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PARTE PRIMA. IL QUADRO INTERNAZIONALE

2. Il VAGLIO DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE

2.3 La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo

Numerosi casi sottoposti alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, ruotano prevalentemente intorno alla violazione dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, che così recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o

trattamenti inumani o degradanti".

In particolare sembra rilevante riportare due sentenze che, per il loro contenuto, sono da un lato esemplificative della situazione carceraria italiana, dall'altra, esprimono concetti e parametri di estrema importanza, destinati a costituire precedenti importanti per il futuro.

a) Caso Scoppola

Nel ricorso n. 50550/06, Scoppola c/Italia, presentato alla Corte Europea dei Diritti dell'uomo, il richiedente, condannato all'ergastolo dalla Corte di assise di appello di Roma nel gennaio

2002, sostiene di aver subito, durante la sua permanenza in carcere, trattamenti inumani, vietati ai sensi dell'art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo.

Scoppola rappresenta un condannato "vulnerabile" per eccellenza: alla normale situazione di debolezza, che deriva dallo stesso status di detenuto, e quindi privato della propria libertà, si associano due ulteriori fattori, l'età e lo stato di salute fisica. Si tratta infatti di un uomo anziano - al momento della sentenza aveva 67 anni - disabile e sostanzialmente allettato, meritevole pertanto di speciali cure e garanzie.

Nel 2005 la Corte aveva rigettato un ricorso simile, il n. 10249/03, avanzato dallo stesso Scoppola, perché al momento del processo, le condizioni del detenuto non erano tali da essere giudicate incompatibili con la detenzione.

In seguito alla frattura del femore avvenuta nell'aprile 2006 e al conseguente aggravamento delle condizioni fisiche del richiedente, il competente tribunale di sorveglianza, con un ordinanza depositata il 21 giugno 2006, aveva ritenuto che le condizioni di salute del detenuto, imponevano misure alternative alla detenzione.

Nel settembre dello stesso 2006 l'ordinanza del 21 giugno venne revocata per la mancanza di un domicilio che fosse adatto alle condizioni del richiedente. Fu infine deciso il trasferimento del richiedente presso il penitenziario di Parma. La cosa comportò un peggioramento dello stato di salute psichica del detenuto, essendo stato allontanato dai familiari.

Analizzati questi fatti, la Corte Europea dei diritti dell'Uomo ha riconosciuto i danni subiti dal richiedente e ha

imposto allo Stato italiano di versare 5.000 € a titolo di risarcimento.

L'orientamento della Corte è chiaro: lo Stato deve garantire l'espiazione di una pena "legittima". Questa, pur comportando, inevitabilmente, un certo grado di sofferenza e umiliazione nel detenuto, non deve mai infliggere sofferenze e umiliazioni che superino una certa soglia, configurandosi in tal caso come "pena inumana". Nella sentenza si legge infatti:

"Trattandosi, in particolare, di persone private della libertà, l’articolo 3 impone allo Stato l’obbligo positivo di assicurarsi che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad un logorio o ad una afflizione di tali intensità da eccedere il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione [...]. Le condizioni di vita carceraria di una persona malata devono garantire la protezione della salute con riguardo alle contingenze ordinarie e ragionevoli della detenzione. [...]. L’articolo 3 della Convenzione impone in ogni caso allo Stato di proteggere l’integrità fisica delle persone private della libertà. [...]. Nell’implementare i principi suindicati la Corte ha già altre volte concluso che mantenere in detenzione per un periodo prolungato una persona di età avanzata, e per giunta malata, può ricadere nel quadro di quanto previsto all’articolo 3."9

9 Caso Scoppola c/Italia, Strasburgo, Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Sentenza del 10 giugno 2008 , ricorso n. 50550/06.

b) Caso Sulejmanovic

Con la successiva sentenza del 16 luglio 2009, relativa al Caso Sulejmanovic, l'Italia viene per la prima volta condannata per la violazione dell'art. 3 della Convenzione, a causa del sovraffollamento carcerario.

Il caso Scoppola c/Italia, come si è visto, costituisce un importante precedente perché sancisce l'incompatibilità di un certo stato di salute fisica con la condizione detentiva, proclamando altresì la superiorità della dignità della persona umana rispetto al diritto dell'esecuzione della pena. Invece, nel caso Sulejmanovic, sono le condizioni materiali della detenzione, e non elementi soggettivi, che vengono sanzionati dalla Corte.

Il caso riguarda un cittadino bosniaco, Izet Sulejmanovic, condannato ad un anno, 9 mesi e cinque giorni di reclusione per furto, ricettazione e falso. Recluso nella Casa circondariale di Roma - Rebibbia, si trovava a dover scontare la propria pena in una cella di 16 mq circa, da dividere con altre cinque persone. Ognuno di loro aveva dunque a disposizione una superficie inferiore a 3 mq. Inoltre, come riferito alla Corte durante il processo, era loro concesso di uscire dalla cella per non più di 4 ore e mezza al giorno.

In considerazione di questi elementi e in riferimento alla normativa sia interna che internazionale, la Corte condanna l'Italia a versare una somma pari a 1.000 euro, a titolo di risarcimento per danno morale, per aver violato l'articolo 3 della Convenzione, articolo considerato fondamentale per regimi democratici.

È interessante leggere inoltre l'opinione concordante del giudice Sajò, riportata in margine alla sentenza. Il giudice, rilevata la violazione dell'art. 3, ne sottolinea un aspetto in particolare: rileva come tale violazione non sia legata strettamente alla dimensione delle celle o alla condizione di sovraffollamento che, per quanto sia in aperta violazione con le norme internazionali in materia, non è tale, afferma il giudice, da compromettere irrimediabilmente la salute mentale o fisica del ricorrente. In questo caso, sottolinea il giudice, è la negligenza dell'Italia che viene in rilievo, in quanto lo Stato non ha messo in

atto alcuna misura per compensare il momentaneo

sovraffollamento delle carceri. Il giudice afferma: “Nelle

particolari circostanze del caso, l’inumanità della situazione risiede nel fatto che lo Stato non ha dimostrato di avere adottato misure compensative supplementari per attenuare le condizioni estremamente gravose derivanti dalla sovrappopolazione del carcere. Esso avrebbe potuto prestare particolare attenzione alla situazione, ad esempio concedendo altri vantaggi ai detenuti. Ciò sarebbe servito a far passare loro il messaggio che lo Stato, pur dovendo far fronte ad un’improvvisa crisi carceraria, non era indifferente alla sorte dei detenuti e intendeva creare condizioni detentive che, tutto sommato, non facessero pensare al detenuto come a nient’altro che un corpo da dover sistemare da qualche parte. Nel caso di specie, la mancanza di attenzione da parte dello Stato aggiunge una punta d’indifferenza all’acuta sofferenza causata dalla punizione, sofferenza che andava già quasi oltre l’inevitabile (Kudła c/Polonia [GC], n. 30210/96, §

92, Corte Europea dei Diritti dell'Uomo 2000-XI).”10

I giudici della Corte di Strasburgo ribadiscono quanto sancito dal CPT in merito alle dimensioni delle celle. La Corte afferma: "Esso impone allo Stato di assicurarsi che le condizioni

detentive di ogni detenuto siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad un disagio o ad una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano adeguatamente assicurate"11.

3. IL SOVRAFFOLLAMENTO NEGLI ISTITUTI