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La critica d'arte e le firme: trascrizioni, considerazioni, terminologie e valutazioni dal Cinquecento al Duemila.

I. 1. La critica d'arte e le firme moderne ed antiche.

1.1. Concetti fondamentali della letteratura artistica nei confronti della firma d'arte moderna.

In Italia, una prima attenzione alle firme d'artista da parte degli antichi biografi, dei catalogatori di collezioni, dei compilatori di guide alle città d'arte e dei simulatori dei dialoghi sull'estetica, si manifesta fin da quando questo tipo di testi si diffondono, ovvero a partire dal XVI secolo1. Fino al

Settecento, è pur vero che si tratta di un interesse poco omogeneo o di tipo selettivo; infatti, delle pitture o delle sculture di uno stesso autore, oppure delle opere appartenenti ad un unico ciclo, o raccolte in una medesima raccolta, edificio o stanza, gli scrittori non criticano, né trascrivono, e neanche citano (quantunque ci siano e siano evidenti), le firme che si trovano in ogni opera, ma soltanto alcune e, più spesso che raramente, solo una di queste (tra l'altro, non sempre la più significativa, almeno dal punto di vista critico contemporaneo).

Come da qualsiasi persona che per la prima volta posi lo sguardo su questo dettaglio, la firma è vista dagli storici e dai critici dell'arte del Cinque, Sei, Settecento e per gran parte dell'Ottocento come un marchio che è anzitutto portatore ed atto dell'identificazione dell'autore dell'opera che la contiene; spesso dell'opera eccezionale, la quale proprio per questa sua buona riuscita merita di (o addirittura, secondo la loro opinione, deve) essere firmata; inoltre, per insistere sul concetto di capolavoro irripetibile, spesso i testi moderni non mancano di decantare, ma quasi mai a ragione, che quella è l'unica opera realizzata dall'artista a contenere il suo nome.

Nel corso del Cinquecento e poi nei secoli successivi, delle saltuarie considerazioni vengono qua e là riservate ai verbi che accompagnano il nome dell'autore in una firma, soprattutto nei confronti dell'uso dell'imperfetto al posto del perfetto. D'altronde, il passaggio dal fecit/ pinxit al faciebat/

pingebat (che, come ora si dirà2, ha luogo proprio nei primi decenni del XVI secolo) fu un

fenomeno talmente diffuso e di matrice prettamente erudita e letteraria, che difficilmente avrebbe potuto passare in silenzio tra le pagine della letteratura artistica contemporanea.

Dal Cinquecento all'Ottocento vengono sporadicamente date informazioni o valutazioni sul colore, la forma o la grandezza dei caratteri delle lettere che compongono le firme; rarissima è invece l'analisi dal punto di vista iconico e significante, e del tutto ignorata risulta essere la considerazione del contributo della firma al gioco di equilibri nel bilanciamento compositivo di un'opera.

A partire dal XVII secolo la firma viene con più frequenza tipograficamente isolata nel testo che la

1 Occasionalmente delle firme d'artista vengono citate anche in testi precedenti a questo secolo, ma sono talmente rare che si è deciso di non dedicargli un capitolo della Tesi, ma solo di citarle all'occasione, nel corso dell'analisi dei testi più moderni o qua e là nei capitoli della Tesi.

cita e, di norma, in questa citazione si comincia anche a tenere in considerazione la corretta traslitterazione del corpo delle lettere della firma quando esse nell'opera sono formate da un corpo minuscolo oppure maiuscolo.

La terminologia con cui la firma e le sue componenti sono nominate e descritte nei vari testi è poco uniforme e verrà stabilizzandosi solo in epoca contemporanea. La parola cartellino ad esempio si comincerà ad usare solo a partire dal XVIII secolo e la parola firma solo dall'Ottocento3.

Con l'arrivo del Novecento e lo sviluppo e la settorializzazione della disciplina storico/critica e della ricerca in questo ambito, la firma attirerà sempre maggiore attenzione e, soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo, le verranno per la prima volta dedicati anche degli studi specifici di ampio respiro, per lo più ad opera di critici e storici d'oltralpe, francesi e tedeschi in particolare.

1.2. Panoramica sulla critica storiografica della firma d'arte antica.

Tanto quanto le firme dei manufatti moderni rivelano una dipendenza da (e un rinascimento di) quelle dei manufatti antichi4, anche l'interesse critico che nasce nel Cinquecento nei confronti della

firma può a sua volta essere considerato un rinascimento; infatti, come si è già anticipato5,

segnalazioni, trascrizioni ed osservazioni sulle firme dei pittori, scultori ed architetti, romani ma

3 Più tardo ancora, direi tardo novecentesco, l'uso del termine cartiglio, il quale, nei testi antichi, e almeno fino al XIX secolo, si trova applicato solo nell'indicazione delle lunghe strisce o fogli di carta recanti gli estratti degli scritti dei profeti, oppure nell'indicazione di motti tenuti in mano da angioletti o applicati su carri trionfali (in quest'ultimo senso il termine è ad esempio usato da Vasari nella Descrizione dell'apparato fatto in Firenze per le nozze di

Francesco De' Medici e Giovanna d'Austria [1568] -in Le opere..., cit., vol. VIII, ed. 1882, pp. 533, 570-).

L'estensione alle firme degli artisti in territorio italiano è verosimilmente dovuta al diffondersi del termine francese

cartouche, appellativo con il quale si definivano i lunghi contenitori di carta per la polvere da sparo e con il quale, a

partire dal XIX secolo, dopo il successo (almeno dal punto di vista archeologico) della famosa campagna d'Egitto di Napoleone, si cominciarono a chiamare anche i “contenitori” dei nomi geroglifici dei faraoni; per estensione, il termine venne poi esteso ai cartellini con i nomi degli artisti, i quali sono tra l'altro più compatibili con la radice del termine, cartha. Niente di meglio di una citazione dal celebre decifratore dei geroglifici, Jean-François

Champollion, per trovare una delle prime testimonianze stampate dell'uso della parola cartouche in egittologia: «[In

una stele con due personaggi] vers sa partie supérieure et derrièr la tête des deux figures, se trouvent deux de ces

encadrements elliptiques connus sous le nom de cartouches ou cartel, qui renferment torujour les prénoms et les noms propres des souverains, sur les monuments égyptiens de toutes les époques» (Lettres à M. le duc de Blacas

d'Aulps, relatives au Musée royal égyptien de Turin, 1824, p. 17); lo stesso poi nel suo studio sulla grammatica

egiziana precisa che «c'est dans l'intérieur de cet encadrament elliptique représentant, selon toute apparence, le plat d'un scarabeé ou sceau et qu'on a désigné sous le nom de cartouche, que furent inscrit le noms propres»; inoltre sempre Champollion afferma che lo stesso segno, isolato nel testo e privo di scritte interne, indica la parola “nome” in senso generale (Grammaire égyptienne, ou principes généraux de l'écriture scrée égyptienne, 1836, p. 140). Con il termine di cartiglio architettonico, a partire dalla seconda metà del XX secolo, verrà anche indicato uno spazio in basso a destra nel disegno progettuale dove l'architetto segnerà il suo nome, il soggetto del disegno, la data e altri indicazioni di volta in volta necessarie. Ancora Jaques Derrida nel suo saggio sulla verità in pittura dice che il cartiglio «non è molto diverso dal cartellino o dal cartello, anche se non può essere del tutto ridotto ad essi. Il cartellino può identificare e dare una firma al quadro, tanto nel caso faccia integralmente parte di esso, quanto nel caso venga isolato in configurazioni tipologiche molto diverse» (La verité en peinture [1978], ed. it. cons. 1981, p. 206).

4 Cfr. quanto detto supra, Seconda Introduzione, 5. 5 Ib.

soprattutto greci, già si trovano nei testi degli scrittori antichi e in particolare tra quelli redatti nei primi due secoli dopo Cristo.

Il più celebre e citato di questi testi antichi è la Naturalis Historia che Plinio il Vecchio scrisse tra il 23 e il 79 dopo Cristo, il quale durante il Rinascimento era diffuso anche nella versione in volgare tradotta da Cristoforo Landino e pubblicata proprio a Venezia, nel 14766. Delle tipologie di firma

vengono citate già nell'Epistola dedicatoria all'imperatore Tito dove ad un certo punto Plinio si premura contro le possibili critiche mosse dal lettore a proposito dei limiti e delle imperfezioni del suo ambizioso lavoro di raccolta:

...vorrei che le mie intenzioni fossero interpretate secondo l'esempio dei famosi fondatori della pittura e della scultura. Costoro, come troverai scritto in questi miei libri, compiute le loro opere, anche quelle che non ci stanchiamo mai di ammirare, le firmavano con una formula provvisoria [pendenti titulo], come «Apelle faceva» [APELLES FACIEBAT] o «Policleto faceva» [POLYCLITUS FACIEBAT], come se la loro arte fosse qualcosa di perennemente iniziato e non finito, in modo che, dinanzi alla disparità di giudizi, rimanesse all'autore la possibilità di tornare indietro, e quasi di farsi perdonare, correggendo le imperfezioni dell'opera, purché non ne fosse impedito dalla morte. È un gesto di squisita finezza firmare ogni opera come se fosse l'ultima, e come se al compimento di ciascuna li avesse strappati la morte. Si tramanda, credo, che solo tre opere furono firmate «l'autore fece» [ILLE FECIT] in modo definitivo; e ne parlerò nelle sezioni specifiche. Da ciò appare chiaro che la somma perfezione dell'arte aveva soddisfatto l'autore; e per questo motivo tutte quelle tre opere furono oggetto di grande invidia.7

Nei libri che Plinio dedica alle belle arti (XXXIII-XXXVI8), in realtà non si menzionano

esplicitamente queste firme per mezzo delle quali l'opera è dichiarata come potenzialmente

6 Historia naturale di Caio Plinio secondo tradocta di lingua latina in lingua fiorentina, 1476.

7 Naturalis Historia, (d'ora in poi N. H.), Epistola dedicatoria, 26,27. Per una maggiore scorrevolezza del testo si è deciso di proporre per questo brano la traduzione dell'edizione a cura di Antonio Corso, Rossana Mugellesi, Gianpiero Rosati del 1982, (Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, vol. I, pp. 17-19. Sempre in questa edizione si mette in evidenza il fatto che, nonostante il titolo dell'Epistola indichi Vespasiano come proprio destinatario, in realtà Plinio con questo nome indichi suo figlio Tito (ivi, p. 3). La traduzione di Landino è diversa da questa e ovviamente egli non usa il termine “firma”; per un eventuale confronto si riporta qui di seguito il brano in questione: «...accio che non paia che io al tutto perseguiti egreci, voglio essere inteso & dipinto da quegli compositori: equali tu troverai in questo libro havere con pendente titolo scripto le loro opere: benche sieno perfecte & tali che non ci possiamo satisfare di rimirarle. Chome faceva Apelle & Polycleto volendo dimostrare quelle non essere finite: accioche essendo varii egiudici: lartefice havessi questo rifugio: che se morte non visifussi interposta: lui harebbe emendato & supplito a manchamenti. Il perche echosa piena di modestia: che tutte le loro opere habbino tale titolo: che ciaschuna pare che la morte habbi tolto la perfectione. Lui fece in tutto tre opere: le quali hanno el titolo chome finite: delle quali diremo nel suo luogho. Per laqual chosa si dimostra quanto allui piacessi la somma sicurta nell'arte. Et per questo tutte quelle furono in grande invidia»

8 Una specifica edizione critica su questi libri e sugli accenni alle arti sparsi negli altri libri della Naturalis Historia è stata curata da Silvio Ferri (Plinio il Vecchio, Storia delle arti antiche, [1946], ed. cons. 2000).

incompleta9 e tanto meno v'è esplicita trascrizione di quelle sole tre opere firmate con il fecit10.

Queste ultime possono tuttavia essere evocate qua e là nei paragrafi e ad esempio in uno riguardante lo scultore Lisippo del quale si dice che «plurima ex omnibus signa fecit»11.

La prima firma evocata nella Historia in maniera più esplicita s'incontra proprio nel libro che Plinio dedica alla pittura, il XXXV; riguarda il pittore Nikias il quale scrisse, in un quadro rappresentante Nemea seduta su di un leone, il proprio nome e la tecnica adoperata per l'esecuzione, l'encausto12.

Subito dopo questa, Plinio cita un quadro di Filocrate nel quale «hoc suum opus esse testatus est»13.

Del pittore Zeusi, Plinio ricorda una firma particolare, che egli non mise nei propri dipinti, ma nei propri abiti14. Nonostante non venga segnalata la presenza del nome, come firma è possibile anche

intendere un motto di carattere intimo che Zeusi aggiunse ad un'immagine di un Atleta, di cui «tanto si compiacque, da scriverci sotto questo verso divenuto poi celebre per l'occasione: “più facile a un altro pittore invidiare che imitare”»15.

Del pittore Parrasio, contemporaneo di Zeusi, Plino non ricorda alcuna firma; ma che quest'artista amasse firmarsi, e non mediante la semplice iscrizione del proprio nome, ma per mezzo di elaborate formule in versi, è documentato nelle pagine che Ateneo di Nucrati scrisse nel III secolo dopo Cristo16; qui ad esempio si ricorda una scritta che Parrasio aggiunse ad un ritratto di Eracle dove lo

stesso dio, visitandolo in sogno, si prestò a fare da modello17.

Ancora nel testo di Plino, una firma di tipo iconografico è possibile riconoscerla nel ricordo delle linee che Apelle e Protogene avrebbero tracciato in un mitico dipinto che segnò un'originale sfida e il loro primo incontro18. Secondo la traduzione che di questi brani fece Silvio Ferri, «quella linea

[tracciata da Protogene e poco prima da Apelle] era la sua firma, il suo nome»19, per il fatto che

9 Su questa questione, già messa in luce, cfr. le osservazioni di Carlo Dati (in Vite de' pittori antichi scritte ed

illustrate da Carlo Dati [1667], ed. cons., 1806, p. 186, 291-293) poi ribadite in Johann Joachim Winkelmann, Opere, vol. III, 1832, pp. 1060-1066. Per alcuni Plinio vi avrebbe accennato in forma indiretta (cfr. su questo

Gotthold E. Lessing, Laokoon [1766], ed. it. cons. 1963, pp. 297-300).

10 Ma forse non si dovrebbe troppo rigidamente focalizzarsi su questo numero, con il quale forse Plinio intendeva solo indicare un impreciso numero esiguo.

11 N. H., XXXIV, 62.

12 Ivi, XXXV, 27. Sui modi di questa firma si trova una nota in Winkelmann, dove la si ritene inscritta in una tavoletta giustapposta al quadro (Opere, vol. III, 1832, pp. 1063-1065); su questo passo cfr. anche infra, III.11

13 Ivi, 29. Nella traduzione di S. Ferri: «Philochrates colla sua firma attesta la paternità del quadro» (Plinio il

Vecchio..., cit., 2000, p. 161).

14 N.H., XXXV, 62: «opes quoques tantas adquisivit ut in ostentationem earum Olympiae aureis litteris in palliorum tesseris intexutum nomen suum ostentaret». Nella traduzione di S. Ferri: «Mise insieme tanto denaro che, per ostentazione, a Olimpia andava mostrando il suo nome intessuto a lettere d'oro sulle tessere, o riquadri, dei suoi mantelli» (Plino il Vecchio..., cit., 2000, p. 183).

15 Ivi, pp. 183, 184 (N.H., XXXV, 63).

16 Ateneo di Nucrati, I Deipnosofisti [XII 543d,e; 544a; XV 687b], ed. cons. Luciano Canfora (a cura di), 2001, vol. III, pp. 1359, 1360, 1772.

17 Questa la formula secondo la traduzione di L. Canfora: «Quale apparve di notte, spesso giungendo/ a Parrasio in sogno, tale è costui che vedete» [544a], in ivi, p. 1360.

18 N. H., XXXV, 81-83. Per un commento a questo episodio cfr. Anne-Marie Lecoq, Apelle et Protogène: la signature-

ductus, in «Revue de l'art», 1974, n. 26, pp. 46-47.

solo loro avrebbero potuto tracciarla in quel modo: infatti, i due pittori, pur non incontrandosi nel racconto, capiscono, e soltanto guardando le reciproche linee, che hanno a che fare l'uno con l'altro. Una firma verbale viene trascritta nella Naturalis Historia nel ricordo della decorazione di un tempio dedicato a Giunone nella città di Ardea, opera del pittore Marco Plautio Loco. Essa si distingue per essere parte di una lunga formula elogiativa «scripta antiquis litteres latinis» così riportata da Plinio:

Dignis digna. Lycon picturis condecoravit Reginae Iunonis supremi coniugis templum Plautius Marcus, cluet Asia lata esse oriundus,

Quem nunc et post semper ob artem hanc Ardea laudat20

Un'altra firma su di una parete dipinta si trovava sulla parete di una ricca sala per riunioni presso il santuario di Delfi, le cosiddette Lesche dei cnidi, ed è ricordata da Pausania nel II secolo dopo Cristo. L'iscrizione, che risalirebbe al V secolo avanti Cristo, informa che «Polignoto, Tasio di origine, di Aglaofonte/ figlio, ha dipinto l'acropoli di Ilio ormai distrutta»21; secondo una tradizione

consolidata, essa non sarebbe stata elaborata dallo stesso Polignoto, ma dal poeta Simonide22. A

differenza della firma di Marco Plautio Loco, questa di Poligonto non esalta l'artista per l'opera sulla quale è posta, ma in evocazione di un'altra impresa della quale, come attesta lo stesso distico, non resta traccia.

Per ritornare alla Natualis Historia, nonostante sia il libro XXXVI ad occuparsi prevalentemente di scultura, è ancora in quello dedicato alla pittura che Plinio evoca la sua prima firma a rilievo (o incisa; di questo non vi è indicazione): si tratta di una firma particolare che attestava una collaborazione tra due scultori (ma anche pittori) greci, Damofilo e Gorgaso, la quale si trovava nella decorazione a rilievo del Tempio romano di Cerere; essa era in versi e indicava che la realizzazione della parte di destra spettava al primo di questi artisti, mentre quella di sinistra al secondo23.

Nel libro XXXVI Plinio parla di Fidia e, tra le altre cose, informa il lettore che l'artista ebbe un discepolo di nome Agorakritos, originario di Paro «caro assai al maestro anche per la sua gioventù,

20 N.H., XXXV, 115. Così la traduzione che di questa firma fa Ferri: «Lodi degne a chi ne è degno. Lykon adornò di pitture/ il tempio di Giunone regina coniuge del Supremo,/ chiamato poi Plauzio Marco; si dice nato nella grande Asia,/ ora e sempre per la sua arte Ardea lo loda» (Plinio il vecchio..., cit., 2000, p. 225). Mentre per Ferri uno dei nomi dell'artista è Loco, nella sua traslitterazione dal greco Lycon, altri sostengono che il termine “loco”

dell'epigramma, sia affatto un nome, ma vada bensì inteso come “in questo luogo” (cfr. A. Corso, R. Mugellesi, G. Rosati -a cura di-, Gaio Plinio Secondo, Storia..., cit., vol. V., pp. 419, 421).

21 Periegesi, X, 27, 4. Per la traduzione di questa iscrizione e un suo commento cfr. Cesare Lizza, Le iscrizioni nelle

Periegesi di Pausania, 2006, pp. 389-396.

22 Ivi, pp. 394-396. 23 N.H., XXXV, 154.

sicché Pheidias lasciò circolare sotto il nome dello scolaro molte delle opere sue stesse»24.

Successivamente, dello scultore «clarissimum esse per omnes gentes»25, Plinio cita la celebre statua

di Atena crisoelefantina26, ma qui stranamente egli non accenna ad (o non accetta) un'antica e

diffusa tradizione secondo la quale nello scudo lo scultore avrebbe incluso il proprio autoritratto, di fatto una firma iconica. Tale indicazione risale ad Aristotele, e quindi al IV secolo a. C., dove nel

De mundo27 egli riporta la notizia secondo la quale Fidia aveva scolpito nello scudo della dea il

proprio volto, e non solo: l'artista aveva collegato questa sua immagine ad un meccanismo per il quale, se qualcuno avesse voluto eliminare questa parte dal tutto, questi avrebbe dovuto necessariamente smontare e demolire l'intera statua della dea28. La citazione di questa firma iconica

si ritrova tre secoli dopo negli scritti di Cicerone, il quale si interroga sulla possibilità che un autoritratto possa prendere onorevolmente il posto del nome (e quindi della vera firma) dello scultore29; nel I secolo d. C. la storia della statua di Atena è accolta da Plutarco, il quale fornisce

altri dettagli sulla questione ricordando come l'effigie di Fidia (e anche quella di Pericle), fossero state da lui inglobate nella Amazzonomachia scolpita a rilievo nello scudo, e in particolare l'autoritratto dell'artista fosse riconoscibile nella figura di un vecchio calvo, ripreso mentre levava al cielo un macigno30. Che l'autoritratto di Fidia vada inteso come sostituto del nome dell'artista (e

24 Plinio il vecchio..., cit., 2000, p. 275 (N.H., XXXVI, 17) 25 N.H., XXXVI, 18.

26 Ib.

27 Il dubbio circa l'effettiva autografia di questo testo da parte di Aristotele è nota, ma la sua considerazione esula dagli interessi di questa Tesi.

28 La notizia torva conferma in Apuleio che in più l'attesta affermando d'avere personalmente visto tale

firma/autoritratto. Per questo passo e per un commento al riguardo cfr. Giovanni Reale, Abraham P. Bos, Il trattato

Sul Cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele [1974], 1996, p. 170, 171.

29 Tusculanae Disputationes, I, 15, 34: «quid enim Phidias sui similem speciem inclusit in clupeo Minervae cum inscibere non liceret?». Il senso di questo passo è comunque stato messo in discussione, ad esempio da Winckelmann, il quale suggerì che «la negativa non fosse in realtà una corruzione di nomen, e che si dovesse leggere “quum inscribere nomen liceret” giacché [a quei tempi] era permesso di incidere il proprio nome» (J. J. Winkelmann, Opere, cit.,1832, vol. III, pp. 361, 362). Così la traduzione che di questo brano ha recentemente fatto Lucia Zuccoli Clerici: «Gli artisti vogliono la fama dopo la morte. Altrimenti, perché Fidia avrebbe scolpito il suo autoritratto sullo scudo di Minerva, dal momento che non era consentito incidere il nome?» (Tuscolane, 1996, p. 93). Ancora Cicerone torna a citare il diabolico meccanismo dello scudo (ma non l'autoritratto in esso scolpito)

nell'Orator (71).

30 Plutarco, Vita di Pericle, 31, 3-5. Per delle recenti considerazioni su questo criptoritratto cfr. Massimiliano Papini,

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