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Contenuti e forme delle firme.

II. 1. Le formule di firma.

1.1. Modelli ed evoluzioni delle formule di firma dal XIV al XVI secolo.

Una prima analisi delle firme dipinte e scolpite nelle opere di scuola veneziana mette subito in evidenza che, nel passaggio dal XIV al XVI secolo, ovvero da quello che si è considerato essere il momento dell'alba e quello del tramonto della pratica di firma1, la sua via di espressione verbale, la

formula, passa dall'essere piuttosto prolissa ad una progressiva sintesi. Questa sintesi si manifesta,

non solo nella riduzione del numero di contenuti dichiarati, ma anche (od oppure) nel modo di presentarli, ovvero nella compressione di parole, fino alla riduzione di queste alle loro sole iniziali. La sintesi ridotta ad una sequenza di lettere puntate da sciogliere non è quasi mai di agevole o certa lettura2. Da ciò risulta che la firma che tende alla sintesi, sembra contemporaneamente rivolgersi ad

un pubblico, più che futuro (il nostro), contemporaneo all'opera che la contiene, ovvero in grado di interpretare le sigle in maniera corretta; questa scelta potrebbe anche testimoniare un volontario celarsi dietro questa via di espressione premeditatamente incomprensibile (almeno non senza l'interazione dello stesso artista), in una contraddizione di fatto con l'autopromozione insita nella sua stessa esistenza. Se ci si pensa, si scopre che la sintesi, il non detto o il sospeso a cui tende la formula di firma è il riflesso di un parallelo ed analogo processo che coinvolge il mondo dell'iconografia tutta e la presentazione della historia, la quale a sua volta, nel corso del Rinascimento abbandona l'essenza didascalica che la caratterizzava nel Medioevo.

In questo percorso di sintesi vanno incluse anche le segnalazioni dell'anno di consegna dell'opera, le quali fino alla metà del XV secolo erano sempre presenti e sempre date in numeri romani3.

Successivamente, per la segnalazione della data aumenta (qualora essa non sparisca del tutto) la frequenza dei numeri arabi, e ciò soprattutto in firme che usano il carattere minuscolo corsivo, il quale comincia a comparire, come si avrà modo di vedere, nella seconda metà del Quattrocento4.

L'anno di consegna di norma è segnalato in testa alla firma nelle sottoscrizioni più antiche e in appendice in quelle più moderne. Raramente l'anno è svolto in parole come ad esempio, ancora nella stessa seconda metà del XV secolo, sceglie di fare Antonello da Messina nel Salvador Mundi della National Gallery di Londra5.

1 Cfr. supra, Prima Introduzione, 1.

2 Per questa difficoltà incontrata segnalata dagli antichi scrittori cfr. supra, § I. 3.3. e 5.1. Cfr. anche infra, n. 32. 3 Un'interessante sintesi che coinvolge una firma si incontra nel Cristo benedicente firmato da Marco Basaiti, oggi

all'Accademia Carrara di Bergamo; qui, nella firma «M DXVII/ · BAXAITI. P» la “M” della data sembra servire contemporaneamente anche l'iniziale del nome d'arte (cfr. infra, nn. 10, 48) del pittore.

4 Cfr. infra, § II. 2.4.

5 Firma: «Millesimo Quatricentesimo Sextage/simo quindo VIIIºIndi. antonellus/ messaneus me pinxit». Particolare è il caso di certe firme di Dürer dove egli segnala oltre all'anno in numeri arabi, in forma discorsiva anche il tempo occorso per portare a termine l'opera (cfr. infra, § III. 3.6. e § VI. 1.3., n. 21).

Di questi tempi il linguaggio della formula, tranne rare eccezioni, è sempre in lingua latina6 (ancor

più rare le combinazione dei due linguaggi7). L'artista usa quindi il modo di esprimersi dei testi

sacri; e sacri s'intende sia del punto di vista religioso che dal punto di vista pagano ed umanistico. Il latino delle firme a volte è zoppicante dal punto di vista della sintassi, e anche dal punto di vista grammaticale spesso contiene qualche errore, pur veniale, anche quando la formula si riduce a pochi termini. Questi errori di forma comunque di norma non impediscono di cogliere il significato, o almeno il senso della parola o del discorso del quale essi fanno parte; degli errori frequenti sono ad esempio l'inconsapevole (c'è da crederlo) soppressione di alcune lettere, oppure la mutazione di una “X” in un “CS”, come nel caso del pinxit che diventa pincsit, o di una “C” in una “T”, come nel caso di faciebat che in alcune firme diventa fatiebat8.

Piccole o medie mutazioni si possono riscontrare anche in una serie di opere firmate da uno stesso autore: qualche volta, messe in ordine cronologico, esse mostrano un'evoluzione e un tentativo di raffinamento di quel nome9, altre volte invece l'oscillazione da una lezione all'altra sembra del tutto

occasionale ed imprevedibile, onde suscitare anche il dubbio da parte della critica che gli autori di una serie di opere che contengono uno stesso nome, possano essere anche più di uno10.

Ora, tenendo conto che ovviamente esistono molte eccezioni (e proprio su alcune si punterà l'attenzione nei successivi paragrafi), è possibile tentare di raggruppare le formule di firma caratterizzanti i secoli XIV, XV e XVI, in cinque principali categorie11.

6 Le eccezioni sono date dall'uso del volgare oppure di altri linguaggi e alfabeti, ad esempio il greco (cfr. la firma del

San Sebastiano di Andrea Mantegna -cfr. supra, Seconda Introduzione, 5.-), oppure in ebraico (cfr. alcune firme di

Marco Palmezzano discusse in S. Nicolini in Aspetti..., cit., 2005, p. 89). Osservazioni sul passaggio dal volgare al latino (e viceversa) all'interno della carriera di un autore sono già stata fatte ad esempio supra, § I. 5.8. n. 116. 7 Per un caso (riguardante una firma di Semitecolo) cfr. infra, 1.7.

8 Questa mutazione compare con una discreta frequenza nelle firme di Andrea Previtali, Marco Palmezzano (cfr. infra, § III. 1.3.4., nn. 80-84) e Albrecht Dürer. Un presunto errore grammaticale è stato a volte sottolineato in una tavola di Marco Palmezzano oggi a Brera: rappresenta una Madonna col Bambino e santi ed è firmata «·MARCHVS· PALMIZANVS· FOROLIVENSE· FACERVNT·*·/ M CCCCLXXXXIII·»; secondo Filippo Panzavolta «la forma

apparentemente sgrammaticata del verbo […] è da considerarsi autentica [-...] allora, darà da intendersi come pluralis maiestatis, non essendo verosimile un errore tanto grossolano da parte dell'artista» (in A. Paolucci, L. Prati, S. Tumidei, Marco Palmezzano..., cit., 2005, cat. 8, p. 196).

9 Per esempio Giovanni Bellini passò dal firmarsi IHOVANES (nel San Gerolamo predica il leone del Barber Institue di Birmingham; firma: «IHOVANES BELINVS») a IOHANNES (nella Pietà dell'Accademia Carrara di Bergamo, firma: «IOHANNES B.» e in quella di Palazzo Ducale, firma: «IOHANNES BELLINVS») per poi accogliere in pianta stabile la variante IOANNES (delle osservazioni su questa mutazione sono già state fatte supra, § I. 5.6. n. 83). Per l'evoluzione in questo senso delle firme di Carpaccio si veda infra, 1.8, per quelle di Basaiti cfr. n. successiva. Per Tiziano cfr. supra, , § I. 5.8. n. 116.

10 É il caso di Marco Basaiti (per le varianti linguistiche delle firme di Basaiti cfr. B. Bonario, Marco Basaiti..., cit. [1974], ed. 1983, pp. 65-68). Per un elenco delle firme di Basaiti e delle sue varianti cfr. pp. 65-68. Le pur minime, ma costanti e, appunto imprevedibili, mutazioni del cognome nelle firme di questo autore, sono forse all'origine della confusione di Giorgio Vasari a proposito dell'identità dell'artista. Egli infatti nella vita di Vittore Scarpaccia, lo menziona attraverso due nomi facendone due personalità distinte, ovvero «Marco Besarini» e «Marco Bassiti» (cfr.

Vittore..., cit. [1568], ed. 1878, pp. 646, 647).

11 Sia ben inteso che è molto raro che un autore adotti una singola lezione valida per tutta la sua carriera. Più spesso infatti si assistono a delle oscillazioni dall'una all'altra maniera, le quali, come per i nomi (cfr. n. precedente) non per forza sono indicative di una lineare cronologia.

1. Nel Trecento e nel primo Quattrocento (e raramente dopo) la formula di firma di base più consueta era formata dal nome latinizzato del pittore in forma nominativa + PINXIT (o FECIT) HOC OPVS. Il dipinto o il rilievo, come opera, veniva quindi presentato all'osservatore come da un'imprecisata terza persona. Questa terza persona in realtà poteva essere intesa come l'opera stessa (ma ciò non è affatto dichiarato, come invece lo sarà in un'altra formula12), o anche come lo stesso osservatore del manufatto nel momento in cui si

trovava a leggere il contenuto della firma; visto coinvolto in questo modo, l'osservatore diventava egli stesso un inconsapevole determinatore (in primis verso sé stesso) dell'identità dell'artista che ha prodotto l'opera. Forse era firmato così anche il quadro di Filocrate ricordato da Plinio, in quanto, come si è detto13, egli ricorda che «hoc suum opus esse

testatus est»14.

2. Contemporaneamente (ma soprattutto successivamente, ovvero nella seconda metà del Quattrocento), la firma si sintetizza: moltissimi dipinti sono firmati con la parola “OPVS” seguita dal nome latino del pittore in forma genitiva. La censura dell'aggettivo dimostrativo “HOC” cala il silenzio e dà per scontato che la firma parli dell'opera che la firma sottoscrive; allo stesso modo, la mancanza del verbo pinxit o fecit dà ugualmente per scontato, o forse vuole mantenere un segreto (di pulcinella) sui modi, ovvero le azioni attraverso le quali l'opera è stata ottenuta. È, come la precedente, un tipo di firma che non si pone come se non fosse pronunciata dallo stesso pittore, ma da terzi. Questa formula è molto comune per la scultura, dove ha un nobile punto di riferimento classico nelle statue di Montecavallo quando ancora si credeva che le firme sui loro basamenti dicessero il vero15.

3. Nello stesso tempo in cui si incontra la formula che definisce la IIº categoria, risulta comune anche la firma data dal nome latino del pittore al nominativo associata al verbo pinxit, fecit, o, nel caso del solo Carpaccio, finxit16, i quali quindi prendono il posto della parola “OPVS”

dove l'artista non ha problemi (o è addirittura orgoglioso) d'enunciare la via attraverso la quale il lavoro è stato svolto17. A partire dal Cinquecento poi, i verbi in formula pinxit e fecit

possono presentarsi coniugati all'imperfetto (pingebat o faciebat)18, in una svolta che,

12 Cfr, infra in questo stesso paragrafo, la IVº categoria di formule. 13 Cfr. supra, § I. 1.2.

14 N. H., XXXV, 29. 15 Cfr. supra, § I. 1.2.2. 16 Cfr. infra 1.5.

17 Si dirà come, in pittura l'uso del pinxit indichi una dichiarazione esplicita di tecnica, mentre il fecit punti sul suo essere termine deliberatamente generico (cfr. infra, 1.4.).

18 Per la genesi di questa lezione cfr. supra, § I. 1.2. e 2.2 e infra, 1.3. Delle varianti al pinxit e al fecit si trovano tentate in incisione (cfr. infra, § VI. 2.9.) ed altrove da pittori come Bernardino Lanino, il quale firmò alcuni dipinti

secondo alcuni fu opposta a quella attuatasi nella Grecia antica19.

Nel processo di sintesi a cui convergono le firme, a volte il verbo si presenta attraverso la sola lettera iniziale; tuttavia, dopo centinaia di firme sciolte non sarà stato difficile per il pubblico contemporaneo capire che “F” stava per fecit e “P” per pinxit. Difficilmente la lettera singola puntata avrebbe potuto essere intesa dall'artista come abbreviazione della variante all'imperfetto20; tuttavia, come si è visto, alcuni l'hanno così interpretata21.

Alcune iscrizioni che in realtà non sono firme d'artista possono essere facilmente scambiate per sottoscrizioni appartenenti a questa categoria: esse di fatto indicano non l'artefice, ma il committente dell'opera22.

4. Una quarta tipica formula di firma ha origini nell'Antica Grecia e un discreto sviluppo nel Medioevo23 è formata dal nome latino dell'artista al nominativo + ME PINXIT o ME FECIT.

Nelle opere di scuola veneziana essa continua ad essere sottoscritta fino al primo decennio del Cinquecento, per poi definitivamente cadere in disuso nel corso di questo secolo. Diversamente dalle formule classificate finora, in questa è più esplicitamente l'opera stessa o il suo soggetto a parlare attraverso di essa e a riconoscere e a rendere nota all'osservatore l'identità del suo artefice24. Questa formula sottintende che l'artista è stato tanto abile nel

realizzare un'opera che essa, non solo risulta ben riuscita, ma si eleva dallo stato di oggetto fino a divenire viva, consapevole e soprattutto, a quanto sembra, riconoscente. La diffusione

con il verbo effigiabat (cfr. per esempio la Sacra Conversazione della National Gallery di Londra, firmata in una striscia «Bernardinus/ Effigiabat * 1543»). La lezione ebbe una discreta diffusione anche in letteratura: la stampa del

De Divina Proportione di Luca Paicoli a Venezia nel 1509, nel colophon introduttivo fa parlare il libro, il quale

informa il lettore che «Paganius Paganinus […] me imprimebat», mentre Giovanni Battista Palatino, nel suo trattato sulla scrittura, firma la conclusione delle varie tavole dei caratteri con uno specifico scribebat (Libro di Giovanni

Battista Palatino, cittadino romano nel qual s'insegna à scriver ogni sorte lettera, antica & moderna, di qualunque natione, con le sue regole, & misure, & essempi: et con un breve et util discorso de le cifre, 1545).

19 Così infatti Lessing: «Io credo che si potrebbe indicare come molto sicuro il criterio che tutti gli artisti che hanno usato il fecit [al posto del faciebat] fiorirono molto tempo dopo Alessandro Magno, poco prima degli Imperatori o sotto di questi» (Laokoon, cit., [1766], 1963, pp. 298, 299). Poco prima, lo stesso afferma che «Plinio non dice che l'usanza di firmare le proprie opere all'imperfetto fosse generale; che fosse osservata da tutti gli artisti di ogni epoca; egli dice espressamente che solo i primi artisti antichi, i creatori delle arti figurative […], un Apelle, un Policleto e i loro coetanei, avrebbero avuto questa saggia modestia; e perché egli li nomina da soli, fa intendere tacitamente, ma con bastante chiarezza, che i loro successori, soprattutto in epoca tarda, manifestarono maggior sicurezza di sé» (ivi, pp. 296, 297).

20 Se un faciebat viene abbreviato esso presenta almeno la prima sillaba della parola in modo che non vi siano dubbi sul suo scioglimento: si veda ad esempio la firma di Paolo Veronese nel Mercurio, Else e Alguaro del Fitzwilliam Museum di Cambridge dove la firma è «PAVLVS/ CALIARI/ VERONESIs FACI» e poi quelle di Francesco Segalino e Valerio Belli citate infra, § V. 1.3. e 2.2.

21 Cfr. supra, § I. 2.5.

22 Per uno di questi dubbi, relativo alla Vera da Pozzo in Campo dell'Angelo Raffaele, cfr. supra, § I. 5.4. Quasi nessun dubbio per quelle iscrizioni che che dichiarano che l'opera fo fata o che riportano l'indicazione fecit fieri.

23 Ad esempio nello Zeus di Fidia (cfr. supra, § I. 1.2.). Per quanto riguarda il Medioevo invece cfr. A. Dietl, Die

Sprache..., cit. 2009, vol. I, tab. XXI.

24 Un caso particolare di firma, dove si rende esplicito il fatto che, attraverso la firma stessa, è il soggetto a parlare e non l'opera che lo contiene si trova nell'Ecce Homo di Antonello da Messina (per questa firma cfr. infra, § II. 2.4)

di questa formula di firma emerge anche dai versi della lirica artistica del tempo: in un celebre sonetto della poetessa Girolama Corsi Ramo la sua immagine dipinta, ma parlante, informa il lettore che Victor la fece25. Tale consapevolezza acquisita dall'opera aumenta

notevolmente il prestigio dell'artista, e soprattutto in tempi in cui l'essere giudicata viva era caratteristica fondamentale per la determinazione del valore artistico di un prodotto26.

Inspiegabilmente non esiste traccia27 di una formula di questo genere che contenga il verbo

coniugato all'imperfetto28, quasi a ribadire il fatto che un'opera, per poter essere viva e quindi

“parlare” ed enunciare chi l'ha creata, debba per forza essere completa, quindi definitivamente facta, picta o ancora meglio firmata/fermata.

5. La versione più essenziale di firma che è possibile incontrare (ma soprattutto nel Cinquecento e raramente prima) è quella con il solo nome dell'artista in forma indicativa29.

Questa formula di firma trova un'ulteriore compressione quando il nome del pittore è dato dalle sole iniziali del nome e del cognome; vi furono anche artisti che decisero di fondere queste due lettere in degli elaborati monogrammi, alcuni dei quali ebbero un discreto successo30. Se l'artista firma in questo modo significa che è in attivo lo stesso processo per il

quale “P” ed “F” sono facilmente identificabili come iniziali di pinxit e fecit e quindi l'opera è destinata ad un pubblico specifico (più o meno ampio) in grado di riconoscere un nome attraverso le sue sole iniziali (ovviamente aiutati anche dal soggetto e dallo stile del dipinto). É anche vero che altre possibilità risultano plausibili: con la firma in singole lettere l'artista gioca sull'ambiguità che ne deriva31, oppure, come si è detto poco fa, vuole rimanere

“anonimo” pur paradossalmente manifestando la volontà di certificare la sua opera: di fatto alcune sigle risultano oggi (e forse già dal tempo in cui furono siglate) di dubbio

25 Cfr. l'intero sonetto in Lina Bolzoni -a cura di-, Poesia e ritratto nel Rinascimento, 2008, pp. 139-141. Per tradizione questo Vittore è identificato con Carpaccio (che tuttavia mai fece uso di questa formula) e a tal proposito Bolzoni dice che «la formula Victor mi fece ricorda le formule (ad esempio VICTOR CARPATHIVS FINXIT) con cui Carpaccio firma effettivamente [sic!] alcune delle proprie opere» (ivi, p. 141). Su questo ritratto cfr. anche infra, 1.4. 26 Basta leggere una pagina a caso delle Vite di Vasari per accertarsi che, per l'estetica rinascimentale, uno dei più

grandi elogi che di un'opera si possano fare è quello che essa appaia viva. Così anche Gabriele Paleotti dice che, rispettando tutte le regole del decoro, l'artista «procuri che quello che vuole rappresentare imiti vivamente il vero, talche se è possibile resti ingannata la vista con le somiglianze, si come vari esempi si leggono anticamente» (Discorso..., cit., 1582, II, LII, p. 278r).

27 A me nota. Tuttavia, anche se ci fosse qualche caso, sicuramente lo si potrebbe dire rarissimo. 28 Un caso appunto raro, ma in un campo specifico delle arti, è stato citato supra, n. 18.

29 Per questa pratica, già attestata nella Grecia cfr. supra, 1.2.

30 Su tutti, ovviamente spicca quello di Albrecht Dürer (cfr. infra, § VI. 2.4.). Mi sembra curioso citare su questo punto un passo del romanzo di Roland Topor (Mémoires..., cit. [2011]) dove, nei ricordi dell'artista protagonista, la firma in monogramma (anche quella degli artisti rinascimentali) viene pensata come espediente per risolvere dei problemi di ingombro: «intrapresi una serie di piccoli formati. Molto piccoli […] Una sola pennellata bastava a coprire otto tele. Tenuto conto dell'esiguità delle superfici, l'operazione più delicata era la firma. Alla fine mi limitai alle iniziali, come già Dürer aveva fatto prima di me» (ed. 2012, p. 85).

31 É il caso del Ritratto di Gentiluomo di Tiziano, del quale si è già parlato supra, § I. 2.4. Del carattere duplice della firma di quest'opera si parlerà infra, § III. 3.1.

scioglimento32.

1.2. Aggiunte tipiche: cittadinanza, titoli di prestigio, mestiere.

Con l'individuazione delle precedenti cinque lezioni di firma si è stabilito che, componenti essenziali della firma, sono anzitutto il nome, e in seconda battuta la segnalazione (occasionalmente considerata superflua) della natura di opera, e infine il verbo che evoca il modo in cui tale opera è stata dall'artista creata. Una componente aggiuntiva è la data dell'opera, e lo si è già detto. Altre aggiunte comuni invece mirano a etichettare l'artista: con esse di lui dichiarano i natali o la cittadinanza; un legame di discendenza o il fatto di essere eredi di qualcuno; un determinato titolo di prestigio (ad esempio politico); il mestiere33.

1.2.1. Il toponimico.

La segnalazione della città natale, il toponimico, viene aggiunto dagli artisti alle loro firme per una questione di prestigio (qualora una città, come Venezia, sia la sede di un riconosciuto ambiente artistico), oppure per legami di tipo più sentimentale, qualora l'artista, con la città ovvero con il paese natale, mantenga, anche lavorando all'estero, un qualche tipo di rapporto34.

In una città come Venezia, il toponimico straniero compare con insistenza nelle firme dei pittori forestieri (come Giovanni D'Alemagna, Antonello da Messina35, Giovanni Battista Cima da

Conegliano o Paolo Caliari Veronese36), quando allo stesso modo la dichiarazione di essere veneti

32 A proposito di queste sigle, su tutte qui si ricorda quella di una Madonna col Bambino del Museum of Fine Arts di Springfield nel Massachusetts (USA), la quale si trova sul fronte del parapetto ed è «. IO. AN.B.P. MCCCC _»; ora questa sigla è oscillata dall'essere sciolta, ma senza una definitiva soluzione, come il nome in cifra di Giovanni Antonio Pordenone, Antonio da Crevalcore oppure di Giovanni Antonio Aspertini (per una ricapitolazione e un commento a queste attribuzioni cfr. Massimo Mussini, Francesca Baldassarri, La Galleria Antonio Fontanesi dei

Musei Civici di Reggio Emilia, 1998, p. 49).

33 Di fatto queste “etichette” sono alla base della formazione di molti cognomi effettivi (ovviamente non solo di artisti) che in questo periodo nascono. Per quanto riguarda le firme, anche in questo caso vale il discorso sulla costanza non scontata già fatto prima, a proposito dell'adozione delle formule base di firma (cfr. supra, n. 10). Ad esempio, Andrea Previtali firmò quasi tutti i suoi quadri, ma variando con frequenza il proprio appellativo e quindi di volta in volta usando il cognome (privitalus), il ricordo dell'umile mestiere di famiglia (cordielaghi), oppure, ed infine, la

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