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Cool: un paradigma cross-culturale per interpretare il Giappone contemporaneo

NELLA COMUNICAZIONE DIGITATA

2. Cool: un paradigma cross-culturale per interpretare il Giappone contemporaneo

Come già accennato nel capitolo precedente, il mito dell’omogeneità culturale giapponese che per lungo tempo ha imposto modelli linguistici coerenti e, appunto, ‘standard’, non è più un criterio valido per interpretare la società contemporanea, in cui «advanced communication (consumer culture, the internet, and the like) pays no attention to ethnic discretness» (Maher 2010, 575). L’interazione di identità culturali diverse, resa possibile dal progresso tecnologico e dal movimento di beni, informazioni e persone oltre i confini nazionali, ha portato al formarsi di nuove modalità di comunicazione, le quali richiedono oggi l’adozione di un approccio più fluido, mutevole e complesso. La coerenza passiva ad un modello etnico unico e immutabile, che si manifestava in un uso della lingua giapponese perfettamente coerente con il dialetto di Tokyo, non è più attraente per le nuove generazioni, non è cool, perché ormai alla portata di tutti, e quindi scontato.

Uno dei punti cardine di tale approccio è per l’appunto il concetto di Cool proposto da Maher (2005), il quale riteniamo possa aiutarci nello studio delle pratiche comunicative nell’era di Internet, ma che richiede una riflessione preliminare sull’influenza che i modelli e le lingue straniere hanno avuto e hanno tutt’oggi sulla cultura dell’arcipelago, e una rielaborazione del concetto di etnia.

Con il termine ‘etnia’, si identifica generalmente una variabile sociale caratterizzata da

a common proper name to identify a community essence, a myth of common ancestry which gives a kind of fictive kinship or super family, shared historical memories, elements of a common culture such as religion or language, a link with homeland or common territory, a sense of solidarity. (citato in Maher 2010, 575)

La globalizzazione ha però portato, a partire dagli anni ’90, ad una riconsiderazione del concetto di etnia, la quale non viene più percepita come una caratteristica acquisita dall’individuo al momento della sua nascita e immutabile nel tempo; piuttosto, l’etnia diventa un’identità opzionale, da mostrare o scartare a seconda del contesto, che non ci vincola indissolubilmente alla lingua e ai valori culturali ad essa associati.

Questo cambio radicale di approccio si accompagna al diffondersi di un atteggiamento positivo nei confronti di quelle stesse minoranze etniche (o almeno di alcuni aspetti di esse) una volta oppresse: la stessa diversità che in passato era giudicata negativamente viene oggi rivalutata perché parte dell’idea di Cool.

A livello linguistico, questo fenomeno si può interpretare alla luce del fatto che oggi, anche a seguito del processo di urbanizzazione, la gran parte della popolazione ha una completa padronanza del giapponese standard, il quale di conseguenza non è più sinonimo di prestigio come lo era in passato. È qui che abbiamo il passaggio da ‘etnia’ a ‘metroetnia’, «a ‘shifting-sands ethnicity’, driven not by the demands of ethnic orthodoxy or powerful loyalty to a particular ethnic or historical tradition. It is an ethnicity invoked rather by an appeal to other cultural demands» (Maher 2005, 86).

Per chiarire al lettore cosa intendiamo con il termine, apparentemente contradditorio, di ‘metroetnia’, riportiamo di seguito un esempio tratto dall’esperienza personale dell’Autore che possa esplicare i dati empirici fino ad ora presentati:

una sera d’autunno a Shibuya mi è stato presentato un ragazzo di 29 anni che parlava in inglese, il quale alla domanda «Di dove sei?», ha risposto «Un terzo giapponese, un terzo filippino, un terzo spagnolo». Cool! Gli ho chiesto se parlasse spagnolo, ma non era mai stato né in Spagna né nelle Filippine, e non parlava nessuno dei due idiomi; al commento sarcastico di un presente che gli faceva notare che era più semplice se diceva di essere giapponese, ha però replicato, stizzito, «Io non sono solo giapponese, sono hāfu [dall’inglese half, ‘figlio di coppia mista’]». (Shibuya, settembre 2018)

Se per riconoscersi membri di un gruppo etnico è necessario, secondo la definizione più tradizionale, condividere con esso memorie storiche condivise, un credo religioso, lo stesso idioma e un legame con la patria, la dichiarazione identitaria del ragazzo risulta totalmente priva di fondamento. Ed è qui ‘etnia’ si differenzia da ‘metroetnia’: la

metroetnia non è un ‘tutto o niente’, non richiede l’accettazione di un’identità etnica in tutte le sue sfaccettature (lingua, religione, patria, ecc.), ma permette di appropriarsi solo di quelle che riteniamo più coerenti con l’immagine che vogliamo trasmettere in un dato contesto e ad un interlocutore specifico. Il concetto di metroetnia nega la relazione univoca e indissolubile tra lingua e etnia che generalmente viene imposta da un’autorità superiore, come può essere ad esempio lo Stato, e accetta che sia l’individuo a scegliere quali identità entiche e linguistiche fare proprie e quali rifiutare. Il passaggio da ‘etnia’ a ‘metroetnia’ si manifesta, a livello linguistico, in quello da ‘multilinguismo’ a ‘metrolinguismo’, «the use of multilingual resources in urban contexts (citato in Otsuji 2015, 102); indagare gli usi linguistici in un’ottica metrolinguistica e metroetnica significa rifiutare le categorizzazioni statiche che associano spazi, lingue e culture, ed accettare identità e linguaggi ibridi, sempre in divenire. La realtà urbana e i suoi abitanti ridefiniscono ogni giorno la nostra idea di ‘entia’ e identità linguistica e culturale (Otsuji 2015, 106), motivo per cui il ragazzo a Shibuya non percepisce come contraddittorio dichiararsi per un terzo spagnolo e filippino pur non parlandone la lingua. La società e la lingua giapponese, in particolare nelle loro manifestazioni urbane, non possono più essere considerate categorie statiche e immutabili, ma al contrario devono essere indagate in quanto realtà continuamente soggette a cambiamento, elemento costante della cultura e della lingua mobile (Otsuji 2015, 103).

Inoltre, nell’esempio soprariportato, l’accento che viene posto sull’essere qualcosa di altro, di originale, di più interessante rispetto al dichiararsi ‘banalmente’ giapponese rivela appieno l’accezione positiva che viene data a ciò che è diverso, ibrido, sfumato; in una parola, Cool.

Assistiamo così ad una rivalutazione di alcune (ma non tutte!) minoranza culturali e linguistiche associandosi alle quali si può evitare il conformismo della cultura egemone. Il quartiere di Shibuya, sia per la sua vivace vita notturna che lo rende così popolare tra i giovani giapponesi, sia per la sua vicinanza con Harajuku, un tempo centro focale della teenage culture più estrema, è territorio privilegiato per osservare quella subculture giapponese che sfugge ai cliché della moda e della tradizione, inclusa l’aderenza ad un determinato gruppo etnico e ad un linguaggio uniforme e, quindi, anonimo. In un contesto in cui la padronanza della lingua standard e la possibilità di riconoscersi nell’identità etnica ad essa associata è ormai scontata, vi è una rivalutazione anche a livello linguistico

di ciò che è ibrido. È poco rilevante poi che la presunta identità multietnica rivendicata, per esempio, dal ragazzo incontrato a Shibuya, sia attinente o meno alla realtà, perché nella metropoli si può essere filippini senza essere mai stati nelle Filippine, si può essere spagnoli senza sapere lo spagnolo; l’unica cosa importante è che sia Cool.

Ci siamo già interrogati nelle sezioni precedenti su cosa è Cool; la questione è complessa, perché «it requires social observation to know what is utilitarian and cool. You want to link up with, but avoid conformity to, an ethnic or group orthodoxy» (Maher 2010, 581). La non aderenza a modelli standard è sicuramente condizione necessaria, ma non sufficiente, per essere Cool: non tutto ciò che è diverso è Cool. Nel passaggio da etnia a metroetnia, l’individuo si appropria del diritto di scegliere quali aspetti di un determinato gruppo etnico sono Cool e quali no, e sulla base di questo quali fare propri e quali rifiutare. Allo stesso modo, a livello linguistico il parlante seleziona tra i registri linguistici a sua disposizione vocaboli e strutture coerenti con l’immagine che, in quel determinato contesto, vuole trasmettere di sé, mentre ne scarta altri. Vi è quindi la necessità di sviluppare una nuova forma di competenza comunicativa che abbracci uno stile di vita ed un linguaggio multiculturale, senza però accettarli passivamente; anche a livello linguistico, l’individuo non si limita a sommare elementi giapponesi e non, ma piuttosto li seleziona e li rielabora per creare qualcosa di nuovo e personale, che sia in qualche misura innovativo e sempre coerente con l’immagine di sé che si vuole trasmettere all’interlocutore.

Andiamo quindi ad analizzare come i concetti di metroetnia e metrolinguismo possono applicarsi allo studio della messaggistica istantanea.