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Dario Fo JOHAN PADAN

f.to cm 34x48 - pp. 128 oltre 100 tavole a colori - L. 65.000 «Questo Johan Padan è una rilettura della conquista dell'America... un rac-conto sgrammaticato, che però svi-scera diverse rivelazioni su come andò davvero la scoperta di Cristoforo Colombo...»

EDIZIONI GRUPPO ABELE

V. Giolitti 21 • Torino - Tel. 011-8395443/4 DISTRIBUZIONE GRUPPO EDITORIALE FABBRI

te non più, agli occhi di Duby, nei termini in cui essa era stata condotta nelle sue prime opere. Procura anzi qualche sorpresa a quanti sono abi-tuati a guardare con ammirazione al-la grande ricerca sul Màconnais (1953) il disincanto di cui la investe l'autore. Sia chiaro, quel libro rima-ne il nucleo gerima-neratore della medie-vistica di Duby: "du livre que j'ai achevé de rédiger en 1951... est sor-ti, je m'en apergois, tout ce que j'ai produit par la suite". E tuttavia, sul piano del linguaggio dei testi, la pre-sa di distanza è recipre-sa, ancorché gar-bata: i documenti sono stati letti con riguardo al loro "sens extérieur, ap-parent", era ingenua l'illusione di at-tingere direttamente una verità ("naivement, je prétendais entrer en

communication directe avec ces guerriers, ces paysans"). Insomma, nell'arco della sua narrazione Duby tiene a sottolineare la cesura tra le sue ricerche economico-sociali e quelle di storia della mentalità, fa-cendola coincidere anche con un de-ciso rovesciamento (risalente all'in-circa al lavoro su L'an Mil, 1967) nel modo di considerare le fonti. L'ap-prodo è radicale: se la verità è inac-cessibile, non rimane che accettarne l'impenetrabilità e riformulare le ri-chieste. Occorre spostare l'attenzio-ne da ciò di cui i testi parlano al mo-do in cui ne parlano, al meccanismo di esclusioni, inclusioni e scelte reto-riche che permette a una visione del mondo (Duby insiste: inevitabilmen-te individuale e soggettiva) di

incor-porarsi in un testo.

Il linguistic tum non è dunque pas-sato invano. Che l'onda d'urto inve-sta anche la riflessione intrapresa da Duby sulla sua attività medievistica è interessante per tre motivi. In pri-mo luogo dà a vedere che la rivendi-cazione di sfiducia nelle concezioni mimetiche del linguaggio costituisce un punto di partenza ormai diffuso presso gli storici (certo non in modo indiscusso, come prova il dibattito documentato e commentato in que-ste pagine). In secondo luogo, vanno messe in rilievo le modalità di cresci-ta di quescresci-ta consapevolezza: siamo di fronte a una posizione spontanea-mente suggerita da un lavoro ostina-to sul linguaggio delle fonti, gli slitta-menti semantici, le riconversioni di

significato indotte nelle parole dai soggetti che le pronunciano e le inca-nalano dentro sistemi retorici; in-somma, la svolta linguistica di Duby sembra trovare il suo terreno di col-tura, più che nel dibattito post-strut-turalista, nell'atelier di uno storico serenamente disposto a rimettere in causa le sue abitudini. Infine, ridu-cendo il problema all'essenziale: se un testo rielabora una visione della società, e dunque non riproduce un "altrove" situato al di fuori di se stesso, ciò equivale davvero all'im-possibilità di una qualche forma di

articolazione del testo rispetto a si-tuazioni extralinguistiche? Non cre-do sia questa la posizione di Duby. Nei Dialogues con Guy Lardreau (1980) è da un lato affermata la qua-lità linguistica dei materiali dello sto-rico sociale ("mots" e "signes"), e d'altro canto è ribadita la possibilità-necessità di collegare i processi di conferimento di significato, di volta in volta identificati, con le trasfor-mazioni nell'universo dei rapporti sociali. Il fondamentale libro sui

Trois ordres (1978), d'altra parte, non esisterebbe al di fuori della convin-zione che fra i due poli del linguaggio e della storia si inneschi un circuito di reciproche interferenze: ne deriva una struttura sapientemente costrui-ta, ordinata su un asse verticale di diacronia relativamente lunga (all'in-circa dal 1025-30 al 1225), e tagliata orizzontalmente da ampi spaccati sincronici, sezioni di società e men-talità (tra cui appunto l'ampia sezio-ne di Circonstances). Insomma, se-mantica storico-sociale: un'arte di cui Duby aveva dato prove non solo nel contributo celebre sui giovani ca-valieri (che uscì nel 1964) ma anche in tempi successivi alla sua crisi di fi-ducia nella capacità del linguaggio di restituire un mondo, come in un sag-gio dedicato alla diffusione del titolo cavalleresco tra la fine del secolo X e l'inizio del XII in un'area estesa dal-la Catalogna al Lazio (in La noblesse

au moyen àge, a cura di Ph. Contami-ne, 1976).

Il divario in Duby tra radicalità dell'enunciazione e possibilismo del-le pratiche sta a significare la dimen-sione del problema di fondo, che consiste molto semplicemente nella domanda se sia possibile fare storia di qualcosa al di là dei testi che di quel qualcosa parlano. Molti storici se lo chiedono oggi, sì che l'interro-gativo va considerato assai meno

ar-riéré di quanto paia a Corrado Bolo-gna. Allargando il campo di osserva-zione, sembra in corso la ricerca col-lettiva di una soluzione soddisfacen-te per chi da un lato non voglia limitarsi a ignorare che un linguistic

turn c'è stato davvero, e dall'altro non voglia diventare seduta stante storico dei linguaggi o teorico della letteratura (rimanendo peraltro dub-bio che la conversione disciplinare possa garantire maggiore affidabilità nelle risposte). Il dibattito recente sulle pagine di "Speculum" e di "Past and Present" è dunque utile, perché mostra, almeno nell'interven-to di apertura di Gabrielle Spiegel, una volontà serena di non irrigidire le posizioni e di tendere quasi fino al limite di rottura l'elasticità del rap-porto dello storico con i suoi materia-li di lavoro (da questo punto di vista la sua posizione non mi pare assimila-bile a quella di Stone, che del contbuto di Spiegel opera piuttosto un ri-lancio in tono pesante, sostituendo alla volontà inclusiva un certo

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Una logica sociale del testo?

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