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Introduzione (le buone intenzioni)

I costi standard sono stati introdotti con legge (L.42/2009) con l’obiettivo di passare dal criterio del costo storico a quello del costo standard:

- Il primo indica quanto storicamente si è speso per un determinato servizio per cui quanto veniva trasferito alle varie Regioni sotto forma di trasferimenti dipendeva da quanto una Regione aveva speso nell’anno precedente.

- Il secondo indica il costo di un determinato servizio, che avvenga nelle migliori condizioni di efficienza e appropriatezza, garantendo i livelli essenziali di prestazione.

Secondo quanto sancito dalla norma il costo standard è definito prendendo a riferimento la Regione più “virtuosa”, vale a dire quella Regione che presta i servizi ai costi “più efficienti”. In sostanza, per il finanziamento degli enti territoriali, la determinazione dei costi dovrà essere adeguata a una gestione efficiente ed efficace di Pubblica Amministrazione, tenendo anche conto del rapporto tra il numero dei dipendenti dell’ente territoriale ed il numero dei residenti.

I costi standard rappresentano per le Regioni, cioè per i soggetti che spendono, il nuovo modello economico di riferimento sul quale fondare:

- il finanziamento dell’attività pubblica afferente;

- l’erogazione ai cittadini dei principali diritti sociali (sanità, assistenza sociale e istruzione, nonché trasporto pubblico locale).

Essi saranno introdotti nel sistema finanziario “retributivo” delle prestazioni e dei servizi pubblici essenziali, in relazione ai fabbisogni (altrettanto standard) da soddisfare, individuati per garantirne l’erogazione delle prestazioni e dei servizi in condizioni di efficienza e appropriatezza, su tutto il territorio nazionale.

Sostanzialmente, i costi standard consentono la rideterminazione del fabbisogno standard ideale, necessario per assicurare a tutti i cittadini le prestazioni/servizi essenziali, ovverosia quanto questi dovranno costare nei diversi territori regionali, in favore dei quali andranno, rispettivamente, attribuite le risorse relative.

Il concetto dei costi standard è legato a due fondamentali scopi:

- ottimizzare e omogeneizzare i valori produttivi e, attraverso essi, contenere i prezzi;

- valutare gli scostamenti dei costi reali e, con essi, lo stato di efficienza del sistema produttivo.

Le autonomie territoriali regionali che spenderanno di più rispetto “ai costi giusti”

riconosciuti in loro favore, dovranno procurarsi le risorse aggiuntive anche attraverso il ricorso all’esercizio del proprio potere di imposizione fiscale.

Una metodologia difficile e pericolosa per la sanità

Il “costo standard’” nasce dalla contabilità industriale e il tentativo in atto è quello di trasferirlo tout court alla sanità. Esso nel settore manifatturiero è un costo definito in base a una costruzione ex ante dell’impegno economico che l’unità produttiva dovrà sostenere per l’esecuzione del ciclo produttivo. Tale costo, infatti, viene calcolato in base a predefiniti livelli di efficienza e di prezzo in relazione a determinate condizioni operative in uno specifico lasso temporale.

Per definire il concetto di costo standard è necessario, in primis, distinguere due tipologie di costi:

- costo effettivo: oneri realmente sostenuti per la produzione di un bene/servizio;

- costo previsto: costo che si prevede di sostenere in un determinato periodo di riferimento in relazione sia alle condizioni operative e funzionali in cui l’azienda opera, che delle azioni che l’azienda stessa intende attuare per il raggiungimento dei propri obiettivi

Il costo standard si pone quindi come uno strumento di controllo dell’efficienza aziendale e supporto per la determinazione dei prezzi di vendita e nell’ambito della contabilità industriale può essere calcolato:

- in sede previsionale, come valore stimato verificabile solo a posteriori e/o determinato sulla base di assunzioni;

- in sede consuntiva invece viene calcolato il costo effettivo, che è il costo analitico esatto che può non coincidere con il valore stimato per molteplici motivi

Dal confronto (differenza) fra costo standard e costo effettivo possono emergere scostamenti più o meno significativi, che vanno sottoposti ad analisi (cosiddetta “analisi degli scostamenti”).

Da queste caratteristiche si deduce quanto sia difficoltoso applicare il costo standard alla sanità nel senso che è difficile tanto calcolare i costi effettivi quanto quelli previsti per non parlare del calcolo analitico dei vari processi presenti nel settore sanitario.

Naturalmente in sanità vi sono settori e settori: una radiologia è più facile da standardizzare mentre meno facile è una medicina interna ancor meno è un dipartimento di salute mentale. Sicuramente è più facile calcolare il costo di una mensa o quello delle pulizie. Ma l’intero comparto clinico pur nelle sue varie realtà si presta male alla standardizzazione dei costi. L’esperienza dei DRG ci conferma che ad esempio il rapporto

prestazioni/tariffe è più difficile di quello che si crede. Lo sanno le Regioni che pur hanno tentato di usare i costi standard per definire l’allocazione delle risorse (riparto 2013) ma che sono state costrette a ripiegare sui vecchi criteri delle quote ponderate limitandosi a ponderarli un po’ di più.

In generale i parametri per determinare i costi standard dovranno tenere conto di molte variabili:

- la dimensione dei territori degli enti destinatari in rapporto alla loro composizione orografica,

- il sistema infrastrutturale di sostegno, - le condizioni fisiche e socio-economiche,

- le caratteristiche delle popolazioni interessate.

Queste ultime si renderanno destinatarie/beneficiarie della eventuale perequazione compensativa, posta a garanzia dell’esigibilità dei diritti di cittadinanza su tutto il territorio nazionale. Pertanto, gli stessi, per essere correttamente definiti, necessiteranno di precisi indicatori economici di spesa per unità di servizio e/o di funzione.

Per la definizione di fabbisogno standard si possono utilizzare diversi concetti che vanno dal principio di spesa efficiente a quello di esborso necessario o ottimale, passando per quello di livello minimo o essenziale della prestazione. Ma tutto questo in sanità non è così semplice come si pensa. Secondo i principi della norma il fabbisogno standard costituisce l’indicatore rispetto al quale comparare e valutare l’azione pubblica. I fabbisogni standard, quindi, rappresentano i nuovi parametri cui agganciare il finanziamento delle spese fondamentali della sanità, per assicurare un graduale e definitivo superamento del criterio della spesa storica. Ma questo in sanità è facile da dirsi ma molto difficile da farsi. Inizio moduloL’ultimo riparto del Fsn deciso dalla conferenza Stato Regioni sulla proposta del Ministero della Salute di deliberazione del Cipe è avvenuto in ottemperanza al criterio del costo medio standard ottenuto con la media ponderata dei costi delle tre Regioni benchmark, ossia Marche, Umbria e Veneto, individuate nella conferenza Stato Regioni del 17 dicembre 2015. Il fondo è costituito da un fondo indistinto, quote di riequilibrio e risorse vincolate.

Ma tutto questo in sanità è davvero super complesso per cui ancorare il finanziamento alle Regioni al fabbisogno standard e con questo definire ad esempio i livelli essenziali delle prestazioni (art. 11, comma 1, lettera b della legge delega) può essere pericoloso. Se la standardizzazione non è adeguata si rischia di non assicurare la copertura dei diritti delle persone. Ma quello che forse è ancor più pericoloso è che se lo standard è inteso come un obiettivo indicatore di bisogno finanziario esso può diventare strumentale a rendere esigibili solo bisogni standard. A questo punto la differenza tra minimo e standard diventa poco significativa.

Cosa non cambia

Il risultato è ottenuto dalla prima applicazione dei costi standard rispetto al riparto sanità 2013 è stato deludente.

Le magagne sono venute fuori. I così detti “costi standard” si sono rivelati null’altro che una revisione dei criteri di riparto ricalcolati “in qualche modo” ricalcolando i pesi della classica ponderazione capitaria. Niente di più. Coloro che pensavano con i costi standard di risolvere il problema della siringa “multi price” o comunque di azzerare la corruzione in sanità, o addirittura di garantire la sostenibilità del sistema si sono ritrovati piuttosto delusi.

Per fare i costi standard in sanità si dovrebbe governare un mare immenso di dati, dati però che non sono disponibili ciò rende fallace la loro metodologia per cui l’idea del product costing si rivela inappropriata alla cura delle malattie, come quella del benchmark che avrebbe dovuto confrontare best practies. Per fare i costi standard avremmo infine dovuto disporre di una contabilità analitica sulle performance in alternativa ai metodi classici per il controllo dei costi storici.

Le Regioni hanno sbattuto il naso contro queste iper-complessità, e infatti sono ora loro stesse a chiedere un cambiamento con una nuova proposta dove si punta su altri indicatori per superare (anche se solo in parte) il mero criterio della quota pro-capite standard basata sulla spesa sanitaria per popolazione residente nelle Regioni benchmark.

Del resto le variabili vere del riparto, sono costituite da due fattori esterni:

- l’abolizione dei criteri di compensazione tra Regioni (lapis), che tuttavia sta rientrando dalla finestra utilizzando nella spartizione del cosiddetto “fondino”;

- la popolazione calcolata sulla base dell’ultimo censimento Istat.

Cioè chi decide ancora una volta è il numero dei residenti su cui si calcola la quota pro capite di spettanza. Questa proposta di riparto non ha quindi nulla a che fare con i costi standard. Essa calcola il costo medio pro-capite delle tre Regioni benchmark rapportato alla popolazione pesata al 1 gennaio 2012, moltiplicando il risultato ottenuto per la popolazione pesata di ciascuna Regione suddividendo i risultati per singoli LEA e quindi in proporzione per i singoli sub-livelli (prevenzione, medicina di base, farmaceutica, specialistica, altra territoriale e ospedaliera) secondo una certa percentuale.

Il vero problema quindi non è “cosa cambia” ma “cosa non cambia”:

- non cambia l’idea dei fondi indistinti, cioè viene scartata la possibilità di dare soldi alle Regioni in rapporto agli esiti,

- non cambia la ripartizione delle risorse sulla base della spesa storica quindi si

continua a prescindere dalle performance dei servizi,

- non cambia l’idea di ripartire anziché allocare cioè rapportare risorse a scopi di salute, a progetti di riconversione, a riorganizzazione dei servizi.

Con questo genere di riparto sicuramente rischiano di aggravarsi le condizioni di certe Regioni (Lazio, Molise, Abruzzo, Calabria, Campania ecc.) che avranno meno risorse e che resteranno ancora una volta appese alla benevolenza del “lapis/fondino”.

Standardizzazione contro ponderazione

I costi standard sono criteri lineari non ponderati per allocare risorse e calcolati con una discutibile metodologia di benchmark con lo scopo di livellare i pesi demografici, sociali, epidemiologici, geografici della domanda di salute ecc. Eppure se consideriamo che vi sono realtà sociali altamente eterogenee quali sono i territori delle nostre Regioni, non di costi standard avremmo bisogno ma di criteri analiticamente ponderati. La differenza sostanziale tra la standardizzazione e la ponderazione è tra una visione lineare e una visione discreta. I costi standard sono una delle tante espressioni della logica lineare come i tetti di spesa, i prezzi di riferimento, gli sconti imposti, il taglio dei posti letto ecc.

Ma se si invocano i costi standard per risparmiare…vuol dire che si vuole “allocare per tagliare” il che non sembra una gran trovata perché si scade nella banalizzazione e nella indebita semplificazione della complessità sanitaria. Non c’è cosa più ingiusta che snaturare la complessità della domanda sanitaria con un pensiero banale. Insomma questa passione da parte delle Regioni per i costi standard, idea strettamente abbinata al federalismo fiscale, rischia di apparire come una passione per il predefinito, il meccanico e l’automatico, il banale, il semplificatorio che ci conferma, ancora una volta i limiti di chi non riesce a governare sul serio la complessità. Dopo la spending review le Regioni a corto di idee vogliono massimizzare il risparmio con i costi standard.

Ma molti temono che i “costi standard” siano un altro modo per tagliare la spesa sanitaria. Una preoccupazione fondata per tre ragioni:

- senza una strategia riformatrice con delle politiche apertamente de-finanzianti è difficile pensare ad essi come ad una misura di rifinanziamento della sanità;

- la loro logica è “induttiva” cioè generalizza condizioni particolari di spesa per uniformare le differenze di sistema che esistono, quindi tende ad appiattire e a ridurre una complessità irriducibile;

- obbediscono a logiche lineari e centralistiche e tendono a superare i sistemi di finanziamento ponderati che sia pur con molti limiti sino ad ora hanno tentato di interpretare i differenti fabbisogni regionali.

Non basta un generico benchmark a evitare le contro indicazioni dei costi standard. Le

sue tipologie sono tante e nessuno pone il problema di quella più adatta alla complessità sanitaria. Ma la questione di fondo è la sua finalità. In genere nelle politiche industriali il benchmark viene utilizzato per la reingegnerizzazione dei processi aziendali o per un miglioramento delle qualità dei prodotti o per individuare delle best practice da studiare e imitare. In sanità da quel che sembra esso sarebbe impiegato per calcolare con strumenti statistici dei costi. Si ha il fondato timore che quello che pomposamente viene definito benchmark non sia altro che un raffronto ragionieristico tra bilanci più o meno in pareggio di Regioni scelte con un qualche criterio.

Altra cosa sarebbe se il benchmark prevedesse un cruscotto di indicatori sulle best practice ciascuno con nome e metrica, che siano oggettivi, comprensibili, misurabili, rappresentativi di valori da sviluppare e estendere. Meglio ancora sarebbe se la scelta dei valori da confrontare e dei relativi indicatori di prestazione chiave (key performance indicators) fosse suffragata con una verifica di robustezza in cui le valutazioni fossero a loro volta sostenute da un metodo a punteggio (ad esempio l’analytic hierarchy process).

Per fare un buon benchmark le metriche devono essere uguali per tutte le Regioni oggetto del benchmark altrimenti salta la confrontabilità dei risultati. Escludere dalla confrontabilità le Regioni del sud è molto grave perché vuol dire considerare certe metriche e non altre. Ma da quello che si capisce in sanità il benchmark è un metodo

“spannometrico” utilizzato per definire target finanziari più bassi.

Ma vediamo perché i costi standard per la sanità sono un problema:

- nella contabilità industriale essi sono uno strumento di controllo dell’efficienza aziendale, in sanità dove il controllo delle performance dipende da una moltitudine complessa di variabili essi sono impiegati come strumento di pianificazione al ribasso dei costi;

- solitamente i costi standard, sono posti in relazione al budget per motivare gli operatori responsabili del raggiungimento o meno dello standard prescelto. In sanità gli operatori saranno le prime controparti dei costi standard;

- in sanità essi non sono costi effettivi calcolati in sede consuntiva cioè dei costi analitici esatti ma semplicemente “approssimativi tetti di spesa” più tollerati da certe Regioni meno tollerati da altre che recepiscono non il costo atteso nel futuro per produrre salute, ma la minore spesa attesa indipendentemente dalla salute prodotta.

Ma i problemi più seri sono collegati tutti alla complessità dei malati:

- i costi standard non tengono conto della percentuale di scarti, legata alla variabilità naturale del processo di cura e questo in sanità è un limite gravissimo;

- i costi delle cure per ragioni intuibili non possono essere standardizzati più di tanto e comunque devono prevedere dei margini di interpretazione perché soprattutto la variabilità dei malati costituisce un grosso fattore di complessità;

- il rischio è la “cura di Stato” che altro non è se non a sua volta una forma di medicina amministrata

- i costi standard decontestualizzano i costi dai bisogni e dall’organizzazione adatta a soddisfarli per cui salta tutto il discorso della territorialità, dell’umanizzazione, della personalizzazione delle cure, del prendersi cura, delle cure centrate ecc.

Ma il grande problema che i costi standard pongono sono gli scostamenti fra valori standard e valori effettivi. Nelle strategie industriali la “variance analysis”, assume un ruolo fondamentale di controllo delle performance ed indirizzo delle politiche correttive per il raggiungimento degli obiettivi produttivi. E in sanità? Cosa devono fare le aziende quando gli scostamenti sono giustificati dalle necessità delle cure? Siccome la maggior parte delle Regioni avranno il problema degli scostamenti, cosa si pensa di fare?

Il rischio di fare dei costi standard una malcelata politica di tagli lineari, è forte. Infatti se essi non fossero calcolati correttamente, (vi sono costi diretti e indiretti, di deriver cost, full cost ecc.) essi sarebbero fatalmente calcolati al ribasso rispetto ai costi reali del sistema. Inoltre, come dicevamo mancando tutti i parametri in grado di rappresentare l’intera complessità del sistema si rischierebbe di falsare i dati. I parametri esistono sugli ospedali ma sul territorio c’è poco o niente. Ma la sanità non è fatta solo da ospedali.

Capitolo 8

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