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gno solenne nel definire i confini del lecito e dell'illecito sul piano del fare storia). Certamente per Spiegel esi-stono dei limiti, individuati nella so-glia della "società come testo" ispi-rata all'àntropologia ermeneutica di Geertz, al di là dei quali il gioco del-l'intertestualità diviene incontrolla-bile con strumenti storici, perché rappresentazioni, fatti e strutture, tutto si salda in un continuum di or-dine linguistico la cui "figura" è il la-birinto autoreferenziale.

Si può non essere d'accordo, co-m'è ovvio. Ma non si può mettere in dubbio la volontà, che ispira l'inter-vento, di dialogare ai confini della di-sciplina, dettando alcune mosse teo-riche che stanno in una zona periglio-sa, ben lontana dalla fiducia nel lin-guaggio come mimesi ma ancora al di qua della disintegrazione del mondo nel linguaggio. Come già abbiamo vi-sto a proposito di Duby, un'accetta-zione della sfida linguistica che non assuma le forme della resa (non ché resa non ci debba essere, ma per-ché arrendersi significa non proble-matizzare) reclama un'indagine sulle possibilità di articolazione fra testo e mondo.

Ciò che Spiegel propone è un'ana-lisi simultanea di universi in pari gra-do dinamici, la storia e ^linguaggio, entrambi dotati di specificità da co-gliere mediante un atto conoscitivo complesso che richiede un eguale do-minio di strumenti storici e teorico-letterari. La storia non è intomo al te-sto, è dentro di esso esattamente co-me il testo agisce nella storia trasfor-mandola. Allora sarà centrale l'anali-si dei momenti di condensazione di una forma testuale, su cui si scarica-no tanto il peso di una legalità inter-na agli statuti letterari e al sistema dei generi quanto le circostanze di storia attive al momento della fissa-zione di significato (o "iscrifissa-zione"): perché tale fissazione non si svolge in un "ovunque" extratemporale, ma in un "dove" che ha una sua dimora geografica, sociale, cronologica. E una volta iscritto, il testo rientrerà come parte attiva nel gioco di altri te-sti e nel gioco delle circostanze, sì da intervenire nuovamente, in quanto testo e in quanto circostanza, a ogni nuova iscrizione.

Duby, come si vede, "dà da pensa-re" nel duplice senso che la radicalità delle sue dichiarazioni indica l'ine-luttabilità del tema linguistico e ri-manda a un dibattito in pieno svolgi-mento. Non credo che in un'opera così esattamente costruita come

L'histoire continue esista spazio per la casualità. Avrà un suo significato, al-lora, quella simmetrica rispondenza tra l'apertura del testo, "L'histoire que je vais raconter débute en 1942, à l'automne", e la frase finale, ap-punto "L'histoire continue", che chiude il libro su uno spazio di possi-bilità. Del resto, siamo di fronte a una movenza tipica della scrittura di Duby, che predilige da qualche tem-po le conclusioni sospese, le ultime parole interrogative: Saint Bernard.

L'art cistercien (1976) termina su una frase del santo che decreta la fine del libro, non della ricerca; Les trois

or-dres invoca nella sua ultima riga pro-prio "Le rève... ", il miraggio di una società senza classi eppure ordinata in sue geometrie non autoritarie; "Que sait-on d'elles?", che cosa sap-piamo delle donne del medioevo?, è la domanda finale di Le chevalier, la

femme et le prètre (1981). In

L'histoi-re continue l'epilogo rilancia con una variazione le parole dell'inizio, in-trecciando deliberatamente una sto-ria personale con un'elaborazione collettiva. E giusto dire che di en-trambe una riflessione sui linguaggi è una parte determinante.

Venti di rivoluzione', che direi

mistral o altre bore francesizzanti, e venti contrari di reazione soffiano nei territori della storiografia ameri-cana, e più generalmente anglosasso-ne.

Spalancò il vaso di Pandora un paio d'anni fa "Speculum", la più gloriosa e autorevole rivista medievi-stica d'oltreoceano, pubblicando un ampio saggio di Gabrielle M. Spiegel dedicato al tema Storia, storicismo e logica sociale del testo nel Medio Evo (di questo testo e di altri che lo han-no seguito, si vedahan-no alcuni stralci nelle pagine precedenti). L'autrice, proclamando l'estinzione della "fi-ducia umanistica nella ricerca razio-nale, 'obiettiva', del passato" a se-guito del dibattito postmodernistico,

dichiara la necessità che la riflessione storiografica tenga conto delle acqui-sizioni coraggiose ottenute dallo "studio dei testi letterari". Ma dopo aver esaminato la responsabilità, in questa crisi di crescenza, di alcune fra le posizioni più significative nel confronto metodologico fra storia e discipline ad essa collegate per osmo-si (soprattutto l'antropologia di Clif-ford Geertz, che mediante gli stru-menti della semiotica e della teoria archetipica di Northrop Frye studia i comportamenti sociali come testi simbolici, e la critica letteraria erede di Lévi-Strauss, Foucault, Derrida, che muovendo da un'idea di "testo come azione simbolica" approda alla dissoluzione delle contraddizioni so-ciopolitiche in mere strutture

dell'immaginario), conclude reagen-do all'insistenza del New Historicism sulla "fondazione simbolica di ogni costruzione sociale, sia essa d'ordine testuale o no", e ribadisce che "il te-sto deve essere ricondotto al suo con-testo politico e sociale, perché si pos-sa apprezzare correttamente i per-corsi attraverso i quali il linguaggio e la realtà sociale modellano campi di attività discorsiva e materiale, per giungere infine alla comprensione di una 'logica sociale' del testo in quan-to uso 'in situazione' (situateci) del linguaggio".

Il plauso entusiastico del pontefi-ce della storiografia anglosassone qual è Lawrence Stone ha scandaliz-zato Patrick Joyce e Catriona Kelly che sono scesi in campo invocando la

necessità di "una sofisticata atten-zione per la stilistica nel senso del lessico e dell'ordine della narrazio-ne". Ulteriori repliche degli stessi Stone e Spiegel ribattono il tasto dei pericoli metodologici ed epistemolo-gici insiti nel linguistic tum.

Venti di rivoluzione, o brezzoline da cambio stagionale (o generaziona-le)? Non saprei, né vorrei, decidere. Né so rispondere al quesito grave della Spiegel, sul "posto che occupa la storia nel clima teoretico postmo-derno". Da filologo e studioso di te-sti letterari ho sempre seguito con piacere e con guadagno scientifico molti dibattiti degli storici, specie di quelli italiani, garanti di una ricca e severa tradizione storiografica. For-se preferirei ricordare altre rivoluzio-ni, altre salutari tempeste. Per esem-pio quella che sollevò Georges Duby, nei primi anni sessanta, quando av-viò le sue ricerche straordinariamen-te innovative sul vagabondaggio del-la "gioventù" aristocratica nel sud della Francia, offrendo a un Erich Koehler più di uno spunto (acuta-mente innestato nel tronco delle cor-renti psicosociologiche americane at-tive intorno al tema dei marginai

men) per arricchire i suoi studi rigo-rosamente filologici sul senso e sulla funzione di joven nell'ideologia cor-tese occitanica e sulla dialettica fra ideale e realtà nei poemi cavallere-schi antico-francesi. O l'altro uraga-no, più recente e non ancora del tut-to sopitut-to, che irruppe nel settut-tore de-gli studi iconologici (ma anche filolo-gici) con le provocatorie Indagini su

Piero di Ginzburg e poi con la sua

Storia notturna, che sullo sfondo di miti millenari arrischiava coraggiosa-mente l'incrocio fra archetipi e storie d'esclusione, sciamanismo e psicolo-gia del profondo di stampo junghia-no.

Non riesco a dissolvere la leggera impressione, tutt'altro che gradevo-le, di qualcosa che rievoca ad

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sciente, talvolta inconsapevolmente), e nascono da istanze sociali e non puramente intertestuali. Penso che gli storici debbano insistere sull'importanza del-la storia stessa come fattore costitutivo degli ele-menti che a loro volta entrano a costituire un testo.

2. Joyce: La principale acquisizione del pensiero

"postmoderno" deve essere registrata dagli storici: gli eventi, le strutture e i processi del passato sono indistinguibili dalle forme di rappresentazione do-cumentaria, dalle appropriazioni concettuali e poli-tiche e dai discorsi storici che li costituiscono. Se si è d'accordo su questo, il paradigma della social hi-story (quelparadigma che informa i fondamenti lo-gici di "Past and Present") risulta fortemente inde-bolito. Un riconoscimento del carattere irriducibil-mente discorsivo del sociale mette in crisi l'idea di totalità sociale. Non esiste alcuna coerenza eviden-te che colleghi il politico, l'economico e il siseviden-tema sociale. Esistono manifestazioni (testi, eventi, idee e così via) che hanno contesti sociali essenziali per il loro significato, ma non c'è alcuna struttura soggia-cente di cui essi possano essere considerati espressio-ni o effetti.

In tal modo, insieme con la nozione di totalità sociale si dilegua quella di determinazione sociale, centrale per la social history. Allo stesso modo si spezza la certezza di un legame di tipo materialisti-co materialisti-con la società. Risultano superate le grandi nar-razioni ispirate alla nozione di totalità sociale. Da-re una risposta alla logica antiriduzionista del pen-siero postmoderno significa perciò elaborare nuove versioni del sociale, versioni che richiedono agli sto-rici di farsi inquisitori e anche carnefici dei vecchi punti di vista. Quale ne sia il risultato, deve essere messa in crisi la santità della storia come disciplina autonoma, predicata sulla base dell'autonomia del sociale.

3. Stone: Quando ero molto giovane, quaranta o cìnquant'anni fa, mi furono insegnate le seguenti cose, nessuna delle quali aveva a che fare con il po-sitivismo rozzo del tardo Ottocento: 1) che si do-vrebbe cercare di scrivere un inglese semplice, evi-tando il gergo e l'oscurità, e chiarendo al lettore, per quanto possibile, ciò che si intende dire; 2) che la verità storica è inattingibile, e che ogni conclusione è provvisoria e ipotetica, sempre soggetta al rove-sciamento da parte di nuovi dati o teorie migliori; 3) che noi tutti siamo soggetti a influssi e pregiudizi derivanti dalla nostra razza, classe e cultura; e che di conseguenza dovremmo seguire la raccomanda-zione di E. H. Carr e, prima di leggere la storia, do-vremmo esaminare il background dello storico; 4) che i documenti — allora non li chiamavamo testi — erano scritti da uomini fallibili che facevano er-rori, asserivano cose false e avevano schemi ideofo-gici che li guidavano nella compilazione; perciò

do-vevano essere esaminati con cura, prendendo in considerazione l'intento dell'autore, la natura del documento e il contesto in cui era stato scritto; 5) che le percezioni e le rappresentazioni della realtà sono spesso molto differenti dalla realtà stessa, e qualche volta altrettanto importanti; 6) che il ritua-le svolge una funzione importante sia come veicolo di espressione religiosa sia come una dimostrazione di potere: per questo abbiamo ammirato Les rois thaumaturges di Marc Bloch (1924) e più tardi The King's Two Bodies di Ernst Kantorowicz (1951). Considerato tutto ciò, credo che, con alcu-ne eccezioni di rilievo, non somigliavamo affatto ai trogloditi positivisti che spesso ci si accusa di essere

Ciò che avrei dovuto chiarire meglio nella mia breve nota era l'effetto eccezionalmente stimolante esercitato sugli studi storici da molti nuovi modi di guardare al mondo, per la maggior parte collegati con il linguaggio e il relativismo, che ora sono allog-giati in m odo alquanto incongruo sotto il tetto ospitale del postmoderno. La mia unica obiezione sorge quando si dichiara non che la verità è inattin-gibile, ma che non esiste una realtà che non sia una creazione soggettiva dello storico; in altre parole, che è il linguaggio a creare il significato che a sua volta crea la nostra immagine del reale. Questa af-fermazione distrugge la differenza tra fatto e

narra-zione, e rende del tutto aleatorio il noioso lavoro d'archivio che cerca di trarre "fatti" dai testi. È so-lo a questo punto estremo che gli storici sentono l'e-sigenza di esprimere la loro inquietudine.

4. Spiegel: Nella formulazione di "logica sociale

del testo" ho cercato di far confluire una prospetti-va d uplice, di analisi dei testi (sia letterari sia docu-mentari) e dei loro contesti sociali. La formulazio-ne cerca di combinare in un insieme unitario ma complesso un protocollo d'analisi per l'ubicazione sociale del testò (lo spazio sociale che esso occupa, sia in quanto prodotto di un particolare mondo so-ciale sia in quanto agente attivo in quel mondo) e il suo intrinseco carattere discorsivo in quanto "lo-gos", cioè in quanto lavoro letterario fatto di lin-guaggio e perciò da analizzare per via letteraria, vale a dire formale [...].

I testi, in quanto reificazioni di usi specifici del linguaggio, riflettono nella loro stessa materialità l'inseparabilità di pratiche materiali e discorsive, nonché il bisogno di conservare il senso della loro reciproca implicazione e interdipendenza nella pro-duzione sociale di significato. E dunque implicita nella nozione di "logica sociale del testo" la con-vinzione che noi possiamo recuperare qualche senso del mondo sociale del passato: una convinzione che d'altra parte ci impegna a un'accettazione almeno parziale della capacità strumentale del linguaggio di fornire informazioni sulle forme storiche di vita, perché senza questa capacità non potremmo cono-scere nulla della storia, neppure in un'accezione li-mitata.

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