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Contra le più rigide leggi dell’architettura Lettura cri tica all’interno delle teorie architettoniche e del dibattito

3. Oltre la ‘forma’

3.2 Contra le più rigide leggi dell’architettura Lettura cri tica all’interno delle teorie architettoniche e del dibattito

ideologico settecentesco

Attaccare la geometria quale matrice di forma, vuol dire in- nanzitutto attaccare il principio fondativo dell’architettura classicista, contrastare l’intelligibilità delle forma stessa, de- cretare la fine dei precetti teorici albertiani di concinnitas e di finitio. Ciò che si perde appunto in primo luogo è l’unita formale tanto ambita dall’ideale compositivo rinascimen- tale. Quell’unità che, come abbiamo visto in precedenza, era stata già messa in discussione nella planimetria del Campo mediante la semplice ‘reiterazione seriale’ di una stessa fab- brica antica.77 Tuttavia, non è tanto nei particolari che av-

viene questa perdita. Presi singolarmente gli ‘elementi’ architettonici, come abbiamo visto, rappresentano spesso un momento di continuità e di permanenza dei valori costitutivi del classicismo. Questa perdita si verifica piuttosto nel modo in cui gli stessi ‘elementi’ si dispongono all’interno di un ‘microsistema’, nell’uso della geometria come schema di aggregazione delle parti all’interno di un insieme che non è più strutturato sulla base di un principio di proporzione, bensì sulla scorta di nuovi “principi”, quale può essere la legge della contiguità.78Accade così che in uno stesso

schema non concluso la possibilità di «gemmazione» dei corpi geometrici è «teoricamente perseguibile all’infinito».79

Una scelta che determina inevitabilmente lo stravolgimento di quell’ideale di bellazza fondato su «un certo consenso, et [sulla] concordia delle parti»,80 e che comporta soprattutto

la trasgressione della regola del nihil addi, ossia di quella ri- gida prescrizione secondo la quale niente poteva essere ag- giunto o tolto ad un’architettura senza compromettere l’intera composizione.81

Se il segreto della forma – come ricorda Simmel82– consiste

nel fatto che essa è confine, cioè coincidenza tra l’Essere e il Non-più-essere, la volontà piranesiana di non rispettare il confine stabilito dalle figure geometriche, rivela il desiderio di interrompere questa coincidenza, così come la scelta di dissimulare il limite di un impianto architettonico, manifesta il bisogno di alterarne la conoscenza dell’oggetto stesso.83

L’assenza di un confine determinato e determinabile nei mi- crosistemi complessi - come il perimetro indefinito nel- l’Area Martis o il recinto d’acqua dell’Euripus nel Bustum Hadriani - fà si che ogni singolo impianto si configuri come

una entità aperta, esposta a nuove possibili aggregazioni, ancor più evidenti nei casi in cui viene disatteso il principio di simmetria attraverso piccole o grandi eccezioni. Nell’operare questo attacco, Piranesi si pone all’apice di un percorso di scomposizione sperimentale della sintassi e della grammatica del linguaggio classicista, iniziato già all’in- terno della stessa tradizione classica e, in modo particolare, nella cultura manierista e barocca. Non è un caso se le strut- ture planimetriche del Campo utilizzino come fonti di rife- rimento opere o progetti di autori quali Peruzzi, Montano o lo stesso Borromini. Autori - ricorda Franco Borsi - che ap- partengono ad «un filone del tutto diverso dall’asse Palla- dio-Scamozzi», essendo contraddistinti da «un atteggiamento verso la classicità inteso a trovare in essa le fonti dell’eccezione piuttosto che della regola».84 Se è Mon-

tano infatti il precursore diretto dei ludi combinatori, è a Pe- ruzzi, in particolare, che si devono le prime contestazioni dei modelli spaziali canonici sulla base di «modulazioni ela- stiche» o attraverso «lo scontro di antitetiche matrici for- mali», o per mezzo della stessa «aggregazione paratattica e discontinua di spazi geometrici complessi», tanto cara anche a Guarini.85

Questo genere di influenze può essere letta certamente al- l’interno del revival neocinquecentesco manifestatosi in- torno agli anni ’40 e’50 del Settecento, nella corrente anticlassica e neomanierista.86Ma in nessuno degli autori

assunti come modello, né tantomeno nelle nuove trascrizioni prodotte dal neostile, la critica al codice classico era stata tanto sfrontata da raggiungere i livelli della visione pirane- siana. L’architetto veneziano in effetti è il solo ad attaccare le fondamenta stesse del linguaggio codificato, a demolirle attraverso la dissoluzione della geometria quale strumento di scrittura dello spazio.

Nella planimetria del Campo, Piranesi sceglie cioè di ope- rare a livello icnografico la medesima critica al concetto di spazio messa in atto già nelle rappresentazioni prospettiche delle Carceri, l’altra opera visionaria di produzione giova- nile, (1745), rielaborata in età matura e pubblicata - non a caso - intorno al 1760, ossia proprio negli anni in cui il no- stro stava lavorando alla redazione del Campo Marzio. In quella circostanza il metodo compositivo utilizzato dall’ar- tista si era basato principalmente sulla volontà di rompere e scardinare le leggi della prospettiva centrale attraverso il su- peramento dei limiti imposti dalla geometria euclidea, non

più vista come l’unica soluzione possibile per la definizione dello spazio architettonico.87

Vale la pena evidenziare come, anche nel caso delle Carceri, sia stata l’analisi grafica a suggerire queste conclusioni. Sono infatti le restituzioni prospettiche eseguite da Ulya Vogt-Goknil a dimostrare che le vedute di questi spazi di prigionia sono spesso originate da impianti planimetrici do- minati unicamente dalla «casualità degli episodi», dall’ac- costamento e dalla giustapposizione di elementi architettonici che in qualche caso producono nell’immagine uno spazio che sembra reale ma che nella realtà non po- trebbe esistere.88Si prenda per tutti il caso della Tav. XIV,

dove la negazione del V postulato di Euclide, da luogo ad un’illusione ottica, alimentata da un falso parallelismo di strutture portanti che improvvisamente diventano compla- nari (fig. 168).89Ed è proprio in queste operazioni grafiche

che, secondo la letteratura critica, risiederebbe la volontà pi- ranesiana di una «potenziale liberazione della forma e dalla forma», garantita dall’«aprirsi indefinito degli spazi, montati l’uno dentro l’altro», dalla loro «moltiplicazione», dalla loro «disartcolazione» e «metamorfosi».90

L’analogia con il Campo Marzio diviene ancora più evidente nella rielaborazione matura delle Carceri se si analizza il modo in cui si dispongono gli elementi nello spazio della rappresentazione. Ambienti dalle dimensioni gigantesche sono affollati dalla presenza di oggetti (anche non architet- tonici), ‘accumulati’ e ‘reiterati’ su scale di grandezza di- versa, disposti secondo direzioni indipendenti e su differenti livelli di posa.91Elementi quali pilastri, archi, murature, ac-

comunati esclusivamente dal materiale lapideo, sembrano entrare in contrasto con partizioni secondarie e temporanee, distinte adesso in strutture lignee, come passerelle e travi (composte in tralicci ma anche isolate), o in componenti me- tallici, catene, funi, ringhiere e altri marchingegni.92A queste

categorie sembrano aggiungersi, come fossero anch’essi ‘elementi’ di un ‘macrosistema’, non solo le iscrizioni ma le stesse figure umane. Nell’Icnografia accade qualcosa di simile per alcune iscrizioni toponomastiche: la frammenta- zione è tale che le singole lettere sembrano disporsi sul Campo in maniera indipendente quasi fossero semplice- mente pescate dall’alfabeto e dunque per nulla intente a for- mare una frase intera o un nome.

Come nella planimetria del Campo, gli elementi che mate- rializzano lo spazio delle Carceri, tendono al contempo alla

168/ Tav. XIV delle Carceri – restituzione di Ulya Vogt-Goknil

sua frammentazione, attraverso uno scontro intento a spez- zare «ogni vincolo che li teneva insieme».93 A scomparire

anche in questo caso è il concetto di spazio unitario e inte- grale, sconvolto appunto dall’indipendenza delle parti al- l’interno di una realtà disordinata.

Agli occhi di Sergej Ejzenstejn le forme dell’incisione pira- nesiana appaiono fluide,94diluite secondo un movimento po-

tenzale che in atto è raggelato artificiosamente dalla staticità dell’immagine. È come se vi fosse cioè nella composizione delle Carceri una tensione alla liberazione dalla forma insita negli oggetti stessi, che purtuttavia risultano ancora vittime della resistenza delle forme.95Con estremo acume, nel suo

saggio su Piranesi, il regista russo osserva come esista nel- l’opera del veneziano un singolare contrasto: «alla crisi dell’oggetto, clamorosamente denunciata dall’incisore set-

tecentesco nelle sue distorsioni e compenetrazioni spaziali, corrisponde una conservazione del carattere figurativo dei singoli elementi».96Immaginando idealmente di operare una

liberazione da questa resistenza, attraverso l’innesco di que- sto moto potenziale in un’esplosione totale dell’immagine - «una trasfigurazione estatica» come la chiama Ejzenstejn - l’oggettualità figurativa degli elementi continuerebbe ad es- sere mantenuta: «la pietra si è spostata dalla pietra ma ha conservato la propria oggettualità figurativa di pietra».97

Nelle Carceri, in effetti, ad andare in frantumi - oltre all’uni- tarietà spaziale della composizione - è solo il mezzo espres- sivo. La linea che definisce gli elementi «si è suddivisa in una cascata di minuscoli segmenti», mentre «la precisione dei contorni viene assorbita nei fluidi contorni della forma». È evidente tuttavia per il regista la volontà piranesiana di andare oltre questa de-costruzione. Estremizzando infatti le sue parole, Tafuri osserva come l’incisore veneziano decida di «sconvolge[re] le cose e l’ordine, non potendo attaccare direttamente l’ordine delle cose».98 Decisione che contrasta

ancora la posizione di Leon Battista Alberti: «tutte queste cose […] saranno cose inette, se nel comporle insieme non si userà ordine, et modo più che diligente, … non interpo- nendo cosa alcuna che perturbi, ò le cose, ò gli ordini».99

«È ormai chiaro – osserva lo stesso Ejzenstejn – quale sarà (o sarebbe stato) il passo successivo». Bisognava distrug- gere l’oggettualità! Un’azione estrema di un processo crea- tivo che sarà portata a compimento da altri artisti in epoche successive: «un primo salto oltre i limiti della configura- zione esatta degli oggetti, verso il gioco delle forme geome- triche che li compongono, ed ecco davanti a noi Cézanne […]. Un altro passo avanti, e abbiamo il Picasso degli anni d’oro. L’oggetto pretesto è già scomparso».100

È questo un altro aspetto in cui il Campo Marzio trova an- cora delle affinità sostanziali con le Carceri. Nell’opera del ’62, sebbene l’attacco sia sferrato direttamente alla geome- tria, ossia alla struttura sottesa che definisce la con-forma- zione delle singole architetture, l’ordine delle cose permane comunque inalterato: il quadrato è sempre un quadrato e non il risultato della sua deformazione, per quanto di questo si conservino solo le relazioni tra gli angoli o alcuni lati. E ciò vale per tutti gli altri poligoni (perfino nei casi estremi), siano essi impiegati come schemi o piuttosto come classiche figure piane per definire uno spazio. Sarà piuttosto l’Archi- tettura del Novecento – similmente alle avanguardie pitto-

riche – a portare a termine tale compito attraverso la de-co- struzione sistematica della geometria piana.

Resta forte in generale nell’Icnografia l’attrazione per la forma, la sua resistenza, garantita dalla resistenza che op- pone la geometria. La stessa ricerca di nuove forme, di nuovi poligoni irregolari, scaturisce infatti dalla combinazione di figure regolari e non dalla loro distorsione. Si pensi ad esem- pio al perimetro dell’Area Martis o alla Naumachia Neronis che, come si è detto, sono il risultato di processi di ‘sovrap- posizione’ e ‘traslazione’ di geometrie codificate.

Sia nel Campo Marzio che nelle Carceri la critica anticlas- sica è comunque radicale: è l’ordo Umanistico che andava contestato. L’ideale di totalità, di universalità, di perfezione è solo un’illusione che va smascherata e denunciata. Il Tempo presto avrebbe distrutto l’integrità spaziale delle ar- chitetture classiche, senza alcun rispetto per la compiutezza, la simmetria e la proporzione con cui le singole parti si di- sponevano armonicamente in un insieme. Il punto di vista del ‘Piranesi archeologo’ non lasciava altra scelta allo sguardo dell’‘architetto’ che seguire la lezione appresa dalle rovine. Il rudere assurgeva in tal modo a valore di monu- mentum, divenendo un monito da ascoltare con attenzione. Purini a tal proposito osserva – con le parole di Simmel – come la condizione di rovina sia in fondo piuttosto una con- dizione di quiete, ottenuta dopo un lungo lavoro di resistenza delle parti alla totale dissoluzione, quasi che il disfacimento di un’opera architettonica possa considerarsi in qualche modo il suo stesso compimento. Una visione simile a quella di Vittorio Ugo, che (forse sulla scia dello stesso Simmel) concepiva il frammento come «un elemento traumatica- mente parziale, irrimediabilmente “rotto” (fractum) strap- pato o sopravvissuto all’insieme unitario che lo comprendeva, secondo una linea di frattura solitamente ca- suale, seguendo un processo di decostruzione non simme- tricamente inverso a quello costruttivo».101

Se nelle Carceri dunque la presenza evidente della IV di- mensione, garantita dalla “simultaneità di diversi punti di vista”, sottolineava lo spostamento ideale dell’osservatore nello spazio - aspetto quest’ultimo che in qualche modo può essere considerato un’anticipazione delle composizioni cu- biste - nel Campo Marzio, il ‘movimento potenziale’ delle cose sta ad indicare semmi l’effetto del Tempo sull’archi- tettura. Non in termini di corrosione o degradazione della materia, quanto piuttosto nel senso di dissolvimento delle

forme, di trans-formazione. Un processo che solitamente è determinato dal consumarsi della vita, ma che Piranesi sce- glie di contemplare e di far proprio già in fase di progetta- zione, proprio per con-ponere con il Tempo: lo Spazio è dunque “funzione” del Tempo. Dipende dal suo trascorrere. Caratteristica questa che contraddistingue nettamente l’in- cisore settecentesco dal filone manierista.102

Il nuovo metodo concepisce la composizione come assem- blaggio di parti distinte, di un tutto ormai assente. Si com- prende meglio allora la ragione per cui gli impianti del Campo siano il frutto di azioni distruttrici che danno luogo a “opere frammentarie”, “aperte”, connotate dalla coinci- denza tra spazi interni ed esterni. Come nelle Carceri. Am- bienti al comtempo limitati e illimitati, dove il senso di costrizione è dato dall’infinitezza dello spazio più che dalla sua assenza.

La Geometria, la Tipologia, l’Iconologia, la Storia stessa di- ventano materiale discontinuo con cui poter progettare. Gli ingredienti da utilizzare dipendono solo dallo sguardo che si assume nell’atto della composizione. Sarà l’‘architetto’, l’‘archeologo’, l’‘artista’, lo ‘storico’ a decidere pertanto l’esito del ‘montaggio’.

Da logico, il linguaggio diventa inevitabilmente retorico. Il frammento, qualunque sia il genere a cui appartiene, assume lo stesso valore simbolico che hanno le parole nel linguaggio figurativo, utilizzate ad esempio secondo criteri quali lo ‘spostamento’, la ‘citazione’, l’’accumulazione’, la ‘sined- doche’ o la ‘metonimia’. Pur restando cioè «fatalmente de- contestualizzato», esso è «denso di allusioni e di riferimenti, tutti impliciti, registrati e “condensati” in quella frattura ir- regolare», che conserva «una sorta di memoria del tutto».103

Così accade per i frantumi di geometria. Attraverso i lati re- sidui di un poligono, o per mezzo degli angoli - espressi se- condo le succitate leggi triadiche - è ancora possibile risalire alla figura geometrica di base nonostante questa si sia dis- solta.

Le stesse ‘ibridazioni tipologiche’, di cui si è detto analiz- zando i singoli complessi del Campo, non sono altro in fondo che montaggi di pezzi architettonici di cui si conserva soltanto una lontana memoria dell’idea di tipologia come istanza di ordinamento superiore, sebbene nei nuovi im- pianti non sussista più alcuna peculiarità univoca che possa ricondurli ad un tipo prestabilito.

È questo un altro colpo inferto alla Teoria classicista, che

vedeva nel tipo «il primo carattere distintivo», ciò che per- mette di «riconoscere a ogni genere di edificio una propria identità rappresentata con elementi fissi e ripetuti, appunto con elementi tipizzati».104

Frammenti di teatri, circhi, templi, portici, sepolcri sono an- cora riconoscibili come parti e, come tali, possono essere ri-composte secondo nuove disposizioni, spesso attraverso ‘sovrapposizioni’. I differenti piani di posa con cui si dispo- nevano gli elementi nelle Carceri, diventano ora nel Campo Marzio vere e proprie ‘stratificazioni semantiche’ poste sullo stesso “piano”, come stratificati sono i resti scoperti a se- guito degli scavi.

Ma c’è un altro aspetto, oltre al concetto di Tempo, che il Rinascimento deve aver decisamente sottovalutato e che agli occhi attenti di Piranesi appare invece estremamente impor- tante, anche perché più vicino al suo tempo. Come osserva Tafuri: «l’architettura puo’ anche sforzarsi di mantenere una compiutezza che la preservi dalla totale dissoluzione. Ma quello sforzo e’ vanificato dall’assemblaggio dei pezzi ar- chitettonici nella citta’».105La disposizione casuale degli im-

pianti nell’area del Campo, queste sovrapposizioni di fabbriche, la compenetrazione sfrenata di oggetti, questo scontro di elementi l’uno contro l’altro, non fanno altro che stravolgere l’idea di «città come luogo della forma», attac- cando insieme inevitabilmente l’idea di centro.106 La lotta

tra Architettura e Città assume così un valore profetico, il presagio di ciò che in effetti accadrà nella gestione capitali- stico-borghese della realtà urbana.107E in questo la rappre-

sentazione piranesiana, più che suggerire una critica, denuncia un disfacimento che - seppur in maniera embrio- nale – è già in atto. Come i diversi interessi della nascente società, ogni architettura si dispone nel Campo secondo una direzione differente, spesso del tutto indipendente dalle altre, con una libertà dissimile dall’autonomia assunta nel corso della storia dalle distinte maglie stratigrafiche della città, perché espletata nello stesso tempo.

Svanisce così, insieme alla forma definita dell’oggetto ar- chitettonico, la concezione mitica rinascimentale della città come architettura - la «grande casa» della visione alber- tiana108 – che, come tale, doveva essere necessariamente

ordinata e conclusa. Con la sua estensione e la disposizione irregolare delle sue architetture, il Campo Marzio infrange definitivamente la “Forma urbana” della Roma antica, pe- raltro non ricomponibile attraverso i veri pezzi della pianta

delle recenti speculazioni filosofiche e delle scoperte scien- tifiche del tempo. A ragione, Alberto Cuomo osserva come l’Icnografia piranesiana possa considerarsi a tutti gli effetti l’esito figurativo delle nuove teorie newtoniane sullo spazio assoluto, di uno spazio che viene distinto da quello relativo. Una concezione che determina un superamento del concetto di spazio aristotelico, inteso come «epifania del costruito».110

Per Newton, e di conseguenza per Piranesi, lo spazio (al- meno quello assoluto), è del tutto indipendente dai corpi e dagli oggetti, e si caratterizza piuttosto come un elemento fisico, «un vuoto indefinito», dove semmai sono i corpi e gli oggetti a gravitare secondo le specifiche proprietà gravi- tazionali.111

Più volte, la letteratura critica ha evidenziato l’accostamento tra l’artista veneziano e il matematico inglese, sottolineando tra gli interessi comuni una vicinanza ai circoli della mas- soneria e l’attenzione e lo studio dell’alchimia. L’influenza esercitata dallo scienziato sull’artista vantava tra l’altro mol- teplici possibilità di contatto. Sia in ambito veneziano, si pensi ad esempio all’opera dell’Algarotti, Il Newtonismo spiegato alle dame (1737), sia nella cerchia delle relazioni romane, ed in particolare all’eredità lasciata in città da Fran- cesco Bianchini, una figura che certamente era vicina a Newton.112Di recente poi la stessa opera Caduta di Fetonte

- la trasposizione allegorica del tema delle origini italiche dell’arte romana - è stata interpretata come l’Apoteosi di Isac Newton, o come rappresentazione del Primato dei Prin- cipi di Newton sul sapere antico.113Tuttavia, è un enunciato

tra le Hypoteses newtoniane, che più di ogni altro aspetto, sembra suggellare a nostro avviso l’identificazione delle im- magini piranesiane alle teorie del matematico. «Ogni corpo – scrive Newton – può trasformarsi in un altro, di qualsiasi tipo, e ogni grado qualitativo intermedio può successiva mente prodursi in esso».114Sembra quasi di leggere un com-

mento agli impianti dell’Icnografia, ai diversi stadi di trans- formazione delle architetture presenti del Campo, distinte gradualmente in funzione del livello di scomposizione della geometria.

Questo criterio di ‘transformabilità’ dei corpi, di chiara ascendenza alchimistica, trova applicazione in matematica nelle leggi del calcolo combintorio, nel criterio delle ‘per- mutazioni’, che prevede sia la ‘ripetizione’ semplice o ci- clica dei componenti, sia la ‘commutazione’, cioè lo scambio dell’ordine di successione di due o più elementi di

169/ Tav. I delle Diverse Maniere

severiana. Le innumerevoli fabbriche piranesiane si esten- dono indifferenti oltre i limiti stabiliti dal recinto delle mura urbiche, spezzando per sempre il «cerchio magico», l’anello perimetrale che rappresentava la manifestazione divina e che definiva lo spazio rinascimentale come uno spazio in-