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Corpus Bacch

1. Corpus et Anima

rian O’Nolan è stato un autore decisamente poco prolifico. In vita sua ha firmato probabilmente soltanto la busta paga al Department of Local Government e pochissimi articoli su

Comhthrom Feinne (‘Fair Play’, periodico dello UCD), e co-

munque non mantenendo mai compitazioni univoche —da Brian (O’) Nolan a Brian Ó Nuallaín o Brian Úa Nuallaín. Non stupisce che la critica si sia dedicata a Flann O’Brien invece che a lui.

B

I continui giochi fra autori fittizi da parte di questo autore empirico —Brian O’Nolan— ci pongono di fronte al problema delle ragioni di una scelta artistica piuttosto inusuale, avendo tale autore prodotto opere sot- to molteplici nomi d’arte. L’uso del nom de plume in sé è un fatto abba- stanza comune nel mondo dell’arte: gli scrittori li hanno sempre usati, per i motivi più svariati. George Eliot era una donna, e usava un nome da uo- mo per trovare il suo spazio in un mondo letterario vittoriano quasi esclu- sivamente maschile —e per proteggere una scomoda relazione extraconiu- gale. Alcofribas Nasier era nient’altri che il Rabelais dei primi libri del Gargantua, quando mettere in piazza la propria identità non era solo

sconveniente ma addirittura pericoloso per la vita. Scaramouche era la mimesi di secondo grado di Scaramuccia, pseudonimo tradotto dell’attore napoletano Tiberio Fiorilli, maestro di Molière, nome d’arte a sua volta dell’attore e drammaturgo Jean-Baptiste Poquelin. Tra gli attori del tea- tro un tempo, e del cinema al giorno d’oggi, l’atteggiarsi dietro una ma- schera di convenienza ha sempre riscosso un certo successo; nel mondo della pittura è successo lo stesso con i pittori che si sono resi riconoscibili soltanto dal nome di battesimo, dal soprannome o dal luogo di nascita: Ti- ziano, El Greco o Caravaggio. Persino un architetto famoso come Le Cor- busier aveva ceduto alla tentazione di mascherare il suo pur altisonante Charles-Edouard Jeanneret-Gris, e leader politici come Vladimir Il’ič Ul’janov e Josif Vissarionovič Džugašvili23, che non avevano certo bisogno di pseudonimi per acquistare carisma, si sono tramutati nei più riconosci- bili Nikolaj Lenin e Josif Stalin.

In letteratura, se volessimo partire da Petronio Arbitro (‘arbiter e- legantiarum’), la lista sarebbe interminabile. Per citare solo i casi più re- centi, ci viene in mente il premio Nobel Doris Lessing (Doris May Tayler al- la nascita), che ha mantenuto il cognome del secondo marito, dal quale tuttavia aveva divorziato prestissimo. Non contenta di ciò, ha anche scrit- to diversi romanzi come Jane Somers. Paul Auster ha spesse volte usato come alter ego un certo Paul Benjamin, mentre John Banville ha usato Benjamin come nome proprio per il suo Benjamin Black. Stephen King, au- tore di blockbuster letterari, ha rivolto i lati oscuri della sua personalità in emanazioni fittizie che rispondono ai nomi di Richard Bachman e John Swithen, nomi ai quali lo stesso King ha donato anche una biografia e dei sentimenti diversi da quelli dell’autore empirico. Ma è solo un dilettante in questo senso se lo confrontiamo con le vicende umane degli eteronimi di Fernando Pessoa, che scrisse oltre che come se stesso anche come: Ál- varo de Campos, ingegnere navale laureatosi a Glasgow, fiorito in Porto- gallo come poeta decadente, poi convertitosi al simbolismo e al futuri-

23 Anche Baffone, come vedremo Moishe Shegal, fa parte del folto club dei personaggi

dalle plurime identità: questo nome è la slavizzazione del georgiano Ioseb Besarionis Dze Jughashvili.

smo; Ricardo Reis, medico latinista e monarchico, poeta classicheggiante, vissuto con Pessoa fino al momento della proclamazione della Repubblica in Portogallo, dopo la quale si trasferì in Brasile per protesta e di lui non si seppe più niente; Alberto Caeiro, contadino autodidatta, maestro di vi- ta di tutti gli eteronimi, Pessoa compreso, per la visione chiara delle cose e il rigetto di eccessivi sofismi filosofici e poetici, morto di tubercolosi; Bernardo Soares, autore del solo diario di frammenti O livro do desassos-

sego (‘Il libro dell’inquietudine’). Come lo stesso autore empirico ammise

più volte, questo uso smodato di eteronimi (piuttosto che di semplici pseudonimi) denotava anche un profondo senso di alienazione e isteria, tuttavia generatore di effetti artistici davvero notevoli.

Ma il maestro insuperato in questo particolare gioco rimane senza dubbio il filosofo danese Søren Kierkegaard: si possono contare almeno 13 pseudonimi tra quelli che usò per le sue opere più importanti, verso i qua- li non riconobbe mai alcuna parentela, rivendicando al contrario sempre una posizione di “terzo” nei loro confronti al fine di non vedere ricono- sciuto nelle sue speculazioni l’inquadramento in un sistema filosofico, considerando nondimeno il loro uso come una parte essenziale della sua ricerca. Tra questi si annoverano: Victor Eremita, A e il Giudice Gugliel- mo, rispettivamente curatore, autore di gran parte degli articoli e confu- tatore degli stessi nell’opera Aut-aut; Johannes de Silentio, autore di Ti-

more e Tremore; Constantin Constantius e il Giovane, autori rispettiva-

mente della prima e della seconda metà de La ripresa; Vigilius Haufnien- sis, autore de Il concetto dell’angoscia; Nicolaus Notabene, autore delle

Prefazioni; Hilarius Bogbinder, autore di Stadi nel cammino della vita; Jo-

hannes Climacus, autore delle Briciole di filosofia e della Postilla conclu-

siva non scientifica; Inter et Inter, autore de La crisi e una crisi nella vita di un’attrice; H.H., autore dei Due brevi saggi etico-religiosi; Anti-

Climacus, autore de La malattia per la morte e Scuola di cristianesimo. Oltre a questo record non siamo riusciti ad andare, ma ci sembra che gli esempi si comprendano a sufficienza.

Anche se tutti conoscono chi c’è dietro un nome d’arte, la sola esi- stenza di questa identità sposta ontologicamente la soggettività dell’autore verso il nome di finzione ogniqualvolta il discorso si riferisca a questi. Tornando al livello comune di pratica quotidiana, un esempio che possiamo ben vedere tutti è quello di quando si conia un nomignolo per una persona che si conosce, oppure di quando ci si fa chiamare con il pro- prio nome abbreviato, o ancora con un nome completamente diverso. L’altisonante Beatrice diventa la familiare Bice, così come Antonio diven- ta Tonio, Toni, Anto’ e molte altre varianti; ma anche nomi corti che ap- parentemente non avrebbero bisogno di diminutivi —al limite giustificabili con l’esigenza di risparmiare tempo e fiato— hanno il loro modificatore: il bisillabo Paola paradossalmente diventa il trisillabo Paoletta, e non c’è Piero o Carlo che non diventino Pierino e Carletto. Non sono rari i casi in cui si preferisce un nome alternativo al nome vero, come i Giuseppe che si fanno chiamare Vincenzo, perché il padre ha dato all’anagrafe un nome che alla madre non piaceva, la quale però in famiglia lo chiama così.

È il soprannome quello che ci fa identificare meglio il personaggio (personaggio, appunto): bisteccone, smilzo, faina, nasone e così via, ri- gonfiando grottescamente un tratto della personalità fino a farlo assurge- re ad emblema della persona, esattamente come le caricature o le paro- die, associandosi ad animali o alle bachtiniane protuberanze del corpo che sono la mina che rischia di far saltare l’unità dell’essere, se troppo lancia- te verso il mondo esterno e quindi verso l’altro da sé. Tralasceremo in questa sede le implicazioni aggressive di questo genere di epiteti, perché esulano dal nostro discorso, ma sarebbe interessante analizzare come la componente aggressiva della ridenominazione giochi un ruolo importante nei rapporti di inclusione od esclusione da un gruppo sociale, e quanto lo scrivere coperti da un nome socialmente accettato (o rifiutato) influisca nella strategia di un comico.

Il risparmio —di fiato, o di sforzo diacritico nella nostra base-dati di conoscenze— è dunque la ragione più evidente, ma non la sola. Modificare un nome significa anche imporre la propria visione del mondo, lasciare la

propria impronta sull’essere. Se il nome originale non ci piace, perché ha un brutto suono o un brutto significato, o perché ci ricorda persone e si- tuazioni spiacevoli a cui è legato, oppure (affettano quelli più raffinati) perché vogliamo evitare che la gente fossilizzi la nostra unicità nel grande gruppo dei portatori dello stesso nome, allora la cosa più semplice è “sbattezzarsi” e ribattezzarsi con un nome nuovo, spodestando così l’autorità che ci ha imposto il nome. Autarchicamente (e a volte anche burocraticamente) presentiamo al mondo una nuova persona. La ratio del nome d’arte risiede in queste precise motivazioni che sperimentiamo tutti i giorni.

Il senso quindi dello pseudonimo è (dovrebbe essere) quello di crea- re un avatar, un alter ego al di fuori del sé, il quale identifichi in modo formalmente più riconoscibile l’intrinseca condizione umana di avere ed

essere un corpo (v. cap. 2). Questo fantoccio che gioca il ruolo di nostro

doppio, para i colpi avversi in modo migliore, prendendosi però nel con- tempo anche i meriti dell’attività artistica. È uno stratagemma dovuto al- la nostra fragilità di esseri viventi:

It is because the body is discrete, local and drastically limited, not literal- ly locked into the body of its species, that we are so fearfully vulnerable. It is al- so because as infant we are almost, but never quite, locked into the bodies of others that we end up so needy and desirous.

To compensate for that fragility, human bodies need to construct those forms of solidarity we call culture, which are considerably more elaborate than anything that the body can do directly, but perilously beyond its sensuous con- trol.

(Eagleton 2000 : 111)

Rientra negli schemi della cultura il darsi un nome da se stessi, per costru- ire su di esso il nostro edificio di ‘corrispondenze d’amorosi sensi’ col prossimo, per farci sentire più sicuri o, come dice Kiberd parlando dei personaggi di Ulysses:

[…] in re-enacting the roles of Telemachus and Odysseus, these charac- ters remind us of what peoples have in common across the ages, thereby achiev- ing one of the basic purposes of art, making man feel less alone.

L’autore empirico che decide di darsi un’identità artistica firma pubblicamente un contratto con cui trasferisce debiti e crediti della pro- duzione dell’opera d’arte verso il nuovo soggetto —potremmo dire quasi una persona giuridica— che rende conto della sua attività separatamente dal suo azionista empirico, il quale però resta sempre parte attiva nella vita societaria. La “Flann O’Brien spa” —proseguendo la metafora— diven- ta così una società a socio unico (l’anagrafico Brian O’Nolan), la cui ragio- ne sociale è produrre letteratura nel mercato irlandese. Esattamente co- me le società reali, la “Flann O’Brien spa” deve pubblicizzare il suo pro- dotto, venderlo con l’obiettivo di avere un utile da distribuire ai soci, in- terfacciarsi e collaborare con altre società del settore (ad esempio la “The Bell” di Seán Ó Faoláin & Co. spa). Come le società, può chiudere, vendere o fallire. L’analogia risulta pervasiva e, a nostro parere, calzante soprattutto per il rapporto che intercorre tra la persona fisica (socio— autore empirico) e la persona giuridica (società—nome d’arte), stretto eppure nettamente separato per competenze e attività. Soprattutto, è e- vidente come la persona giuridica non possa esistere senza la persona fisi- ca che decide di costituirla, mentre è vero il contrario.

Fin qui, è chiaro, tutto va bene fino a quando le società operano nei limiti della legge. Il garbuglio ermeneutico si rivela però quando da un solo nome d’arte si passa a molti. Cosa succede quando si aprono diverse società a proprio nome, come “John James Doe snc”, “George Knowall sas”, “Myles na gCopaleen srl”? Verrebbe il sospetto che tramite “società- scatole cinesi”, le quali sono azioniste incrociate l’una dell’altra, magari con sede legale in un’isoletta paradiso fiscale (o a fiscalità vantaggiosa, com’è l’Irlanda di oggi), si stia cercando di non pagare le tasse. Fuor di metafora, verrebbe il sospetto che l’autore empirico stia cercando di sfuggire il rapporto corretto che un autore dovrebbe avere col suo pubbli- co, e stia quindi cercando d’imbrogliarlo per ricavare un profitto illecito. Può essere un sospetto eccessivo, perché la legge consente queste proce- dure, ma ci induce ad avere (nuovamente) la giusta diffidenza dell’autore e ad approfondire i riferimenti che questo fa, invece di prenderli apriori-

sticamente per buoni, inficiando così la possibilità per una sospensione dell’incredulità. I bilanci societari saranno controllati con molta attenzio- ne, invece che essere creduti sulla fiducia.

Questo caso, noi pensiamo, è quello di Brian O’Nolan, anche secon- do le parole di un suo rarissimo saggio autobiografico apparso nel 1964 su

New Ireland. Il quale, tanto per non essere mai univocamente chiaro, por-

ta in calce il nome di Myles na Gopaleen:

Apart from a thorough education of the widest kind, a contender in this field [literature] must have an equable yet versatile temperament, and the compartmentation of his personality for the purpose of literary utterance en- sures that the fundamental individual will not be credited with a certain way of thinking, fixed attitudes, irreversible techniques of expression. No author should write under his own name nor under one permanent pen-name; a male writer should include in his impostures a female pen-name, and possibly vice versa.

(Citato in Cronin, Anthony 1990 : 247; originariamente in New Ireland, March 1964)

Le quali parole complementano quanto è detto all’interno della ‘Nature of Explanation Offered’ all’amico Brinsley da parte dello studente/autore senza nome di At Swim-Two-Birds a proposito del suo lavoro letterario:

Characters should be interchangeable as between one book and another. The entire corpus of existing literature should be regarded as a limbo from which discerning authors could draw their characters as required, creating only when they failed to find a suitable existing puppet. The modern novel should be large- ly a work of reference. Most authors spend their time saying what has been said before – usually said much better.

(At Swim-Two-Birds : 25)

Naturalmente, quest'ultima possiamo anche non prenderla per buo- na, visto che si tratta di un’affermazione fatta da un personaggio fittizio e senza nome in un libro comico scritto da qualcuno che ha preferito celarsi dietro un’altra identità. Molti critici l’hanno presa sul serio (come Ninian Mellamphy, nel saggio “Aestho-Autogamy and the Anarchy of Imagination: Flann O’Brien’s Theory of Fiction in At Swim-Two-Birds”, contenuto in O’Keeffe 1973) senza mettere nemmeno in discussione la possibilità che la stessa teoria fosse un pezzo di comicità. Noi la riteniamo invece la cosa

più probabile, trovandosi in un libro comico e non in un saggio critico sullo stile comico. Tuttavia, potrebbe corrispondere alla realtà, perché non tutto ciò che è comico è anche inattendibile, come si è già detto. Tutto sta nell'avere sempre i sensi all'erta e non dare nulla per scontato, punti- gliosamente setacciando il grano dal loglio.

Creare troppe identità, dunque, non è come crearne una sola, il proprio unico alter ego al quale restare fedelmente appiccicati, e non è come avere un solo soprannome che ci accompagna per tutta la vita. Un’altra analogia la vediamo con il detto che fa: “È pericoloso per una donna avere un solo amante: è come essere sposata a due mariti”, e spie- ga anch’essa molto bene quello che intendiamo. Creare tante identità è come avere molti amanti, i quali appunto non rischiano di diventare dei secondi mariti, ma restano nell’Harem per soddisfare capricci soltanto quando serve ed esservi ributtati senza implicazioni sentimentali quando si è finito con loro. Il marito, fuor di metafora il nostro nome proprio, è un punto saldo al quale aggrapparsi sempre. L’amante, è un optional: a volte serve, a volte no; e quindi con esso sussiste soltanto un rapporto di mera utilità.

Sotto questo punto di vista Brian O’Nolan sembra aver tenuto fede a quel suo proponimento semiserio. Ma noi pensiamo che la strategia sia anche più sottile di quello che vorrebbe fare apparire. Avere molti nomi (molti amanti, molte società), significa volersi presentare sotto molte sfaccettature diverse e fingere di (fingere di, cioè giocare a) non essere noi stessi, il nostro Io, almeno in parte —la parte pubblica. I molti nomi, o le molte maschere di Brian O’Nolan ci presentano l’autore empirico da una quantità di diverse angolazioni ma non possono occultare l’unica per- sonalità che dirige l’orchestra (o che beneficia degli utili delle sue socie- tà), così come Voltaire non può fare a meno di Jean-Marie Arouet, e Wo- ody Allen di Allen Stewart Königsberg. Flann O’Brien e Myles na Gopaleen non sono persone diverse da Brian O’Nolan, sono solo sottolineature di tratti della stessa persona mentre si occupa di faccende differenti, inten-

ta a comunicare con la società dei cittadini irlandesi nella maniera a lei caratteristica che si è scelta.

Direbbe forse qualcuno che Pelè è una persona diversa dal semisco- nosciuto Edson Arantes do Nascimiento, solo perché uno è stato il famosis- simo calciatore, mentre l’altro è, diciamo, un incidente anagrafico? Dirà qualcuno che Pelè non ha scritto nulla e che l’uso dello pseudonimo com- porta implicazioni intellettuali molto più complesse nel campo artistico. Se esaminiamo allora la scelta di Moishe Segal, un ebreo che già per i Bie- lorussi aveva un altro nome, slavizzato in Mark Zakharovič Šagalov, di di- ventare Marc Chagall e di creare paesaggi parigini surrealisti e dirompen- ti, è una scelta politica nel senso più ampio che accompagna la sua produ- zione artistica e la lega indissolubilmente al nome, quel nome che mostra

quelle cose, la sua visione del mondo, che ha ricevuto nuova vita

nell’Europa e nella Francia che ha favorito la sua maturazione come arti- sta, un seppellimento e una rinascita a seconda vita con superamento di quella biologica legata al nome antico imposto dai genitori in un altro luo- go del mondo.

Ma scegliere di chiamarsi Pelè per associare queste poche lettere alla rapidità dell’azione del gol, al coro dei tifosi allo stadio, ai riti mo- derni della consacrazione delle festività nei circenses popolari, ripresi, ri- prodotti e scanditi all’inverosimile, è davvero una scelta politica anch’essa, come associare il nome dell’eroe all’impresa e il nome dell’artista all’opera d’arte. Il calciatore, l’idolo delle folle, diventa Pelè, e non più il signor do Nascimiento: si realizza uno spostamento ontologico analogo a quello del nuovo monsieur Chagall, e queste due personalità non sono autonome l’una dall’altra. Dietro il colpo di testa di Pelè c’è l’azione volontaria dell’Io di Edson Arantes eccetera, e dietro al pennello di Chagall possiamo vedere il turbinio di pensieri del tormentato Moishe e la sua storia di emigrato che vede il mondo con occhi diversi e decide do- po lunghe tribolazioni la sua patria di elezione. Lo possiamo vedere per- ché fortunatamente possediamo documenti che ce lo confermano. Di tempi più antichi, di Omero per esempio, ci è rimasto, come per la rosa di

Eco, solo il nome e le opere, mentre l’uomo è sparito assieme alle nevi

d’antan —‘right in that bucket’ 24— e non possiamo così sapere se era il suo nome vero, o un soprannome, o un nome collettivo sotto il quale han- no scritto diversi autori, o ancora un’impostura di un falsario che ha usato il nome del famoso Omero a lui precedente, del quale però non ci è giunta nessuna opera, per scrivere l’Iliade e l’Odissea, le quali invece sono so- pravvissute —molto probabilmente copiate da amanuensi irlandesi.

Insistiamo su queste puntualizzazioni sui nomi perché ci servono ad aprire l’orizzonte non soltanto sulla scelta e sull’uso che uno fa del nome inventato, ma anche della relazione che questo ha con la persona e l’autore empirici; e sempre ricordando la nostra ipotesi di partenza se-

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