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LA CONVENZIONE UNESCO DEL 2001 SULLA PROTEZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE

SUBACQUEO

MARIA ROSARIA CALAMITA

SOMMARIO: 1. La protezione del patrimonio culturale sommerso prima della Convenzione del 2001. – 2. L’oggetto e i principi della Convenzione UNESCO del 2001. – 3. La giurisdizione dello Stato in materia di beni culturali sottomarini. – 4. Le funzioni di controllo e le sanzioni. – 5. Gli organi competenti. – 6. La soluzione delle controversie. – 7. L’adesione alla Convenzione e la sua denuncia. – 8. La ratifica della Convenzione del 2001 in Italia. – 9. Il caso del Banko Skerki.

1. La tutela e la conservazione dei reperti archeologici presenti sul fondale marino costituiscono degli obiettivi fondamentali per l’intera comunità internazionale, il cui raggiungimento non può che fondarsi su una stretta cooperazione tra gli Stati1. E infatti, a livello pattizio, i primi riferimenti normativi a riguardo sono individuabili nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, conosciuta anche come Convenzione di Montego Bay2, dal nome del luogo in cui venne conclusa nel 1982. Essa costituisce una sorta di “normativa- quadro” che lascia ampio spazio al raggiungimento di ulteriori intese in materie specifiche, proprio come nel caso della tutela del patrimonio sottomarino, al quale, però, sono dedicati unicamente gli artt. 149 e 303 relativi ai reperti rinvenuti in mare, disposizioni da sempre ritenute insoddisfacenti e sin troppo generiche al fine di raggiungere lo scopo3 . Più nello specifico, l’art. 149, Reperti

archeologici e storici, afferma che tutti i reperti di valore storico e

archeologico rinvenuti in mare devono essere conservati o ceduti a favore dell’umanità intera, tenuti presenti i cosiddetti “diritti

1 A tal proposito cfr. CONFORTI, Diritto internazionale, X ed., 2017, p. 319 ss. 2 Detta anche Convenzione UNCLOS, dall’acronimo inglese United Nations

Convention on the Law of the Sea, tale accordo è volto a codificare le norme

generali, ben 320 articoli, sul diritto del mare. Ratificata ed entrata in vigore in 167 Paesi, tra cui l’Italia, essa ha ad oggetto la regolamentazione delle attività connesse al commercio e alla pesca, nonché quelle relative allo sfruttamento delle risorse naturali nei fondali marini e, sebbene in maniera del tutto generica e insufficiente, alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale.

3 V., per tutti, e per ulteriori riferimenti bibliografici, FOCARELLI, Trattato di diritto

preferenziali” degli Stati alla cui cultura storico-archeologica si riferiscono. L’art. 303, invece, Oggetti archeologici e storici scoperti

in mare, sancisce l’obbligo di tutela, da parte degli Stati, dei reperti

scoperti in mare e la possibilità di intervento al fine di contrastare la rimozione e il commercio illegale degli stessi.

Ora, sebbene gli obblighi di tutela e cooperazione tra gli Stati non trovino uno specifico approfondimento nella Convenzione UNCLOS, è evidente come quello di protezione sancisca l’illiceità dell’eventuale azione di danneggiamento o di distruzione del bene. La necessità di una cooperazione tra gli Stati, invece, funzionale al fine di garantire l’obbligo di protezione, era già al centro della Convenzione sul Patrimonio Mondiale Culturale e Naturale del 1972, in cui si afferma l’appartenenza del patrimonio culturale a tutta l’umanità e non al singolo Stato. In questo modo, i governi dell’epoca espressero la volontà di superare le ideologie connesse alla esaltazione della supremazia culturale di uno Stato, anche al fine di riconoscere a tutte le culture pari dignità, in una visione che considera ognuna di esse come parte integrante della storia di tutti i popoli. Questa teoria universalistica è stata poi trasfusa nella Convenzione, elaborata in seno all’UNESCO, sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo del 20014. L’attuale disciplina, infatti, è il frutto di un lento percorso, prima avvenuto all’interno degli Stati e, poi, a livello internazionale. Tale percorso ha conosciuto, in tempi più recenti, una forte accelerazione a causa dell’evoluzione tecnologica che se, da un lato, ha consentito una più agevole rimozione dai fondali marini dei reperti archeologici, dall’altro, ha favorito l’intensificarsi delle operazioni illegali di depredamento degli stessi da parte dei “cacciatori” di reperti e del loro traffico, con grave ed evidente danno alla ricostruzione storico-archeologica5. Questa situazione ha lasciato emergere, con sempre maggior evidenza, la necessità di individuare norme comuni volte a regolare il recupero subacqueo, business tra l’altro favorito anche dell’antico convincimento in base al quale i reperti custoditi nelle profondità del mare sono da considerarsi res

4 Adottata il 2 novembre 2001 ed entrata in vigore il 2 gennaio 2009, 2562 UNTS 3.

Tale Convenzione UNESCO ha attualmente 61 Stati parte.

5 Per approfondimenti sul tema si rimanda a AZNAR GÒEZ, Treasure Hunters,

Sunken State Vessels and the 2001 UNESCO Convention on the Protection of Underwater Cultural Heritage, in IJMCL, vol. 25, 2010, n. 2, p. 209 ss.

nullius6. Il ruolo dell’UNESCO, in questo ambito, si è dimostrato

fondamentale: basti pensare che il primo riferimento, da parte di quest’ultima organizzazione, all’archeologia subacquea risulta già da una raccomandazione adottata a Nuova Delhi nel 1956 (Recommendation on International Principles Applicable to

Archaeological Excavations), in cui venivano definiti taluni principi

di carattere internazionale, con particolare riguardo alle modalità di rilascio delle concessioni per gli scavi. Come noto, le raccomandazioni delle organizzazioni internazionali hanno mero valore esortativo e, dunque, non vincolano gli Stati. Si sottolinea, però, che, nel caso specifico delle raccomandazioni dell’UNESCO, le parti contraenti sono tenute a sottoporle agli organi nazionali competenti, affinché possano essere adottate tutte le misure idonee a conformarsi ad esse, pur rimanendo libere di decidere se attuare o meno dette raccomandazioni 7 . Non può, quindi, non essere sottolineato come l’eventuale scelta politica di non dare seguito a tali atti dell’UNESCO, attentamente elaborati nella più autorevole sede multilaterale, non potrebbe certo essere suscettibile di valutazione positiva.

È importante ricordare anche il cosiddetto Rapporto Roper8, (dal

nome del suo rapporteur, John Roper) del 1978, elaborato in seno al Consiglio d’Europa, con riferimento allo stato del trafugamento dei reperti sommersi, e a sua volta posto a base della redazione della

Convenzione europea sul patrimonio culturale subacqueo 9 che,

6 In questo senso v. LO VULLO, La tutela giuridica del patrimonio archeologico

sottomarino tra normativa interna ed internazionale, in Tutela patrimonio culturale traffico illecito del patrimonio archeologico e internazionalizzazione del fenomeno e problematiche di contrasto, Atti del VII Convegno Internazionale Roma, 25- 28

giugno 2000, p. 277.

7 V. LANZARO, I beni archeologici e storici sommersi, in Legislazione

internazionale e comunitaria dei beni culturali (a cura di PAGANO, ALBANO, LANZARO, PECORARO), Napoli, 2005, p. 211.

8 V. Parliamentary Assembly of the Council of Europe, The Underwater Cultural

Heritage: Report of the Committee on Culture and Education (Rapporteur: Mr John Roper), doc. 4200-E, Strasbourg, 1978 (disponibile al seguente indirizzo:

http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-DocDetails-

EN.asp?FileID=4425&lang=EN). Per approfondimenti critici, invece, si rimanda a Per approfondimenti si rimanda a DROMGOOLE, Underwater Cultural Heritage and

International Law, Cambridge, 2013, par. 2.2 (e-book).

9 European Convention on the Protection of the Underwater Cultural Heritage

sebbene mai entrata in vigore, costituì un primo passo verso la sensibilizzazione degli Stati, quantomeno a livello regionale, circa la necessità di elaborare una politica di protezione condivisa dei reperti sottomarini.

2. La Convenzione del 200110, detta anche Convenzione di Parigi, consta di un preambolo, seguito da 35 articoli, cui fa seguito un allegato (Rules Concerning Activities Directed at Underwater

Cultural Heritage)11, composto a sua volta da 36 “regole”, costituenti parte integrante dell’Accordo, così come previsto all’art. 33 dello stesso. L’allegato può essere considerato alla stregua di un manuale operativo per la conservazione e la protezione dei beni sottomarini; in esso vengono descritte le modalità di elaborazione dei progetti di intervento nei siti di interesse (regole 9-16), il loro finanziamento (regole 17-19), la loro calendarizzazione (regole 20-21) e la relativa documentazione (regole 26-27). Pur risultando il prodotto di numerosi compromessi tra posizioni e interessi divergenti, la Convenzione de

qua elabora un sistema completo e potenzialmente efficace di

protezione, in grado di colmare le lacune della Convenzione di Montego Bay, nonostante restino escluse «le questioni di diritto privato, dando priorità ad un regime di diritto pubblico»12.

10 Sulla Convenzione del 2001 v. CARDUCCI, New developments in the Law of the

Sea: the UNESCO Convention on the Protection of the UCH, in AJIL, 2002, p. 419

ss.; FORREST, A New International Regime for the Protection of the UCH, in ILM, 2002, p. 37 ss.; DROMGOOLE, 2001 UNESCO Convention on the Protection of the

Underwater Cultural Heritage: Process, 5th World Archaeological Congress,

Catholic University of America, Washington D.C.; 21-26 June 2003.

11 L’importanza di questo allegato, nel corso del tempo, ha superato le aspettative,

finendo con il costituire uno strumento di raccordo e, soprattutto, di armonizzazione tra le normative nazionali degli Stati, soprattutto in carenza di una legislazione volta a sanzionare i “cacciatori” di tesori, fino a diventare, per così dire, una sorta di “codice operativo dell’archeologia subacquea”. Molti Paesi, infatti, proprio in virtù della completezza e del carattere immediatamente precettivo delle regole ivi contenute, si sono dimostrati favorevoli ad una sua autonoma applicazione, anche in assenza della ratifica della Convenzione di cui l’allegato è parte. Il carattere “cogente” delle regole ivi sancite è ancora più evidente se si considera il fatto che anche talune persone giuridiche lo hanno applicato: si pensi alla società statunitense

Odyssey Marine Exploration impegnata nella ricerca di relitti sommersi, la quale,

però, vi si è adeguata al solo fine di evitare eventuali sanzioni nel corso delle proprie attività (così STEMM, Where do we go from here?, in UM, 2001, p. 3).

Secondo quanto previsto dall’art. 1, perché un bene possa considerarsi come facente parte del patrimonio culturale sottomarino è necessaria la presenza di una evidente connessione con l’esistenza umana («all traces of human existence having a cultural, historical or

archaeological character») e il rispetto di un criterio temporale, in

base al quale l’oggetto immerso deve aver trascorso una permanenza minima di cento anni nei fondali. Questa definizione, però, non pregiudica la possibilità di considerare come facenti parte di suddetto patrimonio anche quei beni che, pur non soddisfacendo il criterio temporale, risultino comunque meritevoli di tutela (si pensi, ad esempio, ai relitti delle navi risalenti alla Seconda guerra mondiale)13. Il principio di cooperazione tra gli Stati trova una sua compiuta formulazione all’art. 2, in cui viene definito come un obbligo imprescindibile per le Parti contraenti. L’art. 19, invece, si occupa di descrivere i termini di tale cooperazione, coprendo tutte le fasi di gestione del patrimonio sottomarino, dalla scoperta alla valorizzazione dello stesso. Il suo par. 1, ad esempio, raccomanda la collaborazione nel quadro della esplorazione, degli scavi, della documentazione, della preservazione, dello studio e della valorizzazione dei beni culturali sottomarini, nonché, ai sensi dell’art. 21, nella formazione in archeologia subacquea e nel trasferimento di tecnologie nel campo della valorizzazione e conservazione. La cooperazione, infatti, a norma del successivo par. 2, consiste nella condivisione delle informazioni relative non solo all’ubicazione e alla natura delle scoperte archeologiche effettuate, ma anche a quella delle tecniche e dei metodi scientifici di recupero e repertamento, nonché all’evoluzione del diritto applicabile a questo patrimonio14. Infine, in

13 Rientrano, pertanto, in questa definizione, siti, strutture, edifici, manufatti, resti

umani, navi, aerei e altri veicoli affondati con il loro carico, oggetti preistorici, ciascuno insieme al contesto archeologico e naturale di ritrovamento.

14 Le informazioni summenzionate, però, ai sensi del par. 3 dell’art. 19, sempre al

fine di non causare un incremento delle azioni illecite volte al trafugamento di detti beni, restano confidenziali e sono comunicate solo alle autorità competenti degli Stati contraenti, fintanto che la loro divulgazione può costituire un rischio per la preservazione del patrimonio culturale sottomarino. È pertanto evidente, in questo passaggio, il tentativo di effettuare un bilanciamento tra interessi contrastanti: da un lato, la necessità di divulgare le informazioni relative ai ritrovamenti a favore dell’intera Comunità internazionale; dall’altro, quella di evitare che tale diffusione possa fornire ai “cacciatori” di tesori le informazioni necessarie al trafugamento dei beni che si cerca, invece, di salvaguardare.

base alla regola 8 dell’allegato, gli Stati devono impegnarsi nella promozione di scambi fruttuosi di archeologi e specialisti in altre discipline al fine di utilizzarne al meglio le competenze.

Proseguendo, l’art. 2 afferma che la protezione in situ 15

dell’oggetto rinvenuto deve avvenire nell’interesse dell’umanità («for the benefit of humanity»); al “principio di appartenenza all’umanità” si collega la promozione della conoscenza dei reperti sottomarini al grande pubblico, di cui all’art. 20 della Convenzione e alle regole 35 e 36 dell’Allegato. In essi si esprime la necessità di promuovere, quanto più possibile, azioni educative volte alla divulgazione dei risultati ottenuti dalla ricerca. La preferenza per la conservazione in situ, connessa all’esigenza di preservare il bene archeologico dalla possibilità di deterioramento, è espressa anche alla regola 1 dell’Allegato, in cui viene definita come «l’opzione prioritaria», e alla regola 24, relativa alla preservazione e gestione del sito16.

L’art. 3, che costituisce una “clausola di raccordo”, da un lato, tra la Convenzione di Parigi e il diritto internazionale generale e, dall’altro, tra la stessa e la Convenzione UNCLOS, afferma che l’interpretazione e l’applicazione delle norme concernenti i beni culturali sottomarini devono avvenire conformemente agli altri principi regolanti il diritto del mare. Quest’ultimo articolo va altresì letto in combinato disposto con il successivo art. 6, il quale incoraggia gli Stati a sottoscrivere ulteriori accordi, a carattere bilaterale, regionale e multilaterale, nonché a sviluppare quelli già esistenti, al

15 Il riferimento è al par. 5 del medesimo articolo, in cui si afferma che «The

preservation in situ of underwater cultural heritage shall be considered as the first option before allowing or engaging in any activities directed at this heritage».

16 Il deterioramento dei beni sottomarini è infatti dovuto all’esposizione all’ossigeno

e, conseguentemente, al brusco cambio d’ambiente causato dal loro trasporto in superficie. Per questo, tale attività deve seguire tutte le precauzioni del caso e gli standard professionali in vigore, al fine di non causare danni irreversibili. L’acqua, al contrario, permette una buona conservazione del bene proprio per l’assenza di ossigeno, senza considerare il fatto che la preservazione di un oggetto recuperato dalle acque è particolarmente complessa, costosa e comporta un elevato rischio di danneggiamento (v. FRIGERIO, L'entrata in vigore in Italia della Convenzione

UNESCO 2001 sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, in Aedon, n. 2,

2010, disponibile su www.aedon.mulino.it.) Basti pensare al caso di taluni materiali organici, come il legno: l’immersione nei fondali marini per lungo tempo è causa di una profonda imbibizione; l’eventuale essiccamento comporterebbe una drastica riduzione del volume, dovuta ad un afflosciamento cellulare, con conseguente perdita del reperto.

fine di rinforzare la cooperazione in materia di conservazione del patrimonio culturale sottomarino, purché ciò avvenga in conformità con quanto disposto nella Convenzione17.

Infine, con riguardo alle attività poste in essere nei fondali marini e incidenti sul patrimonio culturale ivi insistente, gli artt. 4 e 5 si occupano, il primo, delle attività di salvage law e law of find18, il secondo, delle attività cosiddette “incidentali”. Più nello specifico, ai sensi dell’art. 4, sia la salvage law che la law of finds sono escluse dall’ambito di applicazione della Convenzione, salvo che il recupero non sia autorizzato dalle Autorità competenti di cui al successivo art. 22, risulti pienamente conforme sia alla Convenzione che all’Allegato e venga assicurata la massima protezione del patrimonio.

3. La sovranità dello Stato si estende sia alle acque interne che a quella zona di mare adiacente alle coste denominata mare territoriale, in cui lo Stato, pertanto, mantiene integre tutte le sue prerogative e tutti i suoi poteri19. In materia di beni culturali, ai sensi dell’art. 7 della

Convenzione del 2001, ogni Stato mantiene il diritto di regolare e autorizzare le attività connesse al recupero del patrimonio sottomarino nelle acque territoriali, purché ciò avvenga nel rispetto delle norme internazionali. Nel caso in cui, invece, una nave battente bandiera di un terzo Stato individui nelle acque territoriali di un altro reperti di valore, nel rispetto del principio di cooperazione e secondo una pratica generalmente adottata a livello internazionale, deve informare lo Stato

17 Tali clausole ripropongono quanto previsto ai sensi dell’art. 303 par. 4 della

Convenzione di Montego Bay, in base al quale «il presente articolo non pregiudica gli altri accordi internazionali e le norme di diritto internazionale relative alla protezione».

18 La salvage law consiste nel fornire un incentivo al recupero di beni situati in mare

verso il pagamento di un corrispettivo, subordinando il compenso a tre condizioni: l’esistenza di un reale pericolo di distruzione del bene, l’assenza di un accordo pregresso avente ad oggetto la rimozione del bene dal fondale marino, la garanzia che il recupero avvenga con successo dell’intera proprietà o parte di essa. Invece, affinché si possa parlare di law of finds occorre la prova che il bene sia stato effettivamente abbandonato e che colui che lo ha ritrovato sia in grado di dimostrare di avere un controllo sul bene stesso (per un approfondimento sulla differenza tra i due istituti si rimanda a MIGLIORATI, Tesi di dottorato di ricerca, XXIV ciclo, Il

patrimonio culturale subacqueo universale e le esigenze di tutela internazionale,

Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Dipartimento di Giurisprudenza, Relatore Prof. Emilio Pagano, p. 70 ss., disponibile su www.fedoa.unina.it).

nelle cui acque è avvenuto il ritrovamento, e coinvolgere anche tutti gli Stati aventi un collegamento dimostrabile col bene dal punto di vista storico, archeologico o culturale.

Inoltre, secondo le regole dettate dal diritto del mare, in una zona contigua al mare territoriale, che si estende per ulteriori dodici miglia marine, lo Stato esercita tutti i poteri necessari a prevenire la violazione delle proprie leggi doganali, fiscali, sanitarie, di immigrazione20 e, ai sensi dell’art. 8 della Convenzione di Parigi, può regolamentare e autorizzare gli interventi sul patrimonio culturale subacqueo. Quest’area di complessive ventiquattro miglia marine (comprendente, dunque, mare territoriale e zona contigua), include anche la cosiddetta “zona archeologica”, introdotta dall’art. 303 della Convenzione UNCLOS e altresì prevista dall’art. 10 della Convenzione di Parigi. In queste acque, lo Stato costiero esercita anche il controllo del commercio degli oggetti aventi valore storico e archeologico scoperti in mare, in quanto si presume che la rimozione degli stessi, in assenza di una precisa ed espressa volontà dell’autorità competente, si risolva in una violazione delle leggi interne regolanti la materia21. Con riguardo alle attività di sfruttamento del patrimonio culturale sommerso, lo stesso articolo stabilisce che nessuna autorizzazione può essere concessa nelle zone successive a quella contigua, cioè, nella zona economica esclusiva (ZEE) e nella piattaforma continentale22. In questi settori, ai sensi dell’art. 9, gli Stati hanno la responsabilità di proteggere i beni sommersi ivi insistenti e, pertanto, si rende necessario, in caso di ritrovamento, informare lo Stato di appartenenza, il quale è libero di proibire qualsiasi tipo di attività connessa allo sfruttamento del patrimonio

20 Cfr. artt. 2 e 3 della Convenzione di Montego Bay.

21 Per approfondimenti sui poteri dello Stato costiero nella zona contigua in materia

di beni archeologici v. AZANAR, The Contiguous Zone as an Archeological

Maritime Zone, in IJMCL, vol. 29, 2014, n. 1, p. 1 ss.

22 La zona economica esclusiva è un’area di 200 miglia marine, misurate a partire

dalle linee di base del mare territoriale, all’interno della quale gli Stati esercitano solo i poteri connessi allo sfruttamento delle risorse economiche del sottosuolo e delle acque sovrastanti. Con riguardo alla piattaforma continentale, intesa come quella parte del suolo e del sottosuolo marino contiguo alle coste che costituisce il prolungamento delle terre emerse e che pertanto si mantiene ad una profondità costante fino a degradare negli abissi, invece, lo Stato mantiene il diritto esclusivo di sfruttarne le risorse, ferma restando la libertà di tutti gli Stati di utilizzare le acque e lo spazio atmosferico sovrastanti.

archeologico (art. 10 par. 2). Va poi ricordato come lo Stato nella cui ZEE o piattaforma continentale avvenga una scoperta di questo tipo, qualora sia firmatario della Convenzione del 2001, sia tenuto a consultare le altre Parti contraenti e concordare con loro le attività da porre in essere al fine di preservare il ritrovamento ed evitarne

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