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L'AUTENTICO RICONCILIATORE

Nel documento Popper Falsificato (pagine 57-99)

Nel capitolo scorso abbiamo più volte nominato il termine "impresa", dando per scontato che non ci fosse bisogno di spiegare alcunché al riguardo, che il termine rimandasse a una denotazione nel complesso chiara e non ambigua. Non è proprio così. Alla domanda "che cos'è l'impresa?", un professore ripeterebbe alla scolaresca che essa è un'attività economica organizzata e finalizzata alla produzione e allo scambio di beni e servizi. L'immagine che giunge alla mente assieme a questa

frottola122 (anche nei casi in cui si è ben consapevoli che ben altro è lo scopo) è quella

dell'impresa tradizionale: un insieme di vari beni e persone interagenti, organizzati a formare un'azienda ancorata idealmente e materialmente ad un preciso spazio fisico, subordinata alla sovranità dello Stato nel quale essa è localizzata. La Fiat della prima metà del Novecento, stabilmente ubicata nello stabilimento del Lingotto o in quello di Mirafiori, costituisce una delle tante realtà storiche della suddetta rappresentazione. Realtà che si mostra però oramai come una reliquia del passato. L'impresa capitalistica ha, nel corso dei decenni, superato un tale confinamento e una tale "rigidità" – e come mai potrebbe ciò sorprenderci? Sappiamo infatti che il Capitale, in quanto Capitale,

rifiuta di venire limitato123, esige l'aggiramento o la distruzione di qualsiasi cosa lo

vincoli nel suo processo di espansione. È quindi possibile derivare da questo la conclusione che gli stati hanno storicamente costituito la modalità di recinzione dei grandi capitali, contrastando il lavoro delle personificazioni del Capitale, lavoro che non può che essere rivolto al superamento delle costrizioni statali. Queste personificazioni hanno pertanto creato le condizioni affinché una tale liberazione fosse in grado di aver luogo. Laddove già esisteva una tecnologia adatta allo scopo, se ne

122 Tanto varrebbe, infatti, sostenere che la nutrizione è un'attività chimico-meccanica finalizzata alla

defecazione. Definizione che sarebbe comunque relativamente più corretta, dato che – quantomeno – la defecazione arriva sempre.

123 Ciò, ovviamente, solo come indole di base. Ma il Capitale non si irrigidisce in questa fluidità, giacché

alla sua passione per la libertà di movimento esso riesce a contrapporre, nei casi di necessità, il suo assoluto pragmatismo. Così, in circostanze storiche nelle quali l'accumulazione risulta faticosa (in occasione della depressione di fine Ottocento, della crisi successiva al crollo di Wall Street e pure della recente crisi dei subprime) e i singoli capitali hanno a volte preferito l'atteggiamento difensivista e optato per strategie protezionistiche (di cui il sogno fascista dell'autarchia è un celebre esempio). Come siano riuscite ad ottenerle risulterà chiaro nelle pagine finali del capitolo.

sono appropriati; laddove essa non esisteva, hanno fatto in modo di inventarla. La recente innovazione tecnologica che è stata determinante affinché il Capitale potesse abbracciare il suo sogno di un moto privo d'attrito è senza dubbio l'informatica, la "tecnologia dell'informazione". Tramite essa, il Capitale si è fatto fugace, etereo, inafferrabile. Transazioni, trasferimenti, speculazioni – tutto diventa più rapido e immediato in virtù di quella che Harvey considera, a ben vedere, "la tecnologia preferita dal neoliberismo", in quanto "molto più utile per l'attività speculativa e per massimizzare il numero dei contratti a breve termine che per migliorare la produzione"124.

Possiamo dunque giungere, dopo questi brevi preamboli, alla formulazione di una prima, provvisoria ipotesi: l'ipotesi legata alla novità storica di un'impresa che ha perduto la sua tradizionale delineazione spaziale, e che è mutata in entità sovranazionale, non-locale, quasi "smaterializzata". L'ipotesi dell'impotenza dello Stato, di una impotenza "kantiana", piena di "buona volontà", dello scacco da parte di una economia ingovernabile. Idea che, in sé, sarebbe quantomeno non totalmente incompatibile con l'idea popperiana di uno Stato idealmente sopra le parti e dedito, nei limiti del possibile, all'attuazione del "bene comune". Precisiamo comunque che, anche in questo caso, rimarrebbe ugualmente il fatto che l'insorgere di una tale impotenza, vale a dire il carattere opprimente dei contemporanei sviluppi dell'economia sulle capacità operative dell'apparato pubblico, sarebbe il naturale prodotto di quello stesso liberismo del quale Popper aveva una così alta considerazione.

Si legge con una certa frequenza che il motivo primario dell'emancipazione della grande impresa di cui si parla è da ricercarsi nel processo di globalizzazione, in atto (in senso stretto) ormai da alcuni decenni, processo che sta facendo del pianeta Terra una rete sempre più fitta e intraconnessa di stati nazionali, multinazionali e altri attori globali. Anche l'impresa, cioè, starebbe facendo esperienza di una globalizzazione che la priva della propria antica località. La globalizzazione si traduce in una modificazione dell'organizzazione aziendale – davvero incredibile questa causalità! Più ancora dell'estrema inconsistenza di una tale "spiegazione", ad essere incredibile è che essa venga spesso presa per buona. Intanto, perché si cerca qui di spiegare

qualcosa (la non-località dell'impresa) mediante la cosa stessa (la globalizzazione indica, per l'appunto, una non-località) – per cui, riformulata, la posizione si riduce a "l'impresa contemporanea è in grado di trascendere i confini nazionali perché è in atto un processo tale per cui i confini nazionali sono trascesi". Un giudizio fin troppo "analitico". Ma anche – e soprattutto – perché attribuendo la causa a una fantomatica "globalizzazione", si tratta quest'ultima come una nuova realtà piovuta magicamente dal cielo, o (il che è lo stesso) emersa dall'inesauribile fonte del "governo della tecnica" sul mondo moderno. Si ragiona, in altri termini, a testa in giù, disconoscendo l'essenza della base reale: la duplice tensione da parte del Capitale (e di chi per lui) all'accumulazione (ergo, a fare del globo un unico mercato) e alla dislocazione (di persone, attività, capitali) volta alla ricerca delle condizioni più favorevoli all'accumulazione stessa. Si "dimentica", quindi, che la globalizzazione è un processo guidato dalle grandi imprese e dai grandi capitali, e che può pertanto dirsi spontaneo solo nella misura in cui è spontaneo l'esplicarsi della natura del Capitale. Se la globalizzazione in senso lato è una esigenza del capitalismo fin dai suoi albori, la globalizzazione nella sua forma "estrema" ha un retroterra capitalistico storicamente ben preciso: i massicci investimenti nelle tecnologie informatiche ed elettroniche e il processo di deregolamentazione selvaggia, entrambi massicciamente avviati negli anni

Settanta e Ottanta125. Quindi non esiste "un processo universale chiamato

globalizzazione al quale le imprese debbono forzatamente adeguarsi" ma, al contrario, "la globalizzazione è derivata dalla ricerca d'una complessiva riorganizzazione della

produzione"126. E non solo di questa. Certo, limitandoci alla sola delocalizzazione, si è

adusi parlare innanzitutto di quella produttiva, mediante la quale un'impresa sposta una parte delle proprie attività (in alcuni casi, oltre il 90 per cento di esse) in territori nei quali ottiene vantaggi relativi derivanti in primis dalle minori spese per la manodopera, per l'energia e i servizi e dalla quasi totale assenza di vincoli normativi per la difesa

125 Talvolta li si può sentire i capitalisti lamentarsi di quanto è duro adattarsi e competere nell'era della

globalizzazione. Che presa in giro! Ma se sono loro ad averla creata e sono loro stessi a volerla!

126 L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Bari, 2009, pag. 37. Aggiunge

Azzolini che "il sistema off-shore non è, dunque, una semplice escrescenza, ma la testimonianza di come quei non-spazi, costruiti, protetti e incentivati da specifici soggetti politici ed economici, siano consustanziali alla logica del capitalismo globale" (G. Azzolini, Dopo le classi dirigenti, i gruppi

dominanti, pubblicato il 23 agosto 2017 e reperibile all'indirizzo: http://www.eddyburg.it/2017/08/dopo-le-

dell'ambiente. Talvolta, questo spostamento si accompagna a un "attacco" al mercato interno del paese ospitante, nel quale l'impresa cerca di penetrare sfruttando la maggiore competitività dei propri prodotti, la maggiore capacità a piazzarli. Ma la delocalizzazione è anche lo spostamento dei capitali stessi verso luoghi per loro più vantaggiosi. È funzionale al Capitale non solamente nella misura in cui consente di incrementare il divario tra valore e costi della produzione, ma anche nella misura in cui dà maggiore libertà ai singoli capitali, li rende "liquidi" e dà loro la possibilità di spostarsi agevolmente verso le zone dal "clima più mite" in cui è loro consentita una minore "evaporazione". È il fenomeno dell'off-shoring finanziario, fenomeno profondamente estraneo alla visione liberista classica. Questa era difatti fondata sul principio di località delle persone (quindi, in prima istanza, dei lavoratori) e dei capitali, principio correlato non solo alla teoria ricardiana dei costi comparati (che, in breve, rintracciava nella specializzazione produttiva delle varie nazioni il cardine del libero scambio e la garanzia del suo contributo al progresso economico e sociale dell'umanità) ma perfino sulla preoccupazione morale della salvaguardia delle identità culturali nazionali. È questa, lo si vede, una concezione della produzione capitalistica che (particolarmente in Adam Smith) esige la sottomissione della produzione e del profitto a principi etici, e che quindi pone l'essere umano come fine – e pure come controllore, dominatore – della produzione. Ma è una concezione che, ancora "sostenibile" nel Settecento, al capitalismo non può che andare tanto più stretta quanto più esso si espande, e ciò avviene sia per necessità empirica, in quanto la storia l'ha (di)mostrato, sia per necessità razionale, in quanto tale concezione è incompatibile con la natura del Capitale. La delocalizzazione quindi è, ed è necessariamente.

Suo principio è la sottrazione. Sottrazione ai lavoratori, allo stato ospitante, all'ambiente naturale, finanche allo stato d'origine dell'impresa. I singoli capitali sfuggono alle rispettive tassazioni nazionali, e trovano ristoro nei paradisi fiscali, siano essi in paesi poveri o in paesi "occidentali".

I numeri del fenomeno sono da capogiro. Si stima che ogni anno oltre la metà del commercio mondiale e degli attivi bancari venga dirottata verso i cosiddetti "paradisi fiscali". Circa un terzo dell'investimento diretto estero

effettuato dalle imprese transnazionali passa attraverso i tesori nascosti, entro cui si svolgono circa tre quarti delle emissioni bancarie ed obbligazionarie internazionali.127

Così come il Capitale non può accettare di venir ancorato a un territorio, allo stesso modo non gli può bastare quel "personalismo" legato a una gestione dell'impresa di stampo padronale, gestione in virtù della quale i vari capitali rispondono a un monarca assoluto, essere che racchiude in sé tanto la proprietà quanto il governo dell'impresa. Il Capitale ama la "divisione" dei poteri (e la divisione in genere). Tanto l'impresa quanto i capitali devono pertanto tendere allo svincolamento da ogni particolare persona fisica, dal momento che anche la sua personalizzazione è per il Capitale solo uno strumento, ed esige di controllarla anziché di esserne controllata. La Public Company è la modalità nella quale si concretizza una tale necessità: in essa la dispersione del capitale sociale in una miriade di azioni e di azionisti anonimi, la conseguente completa apertura a qualsiasi tipo di finanziamento, lo spezzettamento della gestione nei vari membri del consiglio d'amministrazione e dell'esecuzione quotidiana del controllo ai vari manager (per di più spesso remunerati anche con le

stock options, come abbiamo visto nel capitolo scorso) e ogni altro aspetto

organizzativo tende a ridurre qualsiasi uomo a ingranaggio nella macchina dell'accumulazione del Capitale, a limitare quanto più possibile la scelleratezza individuale, e con essa ogni eventuale deviazione dall' unico imperativo categorico. L'inafferrabilità del capitale contemporaneo si manifesta quindi da un lato nella forma della non-località e dell'a-spazialità dell'impresa e delle proprie risorse, dall'altro nella forma di volatilità all'interno dell'impresa stessa. Nella grande impresa tradizionale il titolare aveva la possibilità (quantomeno ipotetica) di agire contro il sistema del Capitale, di divenire capitalista illuminato, di mettersi in un certo senso dalla parte dei lavoratori – ed è ciò che in passato è avvenuto nella persona di Robert Owen. Lo sviluppo storico, che è stato innanzitutto sviluppo del sistema capitalistico, ha visto la concentrazione dei capitali essere accompagnata da una elevata interazione (e integrazione) tra gli espropriatori, sia inter-aziendale che intra-aziendale. Alla

frammentazione gestionale si accompagna una frammentazione produttiva: la grande impresa è suddivisa oggi in una serie di subunità produttive, che costituiscono tutte assieme una lunga catena (talora assumente la forma di una ramificazione) per cui ogni anello è dotato di una autonomia solo parziale ed è sempre funzionale al tutto. Come ha rilevato Luciano Gallino, questa "delega alle proprie parti costituenti" consente all'impresa una più mirata delocalizzazione (ogni unità produttiva si stabilisce nel territorio che – per utilizzare la terminologia aziendale – offre le condizioni migliori per le proprie esigenze), ma anche una maggiore adattabilità dei vari anelli, i quali devono rapidamente e continuamente adattare le proprie attività ai feedback provenienti dalle altre subunità, ritrovandosi con uno spazio di scelta praticamente inesistente. Inoltre, e questo è il punto centrale per la nostra ipotesi dell'inafferrabilità, le autorità incontrano maggiori difficoltà nelle attività di controllo e di accertamento dell'impresa come totalità. In questa difficoltà giocano un ruolo chiave i trasferimenti della proprietà di beni e servizi d'ogni tipo tra le sotto-imprese collegate:

È il meccanismo che consiste nella manipolazione dei cosiddetti "prezzi di trasferimento": quelli che ciascuna società d'un determinato gruppo formalmente applica quando cede un oggetto o un servizio ad altre società dello stesso gruppo e alla società controllante. Manipolando detti prezzi, che alla fine si ritrovano a comporre il bilancio consolidato, si può fare in modo che la società capogruppo risulti incassare poco dalle altre, ma spendere molto per acquistare da esse beni a servizi. Per tale via si perviene a rendere assai più basso di quanto non sarebbe in realtà l'imponibile della capogruppo, e quindi l'imposizione fiscale effettiva.128

Nonostante l'enorme rilevanza dei fenomeni di delocalizzazione, di frammentazione e di mutamento nella gestione e nella proprietà, è la finanziarizzazione ciò che è più rappresentativo della "fluidità" dell'economia, della sua capacità di trascendere lo Stato. Gli investimenti si sono fatti rapidi, frutto di visuali per lo più limitate al breve periodo, essenzialmente speculativi e volatili, tendenti "a ripartire altrettanto

improvvisamente di come erano arrivati, ai primi segni di un serio allarme"129. La tecnologia informatica che il capitalismo si è creato rende possibili trasferimenti quasi istantanei di capitali, dando così alle imprese la più grande capacità di sempre di aggirare (con un "clic") le lente normative e "discussioni razionali" dello Stato. E qui l'unica cosa che può dirsi "in-credibile" è la portata del traguardo tecnologico cui si è giunti – il processo che su di ciò ha luogo non può destare alcuno stupore, così come non desta stupore il letargo dell'orso bruno: esso non è che il logico sviluppo della natura del Capitale. Uno sviluppo, infatti, che non solo Marx, ma pure gli economisti borghesi classici a lui antecedenti avevano intravisto (e paventato). La Borsa è il luogo ove tutto ciò si manifesta nel modo più potente: lì i processi di quotazione dipendono da operazioni speculative effettuate da una pletora di azionisti (e broker, e agenzie di rappresentanza), che nel loro operare dipendono anche da elementi prettamente psicologici, primo tra tutti la fiducia nello stato di salute di un'impresa e nella sua capacità di generare profitti, e che sono perfino in grado di scambiarsi azioni ad alto

valore riguardanti imprese che devono ancora esistere.130

Non facciamo però nemmeno a tempo a rilevare l'incontrollato, ipertrofico ingigantimento del potere e della ricchezza che ruotano attorno a Wall Street, o l'esorbitante patrimonio in azioni e obbligazioni posseduto da banche, grandi investitori e rentiers vari. Ci blocchiamo subito. Stiamo infatti cominciando a capire che, per quanto "corrette" possano essere le nostre informazioni e le nostre osservazioni, con esse rimaniamo ben lontani dal nucleo. Rivediamo quindi nuovamente il tutto. Abbiamo già constatato nel capitolo precedente che l'immagine popperiana di uno Stato capace di fungere da arbitro per lo più imparziale e lungimirante, e da sostegno efficace alle fasce meno abbienti – vale a dire di uno Stato dotato della sovranità, del potere di attuare in maniera autonoma (di imporre) i famosi "possiamo" della giustizia sociale – è un'immagine che non regge. Abbiamo quindi tentato di salvare la "purezza", la "eticità" dell'apparato statale, caratterizzandolo come un impotente pieno di buone intenzioni, direttamente uscito dalle pagine della Ragion

129 G. Ruffolo, Lo specchio del diavolo. La storia dell'economia dal Paradiso terrestre all'inferno della finanza, Einaudi, Torino, 2006, pag. 83.

130 Se possibile, però, il fenomeno dei derivati è stato in grado di spingere l'assurdità a livelli anche

Pratica di Kant. Ma facendo del Capitale una mangusta o un pesce vela siamo ben lungi dal centrare il bersaglio. Ne acquisiamo consapevolezza dalla memoria di ciò che la storia ci ha mostrato negli anni Settanta e Ottanta, ma anche del nostro principio- guida, della "legge" sottostante, della natura del Capitale. Natura alla quale appartiene ben più che la mera incontrollabilità. Non solo esso è insofferente di ogni limite e di ogni controllo al di sopra di sé - è altresì lo strumentalista assoluto. Possibile che non riesca a trovare nello Stato null'altro che un (ormai impotente) avversario, che non riesca a fare dello Stato un mezzo, una cosa al suo servizio? Abbandonando dunque la precedente ipotesi – che, pur avendo basi materiali per la sua sostenibilità, ci appare ora menomata, epidermica, inadeguata – giungiamo a una seconda ipotesi (che

racchiude in un certo senso la precedente, allargandone la prospettiva e l'

"applicabilità") che formuliamo in questo modo: lo Stato non costituisce un elemento "estraneo" o "limitante", ma è in misura notevole utilizzato dalle grandi imprese come mezzo per il suo fine, è reso schiavo, è strumentalizzato.

Presupposto di ciò è la concentrazione del capitale.131 Il fatto che l'inafferrabilità dei

capitali non si presenti come un insieme di pluralità tra loro debolmente connesse, che non si presenti nella forma di "gas ideale", ma che al contrario mostri una marcata disomogeneità e anisotropia. Ed è quello che accade nella grande impresa contemporanea, nell'impresa multinazionale. Essa rende "vuota astrazione" il modello neoliberista della concorrenza perfetta, in cui è il mercato a "guidare" (invero con somma benevolenza e lungimiranza) le mosse delle imprese, le quali si ridurrebbero quindi a insiemi di contratti: le parti (i soggetti economici) rappresentano nella teoria entità atomizzate, di importanza secondaria rispetto alle relazioni che intercorrono tra di loro. Non occorre scomodare la teoria dell'impresa di Ronald Coase – l'irrealtà di un tale modello, la sua "inesistenza" nel mondo fisico del capitalismo contemporaneo, è confermabile dalla semplice vista. La grande impresa contemporanea, nei fatti, domina il mercato. Dominandolo, lo chiude: le barriere di ingresso, praticamente del tutto assenti nella teoria, risultano nella pratica elevate o perfino insormontabili in una miriade di casi. I nuovi arrivati, di norma, non possiedono né i mezzi finanziari, né il

131 Qui come altrove, l'uso di "capitale" con l'iniziale minuscola indica semplicemente un insieme di

capitali, ovvero la parzialità o la totalità del denaro all'interno del sistema capitalistico, che è sistema del "Capitale" (con l'iniziale maiuscola).

cosiddetto know-how (soprattutto nel caso dei "monopoli naturali") per trovare il loro posto nel mercato, per poter liberamente competere. E, d'altra parte, i colossi consolidati hanno acquisito una struttura, una ricchezza e un potere tali per cui è

estremamente improbabile che il mercato possa decretare il loro fallimento132.

Si mettono al primo posto le virtù della competizione, ma la realtà è il crescente consolidamento del potere oligopolistico, monopolistico e transnazionale all'interno di poche grandi aziende multinazionali: il mondo della competizione tra soft drinks si riduce a Coca-Cola contro Pepsi, l'industria dell'energia si riduce a cinque enormi aziende transnazionali, mentre pochi magnati dei media controllano gran parte del flusso dell'informazione, che a questo punto diventa prevalentemente mera propaganda133.

Diamo un'occhiata al rapporto Top 200 del Cnms (Centro Nuovo Modello di Sviluppo), che mostra il peso quantitativo (e perciò anche qualitativo) delle prime

duecento multinazionali del Pianeta.134 Secondo tali rilevazioni e stime, circa l'80 per

cento del commercio globale è nelle mani delle multinazionali. E delle oltre 80 mila multinazionali "in attività", le prime 200 contano per il 14 per cento del fatturato annuo (al lettore l'onere della proporzione). Parliamo quindi di enormi organizzazioni e concentrazioni di potere, con filiali sparse in giro per il mondo, che raccolgono 40 milioni di dipendenti e che fatturano oltre 18 mila miliardi di dollari, dei quasi quasi mille miliardi rappresentano profitti. Non contenti dei dati attuali, ci preoccupiamo di dare un'occhiata al processo e alla sua tendenza. Il Cnms ci fornisce anche un raffronto

Nel documento Popper Falsificato (pagine 57-99)

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