende possibile confermarsi o recuperarsi come soggetti ben individuati, modellare e ridefinire l'identità personale, essere autonomi nel pensare, nell'agire e nell'apprendere, così come stabilire relazioni mature e adeguate con gli altri; da essa, inoltre, traggono impulso le nuove scoperte, le soluzioni insperate, le idee originali e rivoluzionarie e ogni genere di espressione creativa. L'argomento costituirà il contenuto del quinto capitolo di questo lavoro, nel quale l'esperienza del distacco intenzionale dagli altri e dal mondo emergerà come una realtà umana ed emozionale così fertile da rendere opportuno considerarla, sulla scia di Winnicott, una competenza e una sorta di diritto-dovere di ciascuno di noi.

Tuttavia, a ulteriore dimostrazione dell'inadeguatezza di suddivisioni eccessivamente rigide, in verità anche nelle forme più oscure dell'essere soli sono racchiuse segrete opportunità.

Il dolore e la tristezza dovuti alla separazione subita e al senso, anche radicale, di vuoto hanno il potere, per esempio, di stimolare una speciale sensibilità e acutezza di sguardo e di trasformarsi in una splendida fonte di ispirazione poetica e, più in generale, di creatività artistica e culturale. Freud scriveva che dal dolore per l'esperienza della perdita si origina la melanconia40, un affetto che nel XIX secolo è stato valorizzato in ogni ambito artistico e culturale come elemento necessario alla sensibilità superiore e al pensiero profondo, e come molla insostituibile per la creatività. Leopardi, Dostoevskij, Hermann Hesse, Pavese appartengono a una sconfinata schiera di grandi artisti che hanno trasformato la loro lacerata solitudine in una risorsa; artisti stimolati dalla sofferenza ad attivare grandi risorse interiori creative e spiccata acutezza psicologica e umana41.

Attraversare i territori della solitudine negativa, associata alla perdita definitiva e dolorosa, è indispensabile per essere liberi e per apprendere. Non può esistere, infatti, 40 S. Freud (1915), Lutto e melanconia in Opere, Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. VIII.

41 Cfr. M.A. Galanti, Sofferenza psichica e pedagogia. Educare all'ansia, alla fragilità e alla solitudine, cit.; E. Morpurgo, V. Morpurgo, La solitudine. Forme di un sentimento. Saggi psicologici e psicoanalitici, cit.

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libertà se non passando attraverso la scelta consapevole, e ogni scelta necessariamente comporta un'acquisizione, ma anche l'esclusione, spesso definitiva, di percorsi alternativi precedentemente custoditi come progetti da realizzare; esclusione a cui facilmente si associa un sottile o accorato senso di vuoto e di estraneità rispetto a se stessi. Al contempo, non può esistere apprendimento se non passando attraverso la rottura dei precedenti equilibri, compresi quelli dei saperi relativi al mondo; l'apprendimento implica costantemente, dunque, l'esperienza della perdita e della solitudine e la necessità di una ridefinizione di sé, venendo a configurarsi, secondo un'espressione di Wilfred R. Bion, come un “mutamento catastrofico”42.

Come abbiamo visto, i contributi provenienti dalle ricerche psicoanalitiche post-freudiane, a partire da quelle dei citati Klein e Winnicott, rendono possibile lo studio della solitudine come dimensione esistenziale ambivalente. La psicoanalisi del dopo-Freud risulta interessante da questo punto di vista anche perché nel suo ambito si colloca una feconda produzione di riflessioni critiche leggibili come un'indagine sulla problematica della solitudine nella primissima infanzia.

Freud aveva considerato l'infanzia solo in quanto passato dell'adulto; ricostruendo il bambino che ciascun adulto era stato egli individuava la genesi del disagio o del disturbo psichico. Nel dopo-Freud, invece, la ricerca psicoanalitica guarda al bambino come a un soggetto che possiede un valore di per sé, per quello che è nel presente, e fissa il centro della propria attenzione sulla realtà mai indagata della primissima infanzia, con l'obiettivo di esplorare la strutturazione del Sé nei suoi momenti originari e fondanti, nella convinzione di base che la personalità dell'individuo si formi nel corso del processo, infinito, di crescita e che non sia comprensibile, dunque, se non in una prospettiva evolutiva.

Nello specifico, la riflessione è indirizzata sulla nascita della vita psichica, in quello che si configura come uno spostamento del campo di indagine della psicoanalisi dallo studio dell'apparato psichico nelle sue componenti strutturali a quello della sua genesi. Acquistano così rilevanza, come oggetto di ricerca, le 42 W.R. Bion (1966), Il cambiamento catastrofico, Loescher, Torino 1981.

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vicende del processo di individuazione, l'arcaico percorso di sviluppo lungo il quale il bambino conquista la possibilità di aprirsi alla vita che appartiene al mondo interno alla sua mente; si tratta del percorso che dalla nascita biologica conduce alla nascita psicologica, corrispondente alla graduale acquisizione da parte del bambino della capacità di porsi come unità psicofisica differenziata dal resto del mondo, ovvero della progressiva conquista della consapevolezza di possedere una realtà interna e un corpo prettamente personali e formanti un tutto unico separato dal mondo esterno.

La riflessione sulla nascita della vita psichica porta naturalmente a indagare anche la relazione che originariamente si struttura tra la figura materna e il neonato, quella che definisce la diade madre-bambino, emergente quando questi non è ancora in grado di individuarsi e si vive come intimamente fuso con il proprio oggetto d'amore. Gli autori valorizzano la madre nella sua funzione di contenitore psichico primario, sottolineando come la sua capacità di comprendere, attraverso l'empatia, i bisogni fisici e affettivi del neonato e di adattarvisi completamente sia di fondamentale importanza non solo per la sopravvivenza fisica e psichica del piccolo, ma anche in relazione al suo futuro processo di sviluppo43.

Contemporaneamente, emerge come prospettiva ampiamente condivisa anche l'idea che il bambino possa realizzare un adeguato cammino di maturazione e conquistare la possibilità di diventare un adulto sano unicamente a condizione di sperimentare la separazione fisica e, dunque, psichica dalla figura materna dopo aver goduto di un iniziale adattamento completo da parte sua ai propri bisogni. Molti degli autori del dopo-Freud evidenziano il valore formativo del sentimento di perdita dell'oggetto d'amore, perciò di solitudine, che si associa a queste primitive esperienze di distacco.

I più consistenti contributi sull'argomento provengono da Winnicott e da Margaret Mahler, che, con trattazioni scrupolose, dettagliate e connotate da una speciale sensibilità, mostrano come l'individuazione sia resa possibile solo dallo sperimentare la mancanza, l'assenza della madre. Mahler, nello specifico, enfatizza l'importanza delle originarie esperienze di allontanamento intenzionale del bambino dalla figura 43 Cfr. L. Trisciuzzi, C. Fratini, M.A. Galanti, Dimenticare Freud? L'educazione nella società complessa, cit., pp. 47-48, 69-70, 103-107; M.A. Galanti, Affetti ed empatia nella relazione educativa, Liguori, Napoli 2001, pp. 38-42, 47-67.

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affettiva di riferimento, mentre Winnicott indirizza le ricerche sulla funzione costruttiva dei momenti nei quali il neonato si trova costretto a sperimentare il venir meno della madre e delle sue cure (la cosiddetta frustrazione); per l'autrice il dolore della perdita funziona da stimolo a fare, ad agire, a esplorare e conoscere e per Winnicott si trasforma, invece, in una fonte di creatività, intesa in termini di attività di recupero metaforico di quanto perduto44.

Riflettere sul doppio volto della solitudine significa, a questo punto, discutere dell'esistenza di un versante positivo dell'essere soli comprendente non solo la condizione di fertile ritiro in se stesso desiderata e ricercata dall'individuo maturo, ma anche le esperienze di solitudine altamente formative che costellano i primi mesi di vita. Sebbene si tratti di vissuti che, a differenza dell'altra forma positiva di solitudine, non possono essere propriamente accompagnati dal mantenimento di una relazione psichica con chi è assente, perché appartengono a un momento precoce della vita in cui, come avremo occasione di approfondire, siamo lontani dalla capacità di sentirci in possesso di una dimensione interiore prettamente personale e non siamo ancora in grado, dunque, di tenere l'altro permanentemente stretto dentro di noi. Il bambino finisce per sentire la madre come morta, quindi irrevocabilmente perduta, se la separazione risulta eccessivamente prolungata.

1.3. Crisi dell'ambivalenza della solitudine nella società odierna

Nonostante la solitudine sia una condizione complessa, che può assumere un volto positivo e contemporaneamente un altro dal segno opposto e tingersi di tutte le tonalità cromatiche dei nostri affetti, oggi tendiamo a pensarla unicamente in termini negativi. La identifichiamo con l'abbandono e l'emarginazione, senza riuscire a riconoscerla anche come dimensione del ripensamento e dell'introspezione necessaria per un adeguato rapporto con se stessi e con gli altri. Per questa ragione la temiamo 44 Cfr. L. Trisciuzzi, C. Fratini, M.A. Galanti, Dimenticare Freud? L'educazione nella società

complessa, cit., pp. 188-199.

La questione della fondamentale importanza che ha per il bambino vivere una fase originaria di completa fusionalità con una madre altamente disponibile e in seguito sperimentare la perdita delle cure materne costituisce l'argomento del secondo capitolo.

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