• Non ci sono risultati.

CONVERSIONE ALL'UNO

Nel documento Popper Falsificato (pagine 148-168)

La società aperta è una società tollerante. Lo è, secondo Popper, con un limite tanto importante quanto ovvio: che una tale tolleranza non si applichi "nei confronti di tutti

coloro che non sono tolleranti"326. Chi non accetta la diversità, chi fonda la propria

prassi sul potere e non sulla ragione, chi ha come scopo quello di imporre la propria opinione, la propria "visione del mondo", la propria "logica" agli altri mediante l'uso della forza deve essere ripudiato e bandito, in quanto nemico della libera discussione razionale.

Una manifestazione di buon senso, questa, che pare senza dubbio molto ragionevole, ma che dimentica un particolare non irrilevante: il fatto che l'intolleranza è una caratteristica che appartiene alla natura del Capitale. Infatti, l'intima esigenza di questo blob, di questo "fluido mortale" assiduamente dedito a un'espansione che ha come fine solo se stessa, non è il semplice moto libero dei propri figli all'interno di quel sistema che esso stesso regge. Il Capitale non pretende solo il capitale non vincolato, non gli è sufficiente uno stuolo di persone, mezzi e conoscenze che siano mezzi in vista dell'accumulazione. Tutt'altro – il Capitale desidera niente più e niente meno di un

mondo a sua immagine e somiglianza, di un mondo del Capitale. Un tale desiderio

rappresenta parimenti l'insofferenza per l'altro-da-sé in quanto tale, l'insofferenza per qualsiasi cosa che non sia conforme all'imperativo unico e assoluto, che non partecipi del Capitale sommo e non lo imiti per quanto gli sia possibile.

Ed è così che il Capitale si trova a soffrire di questa imperfezione tipica del mondo sensibile, del "programma aperto" (e quindi meno propenso a una rigida istintualità) che l'evoluzione ha consegnato al sistema nervoso centrale dell'essere umano – perché ciò ostacola il raggiungimento del modello ideale al quale il singolo dovrebbe tendere, ostacola il suo essere "parte" del Capitale, modo o momento dello stesso. Quale sofferenza nel dover constatare che qualcosa gli oppone sempre e comunque una qualche resistenza! E quale sofferenza nel dover constatare che il cardine del problema non è tanto da cercarsi nella natura dell'uomo sensibile, quanto nella natura dello

stesso sistema retto dal Capitale, sistema dominato dalle contraddizioni interne – tra capitale e lavoro, tra socializzazione e privatizzazione, tra valore d'uso e valore di scambio, tra espansione e sopravvivenza, e così via. Il Capitale si trova dopotutto a combattere una battaglia contro una resistenza che esso stesso non può fare a meno di

generare e rinnovare327.

Perciò, deve fare di necessità virtù: dove non riesce a "riassorbire" in toto ciò che gli si oppone, deve contaminare, pervadendo ogni determinazione in modo che l'espansione del sistema trovi quanto più possibile in ciascuna di essa una forza acceleratrice anziché un corpo in attrito. Anche il Capitale deve toccare i cuori.

Il modo storico del "farsi totalità" da parte del Capitale è il processo, giunto ora a maturità, di imposizione del neoliberismo. Esso ha costituito allo stesso tempo una leva per ulteriori forme di "assorbimento" dell'alterità.

Non è stato un processo spontaneo, nel quale qualsiasi anonimo attore del sistema – che l'apologeta del Capitale presenta sovente come un sistema complesso matematicamente modellizzabile come automa cellulare – si è volente o nolente ritrovato immerso. Au contraire – si tratta di un processo guidato, i cui conducenti hanno un nome e un cognome. Il neoliberismo non si è quindi imposto da solo in virtù della sua superiorità concettuale o dei suoi magici risultati in campo economico e

sociale328. Si è invece imposto – e già lo si era visto nel primo capitolo – in quanto

strumento unilaterale, molto efficace per la reconquista e il potenziamento del potere di classe da parte delle élites internazionali. È il frutto della somma virtù delle personificazioni del Capitale: il pragmatismo. Il quale impone di creare la teoria non avendo come mira la verità o la sapienza, ma al solo fine di assicurare un'accumulazione più rapida possibile in relazione ad ogni nuova contingenza storica. "Cosa mi è più utile?" si chiede all'istante t il Capitale? E teorizza di conseguenza.

327 Ecco quella che è forse la contraddizione "finale" del Capitale, quella in virtù della quale il Capitale lotta contro se stesso.

328 Se dai risultati in termine di benessere e giustizia sociale (che, tra parentesi, dovrebbe – giusto per

ricordarlo – essere il fine dell'attività economica come produzione di beni e servizi) o anche solo di "crescita" economica (obiettivo più consono all'ideologia liberista) dovesse dipendere la sopravvivenza dell'impianto ideologico neoliberista, quest'ultimo sarebbe stato gettato nella fossa e sepolto già da tempo.

È da un simile pragmatismo che ha avuto origine il mutamento di approccio degli apologeti del Capitale nei confronti del rapporto tra mondo degli affari e mondo della

politica329. L'approccio classico, accettato in maniera pressoché universale dal

liberalismo nel corso dell'Ottocento e di parte del Novecento, era centrato sulla non ingerenza – tanto riguardo le rispettive azioni, quanto riguardo le rispettive strutture e logiche di base – tra le due sfere. Qui lo scopo evidente era la preservazione dell'ancora giovane insieme delle imprese dal potere politico, il libero moto del fanciullo rispetto all'autorità paterna. Ma nel corso della seconda metà del Novecento il gigantismo aziendale è entrato in scena, le grandi imprese sono diventate enormi multinazionali e i rapporti di forza tra la politica e un mondo degli affari ormai adulto sono mutati. E la teoria è mutata in maniera corrispondente: adesso il machiavellico pensiero neoliberista "accusa infatti proprio la separazione tra affari e politica di aver generato una classe politica e amministrativa che ha perso contatto con la mentalità imprenditoriale privata"330. Come nel caso della "tanatosi" analizzata nel primo capitolo, anche in questa circostanza i grandi capitali hanno valutato molto bene ciò che era in loro potere fare e hanno artatamente adattato teoria e prassi alle condizioni contingenti in vista della propria crescita. Appena il tempo è risultato maturo, le élites hanno rotto quello stesso portone che in tempi non troppo remoti esse avevano costruito con le parole.

Parole nuove per esigenze nuove. Il Capitale sa, per l'appunto, che se desidera imporsi non può permettere alle sue personificazioni e ai suoi apologeti di dire le cose come stanno. E come sono andate le suddette cose? Nel modo in cui abbiamo visto che sono andate a partire da circa mezzo secolo fa, quando i mutati rapporti di forza tra classi alte e classi basse e un quadro geopolitico resosi ben più favorevole alla sopravvivenza e allo sviluppo del modo strettamente capitalistico di produzione e di gestione della ricchezza hanno indotto le élites a riprendere in mano il proprio destino, facendo del destino di ognuno un destino funzionale al proprio. La ricetta neoliberista, sfruttando anche la crisi economica degli anni Settanta, ha spianato la strada al proprio dominio a suon di leggi, di violenze e di ricatti. Il golpe cileno del 1973 e il conseguente

329 Altrettanto rilevante sarebbe il tradimento, storicamente ben più che occasionale, dell'amato "libero

mercato" in condizioni nelle quali pare maggiormente utile un approccio "protezionistico".

esperimento neoliberista (lo smantellamento dello stato sociale, l'ondata di privatizzazioni, la sottomissione ai capitali stranieri) che l'impotente popolazione locale è costretta a subire; il ricatto dei capitalisti alla città di New York nel 1975 e quello immediatamente seguente allo stato britannico; i governi fortemente neoliberisti della Thatcher e di Reagan, con i loro stretti contatti con il mondo delle imprese e il loro mantra del "capitale libero"; il Volcker shock e l'imposizione del monetarismo; la creazione di norme e di organizzazioni per l'azione delle imprese direttamente sul ramo legislativo; la dissoluzione del Civil Aeronautic Board e con esso della grande maggioranza delle misure legali a favore della regolamentazione dei flussi finanziari – tutti questi, e molti altri, sono avvenimenti che non sono associabili ad altro se non a una lotta di classe consapevole, a una generalizzata violenza da parte di chi detiene il potere contro chi ne è privo (con il beneplacito dello Stato). Senza dimenticare la doppia strategia dei prestiti ad alti tassi di interesse "concessi" ai paesi in cerca di sviluppo e dei conseguenti "aggiustamenti strutturali", mediante la quale le élites sono riuscite, nell'arco di appena un paio di decenni, a estendere (oltre al loro conto in banca) la dottrina liberista praticamente in ogni angolo del globo.

Questa prassi, però, pur nella sua radicale efficacia e sistematicità, non sarebbe stata comunque sufficiente al dominio del "pensiero unico" (e nemmeno avrebbe garantito all'azione stessa l'efficacia che ha avuto). Le personificazioni del Capitale hanno nel

concreto fare la condizione primaria e necessaria al dominio dei propri interessi – ma

una tale condizione non è sufficiente. Accanto al momento del fare, il Capitale necessita del momento del dire: ciò gli consente di passare dall'azione conforme a scopo alla conversione dell'animo. Detto altrimenti, il neoliberismo – dottrina dell'ultimo modo d'essere del sistema del Capitale – doveva venire legittimato, doveva costruire attorno a sé e sotto di sé un forte sostegno popolare. Come potrebbe mai, d'altra parte, un criminale permettersi di recitare la parte del criminale anche di fronte agli occhi della società?

In virtù di tale esigenza, il neoliberismo si è adoperato in vista della creazione di una maschera appropriata mediante la quale potersi vendere bene. Venne fatta circolare l'idea secondo la quale il male originario (quello che aveva originato la difficile

congiuntura economica degli anni Settanta) era costituito dall'intervento statale; e quella secondo cui "tagli fiscali radicali per le fasce più alte avrebbero prodotto

un'economia più sana"331; e quella secondo cui le finanze statali erano in crisi per via

del welfare state e di una esistenza condotta dai lavoratori "al di sopra delle proprie capacità"; e quella secondo cui il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione sarebbe dovuta giocoforza passare per la liberalizzazione dei capitali – e così via. È stato attuato quel progetto di dominio sulle istituzioni e sui centri di creazione e diffusione del pensiero che il promemoria di Powell aveva posto come punto fondamentale nell'agenda delle élites del capitalismo statunitense e mondiale: in forme diverse – dai tecnicismi agli slogan – la dottrina neoliberista ha invaso le università e le scuole, le aziende e i media, le librerie e le televisioni.

L'organizzazione di think-tanks (sostenuti e finanziati dalle grandi aziende), la conquista di elementi strategici dei media e la conversione di molti intellettuali all'ideologia neoliberista hanno determinato un clima di opinioni favorevoli a tale dottrina, assurta a garante esclusiva della libertà. In seguito questi movimenti si sono consolidati attraverso la conquista dei partiti politici e, infine, del potere dello Stato332.

Verità assolute e motti di grande saggezza hanno invaso la società civile, educata a imparare la lezione per cui esiste solo l'individuo egoista e responsabile della propria realizzazione, o quella per cui lo Stato è uno sprecone mentre l'impresa è efficiente, o quella per cui le cose stanno così come stanno perché non c'è alternativa alcuna. La retorica neoliberista ha fatto della libertà d'impresa e della libertà di circolazione dei capitali parte di un più ampio inno alla libertà in quanto tale333, cavalcando inizialmente anche i movimenti studenteschi di protesta degli anni Sessanta-Settanta e indirizzando l'individualismo, il libertarismo e il multiculturalismo loro propri contro il

331 M. Blyth, Great Transformations, Cambridge University Press, Cambridge, 2002, pag. 155, citato in D.

Harvey, op. cit., pag. 67. La traduzione è mia.

332 D. Harvey, op. cit., pag. 52.

333 Nel 1977 gli schermi statunitensi mostravano una versione televisiva di Liberi di scegliere, libro

(dall'efficace titolo) scritto nientedimeno che dalla mano di Milton Friedman. Un impegno educativo degno della Chiesa Cattolica.

desiderio di giustizia sociale e dell'azione politica volta ad ottenerla; facendo dello Stato il simbolo dell'opprimente autorità e dell'azione collettiva un attentato all'identità individuale; riconducendo il consumismo (in origine avversato tra i giovani protestatari) nell'alveo della libera costruzione di una tale identità334 e liberando l'immagine della grande impresa e della logica di mercato dal proprio carattere totalitario.

Il neoliberismo si è ovunque presentato nella maniera più "corretta" – corretta in quanto adatta al fine di imporre se stesso come ideologia onnipervasiva, imponendo così il Capitale. In ogni nazione del globo, con particolare attenzione per i paesi poveri, la nuova dottrina del laissez faire doveva essere esposta in vetrina come il modo più semplice e sicuro che un qualsiasi stato avrebbe potuto avere per creare all'interno dei propri confini un clima favorevole allo sviluppo economico e al progresso materiale. Vale la pena ripetere che nulla di ciò si è mai concretizzato. Fatta eccezione per il contenimento dell'inflazione, l'ondata di neoliberismo ha portato con sé elevatissimi tassi di disoccupazione, la perdita di sicurezza e di protezioni sociali, il peggioramento delle infrastrutture, dei servizi di base e della qualità di vita, "una

strana mistura di bassa crescita e sempre maggiore diseguaglianza dei redditi"335. Un

alto numero di sviluppi geografici testimoniano dell'inefficacia (se non della dannosità) del neoliberismo in relazione anche solo al prosperare dell'economia. Gli anni successivi all'introduzione del neoliberismo sono stati per i paesi dell'America Latina gli anni della decada perdida; in Asia, "i paesi che non avevano liberalizzato i loro mercati del capitale – Singapore, Taiwan e Cina – erano stati assai meno colpiti [dalla crisi] dei paesi, come Thailandia, Indonesia, Malaysia e Filippine, che lo

avevano fatto"336; negli Stati Uniti e nell'Europa occidentale alla stagnazione è seguito

334 Perciò oggi è largamente accettato il binomio "prostrazione all'imperativo consumistico" (ovviamente

non percepito in modo tale) e "creazione di un proprio stile individuale" per quanto riguarda l'attitudine ad abbigliarsi.

335 D. Harvey, op. cit., pag. 105. 336 Ivi., pag. 114.

un lungo periodo di bassa crescita337, che si è fatta nel tempo sempre più bassa. Sul continente africano stendiamo un velo pietoso.

Un insuccesso dovuto anche al fatto che la nazione "liberalizzata" attira certamente maggiori capitali (lasciando che a farne le spese siano i lavoratori) ma tra questi, proprio per via della deregulation rampante, una percentuale elevata è costituita dal cosiddetto vulture capital, del quale tutto si può dire fuorché il fatto che entri in una

nazione per donarle ricchezza338. Ma i pochi successi sono stati molto ben manipolati

per dare del neoliberismo non l'immagine di ciò che è (uno strumento di lotta di classe, finalizzato al danneggiamento dei lavoratori e alla redistribuzione di redditi e patrimoni verso l'alto) bensì l'immagine di ciò che non è (una ricetta di successo per chiunque). Coloro (la grande maggioranza) che non ne ha tratto alcunché di positivo – anche prescindendo dalla questione sociale – sono semplicemente da biasimare per la loro incapacità, come il disoccupato che non è ancora riuscito a trovare un lavoro. Scopo della propaganda neoliberista è, infatti, anche fare di ogni situazione penosa una colpa del singolo individuo o della singola nazione, in modo da distogliere lo sguardo da una critica al sistema o alla sua ideologia.

Questo grande sforzo del Capitale per convertire gli animi alla sottomissione al proprio

sistema e alle proprie personificazioni è stato coronato da successo339. Al volgere al

termine del secolo scorso, i grandi organismi sovranazionali (FMI e Banca mondiale su tutti) assieme alla quasi totalità dei dipartimenti di economia erano dominati dal pensiero liberista, mentre il mondo della politica si stava adeguando ad esso ad ampi passi. Gli indirizzi politici si sono sempre più spostati "verso destra" e anche dove c'era (quantomeno a parole) una maggiore attenzione alla questione sociale, il leader "di sinistra" di turno (diciamo un Bill Clinton) si trova in parte costretto (e per l'altra parte consenziente) a non fare nulla di sostanzialmente diverso da ciò che avrebbe fatto

337 Negli anni Ottanta, la crescita maggiore è stata registrata da un paese, la Germania, che aveva saputo

limitare molto l'adozione di pratiche neoliberiste. Non dimentichiamo, inoltre, che la crisi del 2008 è un prodotto diretto del neoliberismo, e non qualcosa di esterno e imprevisto con cui i suoi teorici hanno dovuto fare i conti.

338 Il capitale "avvoltoio" è, per farla semplice, quello che si preoccupa di acquisire il controllo di

un'impresa svalorizzata o comunque in serie difficoltà per poi rivenderla in modo da ricavarne un profitto.

339 Riprendiamo qui, come stiamo in generale facendo nel corso di questo capitolo, alcuni punti già

un suo generico avversario repubblicano340. Mediante il neoliberismo, il Capitale ha profuso un enorme sforzo per portare tutti dalla propria parte, riducendo le iniziative di coloro che non si dicevano "inclusi" o a delle farse (la "Terza Via" di Blair, che ha di fatto abbracciato in tutto e per tutto il neoliberismo, proseguendo l'opera della Thatcher in termini di (non-) difesa del lavoro e di vicinanza alle imprese) o a dei deboli e poco convincenti (e ben poco radicali) sprazzi di focalizzazione sulle problematiche sociali (l'ondata rosa nell'America Latina di inizio 2000, conclusasi con un nulla di fatto).

La conversione al Capitale che è stata attuata e mantenuta in vita dalle élites globali (statunitensi in primis) ha avuto e ha dalla sua quella stessa superiorità nei numeri e nei mezzi che già ci risultava chiara quando parlavamo del fenomeno lobbistico. Così, i focolai di pensiero critico che sono sopravvissuti debbono anche sottostare a una estrema "sproporzione dei mezzi", per cui "questi [studi, fondazioni, istituti e centri di ricerca] si sono ritrovati ad essere (e tuttora lo sono) molto al di sotto della potenza di elaborazione mediatica, politica, intellettuale, accademica messa in campo dal pensiero neoliberale"341. I vari "serbatoi di pensiero" densi di neoliberismo hanno alle loro spalle il supporto dell'intero aggregato delle grandi imprese – contro le modestissime risorse (e la – in buona parte conseguente – modestissima tiratura) a disposizione di riviste "alternative" come la New Left Review britannica. Ciò che Popper pare qui aver dimenticato (o aver voluto dimenticare) è che un sistema (quello liberista) che genera necessariamente una egemonia economico-finanziaria da parte di una o più classi, genera ipso facto anche le basi materiali per una (inevitabile) imposizione degli interessi e dell'ideologia delle medesime classi egemoniche in campo politico e culturale.

Il neoliberismo permeante (de)i giorni nostri rappresenta il culmine di questa egemonia, dell'unidimensionalità e dell'unilateralità sostanziali mediante cui il Capitale si assicura che ogni moto particolare all'interno del sistema sia o favorevole al sistema stesso o assorbito da esso. Come già accennato, con il dominio dell'idea dell'assenza di alternative, con la scomparsa di un serio momento dialettico, con l'assenza di un

340 Il processo della deregulation è stato portato a termine "con successo" proprio sotto questa presidenza

"democratica".

confronto e di una contrapposizione tra interessi e ideologia dominanti e visioni e progetti alternativi e critici, la politica si riduce oggi a un insieme di "azionuncole" conformi a visioni di problem solving di breve termine. Lo sforzo olistico – il grande nemico del sistema – è stato ridotto all'impotenza. E laddove compaiono un'intenzione o un progetto avversi alle pratiche neoliberiste, il sistema li "dissipa" mediante le proprie resistenze, in modo che anche il più "radicale" dei presidenti statunitensi sia costretto ad accettare la sentenza finale del Capitale: "no, you can't!".

Sradicata dunque dalla realtà e dalle menti qualsiasi ricerca di un'alternativa o di un'azione politica sul sistema, la completa accettazione del nuovo pensiero liberale – vale a dire della logica del Capitale e degli interessi delle sue personificazioni – è diventata "la premessa assoluta di ogni discorso politico legittimo nei paesi capitalisti [e sempre più anche in tutti gli altri] ed è stato accettato come schema comune di

riferimento dagli interlocutori socialdemocratico-laburisti"342. E nel suo essere

"schema comune", il neoliberismo assume su di sé la funzione di legittimazione del sistema: nella misura in cui esso è entrato a far parte del senso comune della popolazione, questa è stata educata e indotta alla più totale accettazione di quel medesimo esistente che grava su di lei.

Il parallelismo con la questione femminile è evidente: in entrambi i casi il sistema dominante (quello patriarcale, nel caso della subordinazione della donna) esige l'accettazione spontanea del dominio da parte degli individui dominati, e se lo assicura attraverso una produzione ideologico-culturale presentata come la "verità". Tanto in un

Nel documento Popper Falsificato (pagine 148-168)

Documenti correlati