quello che non abbiamo mai riformato
Tutto nasce dal default delle mutue
La ragione centrale che ha fatto nascere la riforma del ’78 ha a che fare con la questione della sostenibilità: il sistema mutualistico andò in default cioè diventò insostenibile e la riforma fu pensata per risolvere la questione. La riforma avrebbe dovuto riformare il sistema sanitario per rimettere in equilibrio la domanda di salute con l’offerta con lo scopo di far costare di meno il sistema delle tutele nel suo complesso, ma l’impresa oggi alla luce di quello che è accaduto è andata storta: la riforma non è riuscita a riformare quello che avrebbe dovuto riformare. Oggi se siamo alla frutta è perché la riforma del ’78 poi ripensata nel 92 e ancora ripensata nel ’99 non ha funzionato. È inutile negarlo.
Quindi è bene ricordare che la riforma del ’78 è nata in funzione dell’insostenibilità del sistema mutualistico. A coloro che obiettano a questa tesi ricordando le lotte operaie, la stagione dei diritti, le leggi per l’emancipazione ecc. cioè che sostengono che la riforma del ’78 è il frutto di tutte queste cose bisogna chiarire, che ciò è vero ma nella misura di una sovrapposizione felice di istanze. Prima delle lotte operaie la commissione Dogliotti (1964) aveva in un certo senso già deciso il futuro ’impianto della futura riforma del ’78 proprio a partire dalla necessità di superare il sistema mutualistico. La riforma del ’78 fece proprie le conquiste delle lotte delle donne, quelle della salute nei luoghi di lavoro, quelle per la chiusura dei manicomi, ma non fu determinata cioè causata da esse fu determinata e causata anzitempo dal default del sistema mutualistico.
Oggi da un punto di vista storico si può dire che:
- i problemi di sostenibilità del nostro sistema sono per lo più legati ai limiti della riforma del ’78 a risolvere i vecchi problemi di sostenibilità delle mutue;
- la riforma del ’78 e successivi ripensamenti (1992/1999)non è riuscita a creare nuovi equilibri tra domanda e offerta non essendo riuscita a riformare i servizi portanti del sistema, per esempio il modello di ospedale del 38,la condotta medica del 34.la specialistica ambulatoriale di stampo mutualistico.
Ebbene la relativa irriformabilità degli assi portanti del sistema sanitario, insieme alla fallimentare esperienza delle politiche di prevenzione, oggi sono alla base dei nostri attuali problemi di sostenibilità resi ancor più acuti da situazioni di crisi economica, e strumentalizzate dalle politiche di de-finanziamento.
Cosa possiamo imparare da queste vicende? Queste le deduzioni:
- oggi la questione sostenibilità viene da lontano cioè non è un problema contingente
ma strutturale;
- essa inerisce la storia del nostro sistema sanitario e il suo grado di relativa irriformabilità;
- oggi la questione sostenibilità è resa acuta quindi drammatizzata a causa dei precedenti irrisolti problemi di sostenibilità e dai problemi legati alla crisi economica;
- oggi per queste ragioni la questione sostenibilità può precipitare in una dolorosa discontinuità del sistema.
In sostanza abbiamo conferma che:
- la sostenibilità è una funzione riformatrice che riguarda l’equilibrio tra bisogni e risorse;
- non riformare il sistema crea problemi di sostenibilità;
- fare sostenibilità oggi significa riformare quello che non è mai stato riformato sino ad ora.
Conclusione:
Se sostenibilità e riforma sono la stessa cosa oggi se vogliamo che il sistema sanitario pubblico duri ancora nel tempo allora abbiamo bisogno di una “quarta riforma” che faccia quei cambiamenti che le riforme precedenti non hanno fatto. Le priorità sono quelle di sempre: costruire salute, riformare l’ospedale e la medicina di base, ripensare la forma di governo, reinventare il lavoro.
La super mutua
Circa 40 anni fa abbiamo fatto una riforma che ha cambiato il sistema e che avrebbe dovuto garantire sostenibilità. Come sono andate le cose? 40 anni fa il consumo e l’uso di sanità in tutta Europa è schizzato in aria (evoluzione demografica, ruolo dell’innovazione, espansione della domanda di salute, ecc.) trascinando in questa crescita la spesa mutualistica. In una parola le mutue muoiono perché finanziariamente insostenibili. Il servizio sanitario universale al contrario nasce per risolvere questo problema. Il sistema mutualistico esaurisce la sua funzione perché:
- vistoso è il divario tra arretratezza della sua offerta e la nuova domanda;
- culturalmente fuori gioco perché la medicina che offre è incongrua alla nuova domanda di salute (ospedali e ambulatori);
- finanziariamente debitoria perché cronicamente in disavanzo;
- troppo dispendioso anche a causa della molteplicità dei suoi centri di spesa (ogni ente mutualistico erogava prestazioni diverse perché queste erano definite da diversi rapporti di lavoro).
L’universalismo al di là dei suoi innegabili valori morali e sociali aveva soprattutto la funzione pratica di superare le tante diversità mutualistiche con l’uniformità dei trattamenti a scala nazionale perché 40 anni fa l’uniformità cioè l’universalismo non era considerato un problema ma una misura di governo della spesa e quindi una funzione di sostenibilità. Quello che in un certo senso oggi alcuni pensano di fare con i costi standard.
Rendere uniformi i costi per rendere universale l’offerta a scala regionale e nello stesso tempo meno costosa. Oggi Confindustria e Confcommercio ed altri vorrebbero fare il contrario ritornare a trattamenti differenziati: gli indigenti da una parte e dall’altra differenziare l’assistenza sanitaria in base al reddito, perché l’uniformità dei trattamenti cioè l’universalismo, i LEA, ecc. oggi sono considerati paradossalmente un problema di sostenibilità.
Oggi è vero che esiste il problema delle diseguaglianze regionali e territoriali causate dai famosi 21 sistemi sanitari regionali, (anche se gli squilibri sono sempre esistiti) ma si tratta di contraddizioni al valore dell’uniformità non di discriminazioni dovute a sistemi sanitari concepiti come discriminanti quali erano le mutue cioè come sistemi difformi concepiti su fabbisogni difformi. Cioè le diseguaglianze esistono non perché non c’è l’universalismo ma perché esso è negato dalla difformità dei fabbisogni creata dalla difformità della struttura dell’offerta. Ora è illogico rispondere alla negazione dell’universalismo con la difformità dei trattamenti come propongono i contro riformatori.
Ma anche rispondere con i costi standard (a parte la complessità tecnica e etica insita nella standardizzazione del costo) è illogico se questa difficile standardizzazione non è la conseguenza di quella dei consumi. Standardizzare i costi a consumi difformi non è privo di aporie. Il consumo è obbligato in quanto tale a stare negli standard. Differenziare i sistemi di assistenza significa prendere atto delle diseguaglianze e istituzionalizzarle mettendole a sistema, standardizzare i costi significa semplicemente standardizzare l’offerta di prestazioni per costringere i consumi ad adeguarvisi. In entrambi i casi il consumo non è riformato ma in un caso è differenziato e nell’altro contingentato. Quello che invece andrebbe fatto è concepire l’universalismo come riforma del fabbisogno quindi del consumo (domanda/offerta) perché se è un certo consumo che rende universale il sistema dell’offerta esso diventa la chiave di volta della sostenibilità.
Ripetiamo la domanda: cosa vuol dire riformare il consumo o l’uso o il fabbisogno? Cioè fare una “quarta riforma”? Vuol dire fare oggi quello che avremmo dovuto fare da un pezzo ma che per tante ragioni non abbiamo fatto. Ma dove è che abbiamo toppato?
Perché la riforma non ha riformato? Per rispondere di nuovo è necessario tornare alle condizioni iniziali. La transizione tra mutualismo e universalismo avrebbe dovuto garantire un cambio di paradigma intervenendo su almeno su 5 livelli:
- a partire dalla nuova domanda di salute (necessità/complessità) riformare l’idea strategica generale di tutela (da una idea riduttiva di cura della malattia ad una più estesa e più complessa idea di salute), cioè dalla mutual health policy alla healthy public policy);
- riformare l’organizzazione dell’offerta (da un sistema di servizi fatto solo da ospedali e ambulatori, ad un sistema di servizi integrato per la costruzione della salute;
- riformare le prassi mutualistiche (nuovi approcci interdisciplinari, nuove integrazioni tra i servizi e tra i servizi e il territorio, nuove relazioni, ecc.);
- riformare il lavoro professionale con una riforma della formazione di base, delle professioni, quindi derivando da queste riforme una nuova idea di lavoro, nuovi statuti giuridici per gli operatori, nuovi ruoli e nuove funzioni;
- suggellare il nuovo rapporto domanda/offerta con il governo sociale della sanità.
Come è andata? È andata che:
- la riforma strategica dell’idea di tutela (quella che avrebbe dovuto teoricamente riformare il modello di consumo sanitario e quindi il fabbisogno e risolvere i problemi di insostenibilità finanziaria), è rimasta sostanzialmente sulla carta (ancora oggi non si fa salute primaria, ancora oggi i processi integrativi sono una chimera, ancora oggi le prassi cliniche sono irrelate, ancora oggi gli operatori lavorano come lavoravano ai tempi delle mutue, ancora oggi i modelli dei servizi sono di tipo mutualistico, ecc.);
- ad una riforma fisica della struttura del sistema sanitaria (hardwere) non è seguita nessuna significativa riforma culturale della sovrastruttura (con l’unica eccezione della salute mentale e all’inizio dei consultori e in parte con i dipartimenti per la prevenzione). Le tre K sono rimaste sostanzialmente invariate knowledge (conoscenza), know-how (competenza nel modo di fare) know where (sapere dove fare).
Conclusioni:
- pur in un sistema di servizi diversamente organizzato l’operatività, la prassi, le modalità della tutela ancorché riformata nei suoi postulati, sono rimaste sostanzialmente ferme alla cultura mutualistica;
- il modello di consumo è rimasto sostanzialmente invariato perché le caratteristiche fondamentale dell’offerta, a parte le sue dimensioni, sono rimaste sostanzialmente invariate cioè con spiccate caratteristiche mutualistiche;
- il consumo è cresciuto ma restando di tipo mutualistico;
- il problema di sostenibilità delle mutue è passato semplicemente irrisolto al servizio sanitario nazionale e come tale ripasserà alle mutue o ai fondi se si farà la controriforma.
Il servizio sanitario che è venuto fuori dalla riforma del ’78 si è configurato nel tempo sempre più come una gigantesca super mutua con l’unica differenza di garantire a tutti
teoricamente uniformità di trattamento per poi perdere tale uniformità a causa dell’eccessiva frammentazione dei sistemi sanitari regionali.
Oggi le Regioni è come se fossero 21 sistemi mutualistici diversi:
- l’uso e il consumo nonché il fabbisogno di sanità nel nuovo servizio sanitario nazionale rispetto alle mutue è rimasto sostanzialmente invariante ma non il suo costo la domanda è cresciuta e l’offerta si è solo ampliata ma senza ripensarsi;
- la spesa immediatamente dopo il varo della riforma comincia a crescere diventando fin da subito quello che è ancora ora cioè il più grande assillo della sanità;
- la spesa sanitaria con la riforma del ’78 pur aggiungendo servizi a servizi, professioni a professioni, funzioni a funzioni, proprio perché l’idea mutualistica di tutela non è mutata come non è mutato l’uso del sistema, non si è de-quantificata ma al contrario si è iper-quantificata.
Perché serve una nuova riforma? Perché ciò che avremmo dovuto riformare tanto tempo fa non è stato riformato sia nell’ambito della medicina che in quello della sanità.
Omissioni, errori e scelte poco ponderate
Ma perché non abbiamo riformato quando avremmo dovuto e potuto farlo? Di chi è la colpa? Quali le responsabilità?
Non parlerei di colpe ma di:
- limiti storici politici e culturali, considerandoli come tratti caratteristici del tempo;
- scelte politiche sbagliate cioè di incapacità a leggere e a risolvere certi problemi;
- errori legati a letture sbagliate delle situazioni e delle circostanze.
Il patatrac si ha quando tutte queste cose fanno massa sovrapponendosi… cioè nasce dalla loro interazione.
Sui limiti della riforma sanitaria del ’78 fino ad ora (a parte alcuni lavori degli anni 80 e 90 considerati al tempo come eccentrici) non c’è stata una analisi né una ricerca organica approfondita perché fino ad ora è prevalsa la linea dell’attuazione e dell’apologia.
Se si vuole attuare qualcosa si dà per scontato che quello che si vuole attuare sia positivo non negativo. Ma oggi siamo alla frutta, dopo 40 anni, abbiamo a che fare con un paradosso: di quella storica riforma che ormai di fatto non esiste più niente se non i postulati di fondo del nostro sistema sanitario, sono sparite tutte le parti positive, mentre sono sopravvissuti intatti tutti i suoi limiti culturali che a tutt’oggi ci perseguitano perché in parte sono passati negli atti di riforma della riforma successivi in parte perché ancora non hanno incontrato un pensiero riformatore adeguato che li affrontasse.
I limiti della riforma del ’78 sono parecchi dovuti in particolare ai suoi ritardi storici (è
stata copiata dalla riforma inglese come prototipo ma 40 anni dopo quando gli inglesi quel prototipo l’avevano cambiato già molte volte) e alla sua notevole regressività culturale (cioè il suo pensiero e il suo modo di pensare, la sua visione del mondo sembrano fuori dal cambiamento culturale dell’epoca).
La riforma del ’78 non era in grado di riformare l’uso e il consumo della sanità perché non conteneva le istruzioni culturali per farlo… essa cambia la struttura e l’organizzazione del sistema sanitario ma non la sua sovrastruttura culturale che resta mutualistica. Cioè la riforma non cambia il lavoro, le prassi, l’operatività, gli stili del fare, gli operatori, la loro formazione, la loro cultura. In questo modo la riforma si preclude di cambiare la domanda di cura che continua ad essere di stampo mutualistico Questo è macroscopicamente visibile in tutto il suo articolato ma in particolare in quegli articoli dove si definiscono le prestazioni da erogare in perfetta continuità con il “personale dipendente o convenzionato” che c’è (art 25) cioè a lavoro invariante Il lavoro non è riformato ma ribadito in tutti i suoi anacronismi in perfetta continuità con i principi del pubblico impiego (art 47) e secondo “qualifiche funzionali” che al tempo appartenevano ormai ai quei sistemi e a quei mondi che la riforma avrebbe dovuto riformare. Per cui l’uso della sanità resta mutualistico. L’offerta di prestazioni cambia di quantità ma non di qualità diventando a causa di ciò sempre meno sostenibile.
A questo limite davvero non secondario si aggiunge quello del riformatore dell’epoca che anziché sostenere la riforma con altre riforme (gli studi di medicina, il lavoro, la partecipazione sociale, i contratti, ecc.) finisce per lasciarla sola, cioè per isolarla, nell’illusione che essa si auto esplicherà. Ma nessuna norma è in grado di auto esplicarsi se non è coadiuvata da tutte le necessarie condizioni per la sua attuazione. Meno che mai se essa producendo inconvenienti di insostenibilità diventerà paradossalmente un problema. Quindi senza una riforma del lavoro la riforma della sanità dal punto di vista dell’uso e del consumo di assistenza sanitaria ha cambiato ben poco. Oggi dire riforma significa in particolare riformare la sovrastruttura riformando la medicina o meglio il modo di usare le conoscenze scientifiche, il lavoro, quindi l’operatività, le organizzazioni, il modello di governo, con lo scopo ribadiamo di de-quantificare la spesa sanitaria ma facendo più salute di prima. Se la sostenibilità fosse intesa come produzione crescente di salute la spesa sanitaria sarebbe relativamente de-quantificata. Ma se al contrario la cura resta di stampo mutualistico per forza il sistema avrà bisogni di un finanziamento sempre più incrementale perché dovrà inseguire le malattie costando in ragione dell’innovazione delle terapie e del resto sempre di più.
A questi limiti di fondo si aggiungono scelte ed errori. La riforma sanitaria occupandosi prevalentemente di contenitori e non di contenuti diventò subito un ostacolo perché, finì con l’accentuare i problemi di sostenibilità. Già negli anni 80 il problema politico non era più quello di attuarla e meno che mai di sviluppare parallelamente altre riforme, ancor meno di riformare il lavoro, ma era quello di gestire la spesa. Così vennero meno sia le ragioni del cambiamento sociale e culturale che avevano reso necessaria la riforma, sia le ragioni per le quali avremmo dovuto correggerne i limiti e fare altre riforme. La bestia nera definita “economicismo” e che oggi ha la forma del de-finanziamento nasce negli anni 80. Nasce non perché si è riformato ma perché non si è
riformato.
Questa rottura con il processo riformatore appena avviato e che negli anni 90 ci porterà all’azienda (scelta che da quel che si vede oggi a proposito di riordini regionali risulta visibilmente problematica) darà avvio ad una processione interminabile di politiche economicistiche:
- prima provvedimenti contingenti e urgenti quali misure di contenimento della spesa;
- poi l’adozione di vere e proprie politiche calmieratrici;
- quindi misure crescenti per la riduzione dei costi;
- e ancora misure per la tassazione dei consumi (ticket);
- poi il finanziamento in deficit cioè fingendo fabbisogni più bassi al momento della loro approvazione per poi compensarli con i ripiani a piè di lista;
- e a seguire le famose misure di sotto finanziamento;
- poi i fallimentari patti per la salute, fino ad arrivare ai giorni nostri;
- quindi ai tagli lineari, ai piani di rientro, alla spending review, al de-finanziamento programmato, al finanziamento relativo da compensare con la riduzione delle risorse.
Oggi come allora siamo alle prese con lo stesso problema. Con la differenza che oggi dopo 40 di economicismo il sistema è stremato.
Oggi si tratta di risolvere una volta per tutte questo problema e l’unico modo per farlo è riformare quello che sino ad ora per una ragione o per l’altra non siamo riusciti a riformare.
Le grandi invarianze: domicilio, medicina di base, specialistica, ospedalità Le principali funzioni del sistema di cura della sanità pubblica previste dalla normativa vigente sono: l’assistenza di base, la specialistica, la farmaceutica, l’assistenza ospedaliera.
Queste sono le funzioni portanti ma che negli anni dal punto di vista delle prassi e delle organizzazioni non sono cambiate un granché. Sono le funzioni portanti che in un qualsiasi processo di cura vedono all’opera le tre figure principali di medico: il generico lo specialista e l’ospedaliero. Sono anche le funzioni che articolano il processo di cura sostanzialmente in due tipi di servizi: l’ambulatorio e l’ospedale oltre ai quali va aggiunto il domicilio del cittadino malato. Infine sono le funzioni che coincidono con i tre livelli di complessità della cura previsti dalla riforma sanitaria e che nel loro insieme costituiscono la usl (unità sanitaria locale) e che si sarebbero dovuti integrare proprio per agire la usl cioè l’unità delle tutele.
Negli anni a seconda dei settori di cura, (per esempio la salute mentale, l’assistenza all’anziano, l’assistenza alle dipendenze, i servizi per l’ospedalizzazione diurna ecc.) oltre al domicilio, all’ambulatorio e all’ospedale si sono aggiunte ma solo in alcune Regioni particolari strutture intermedie alcune delle quali come ad esempio le rsa, le residenze protette, a metà strada tra ambulatorialità e spedalità, ad indicare che i tre livelli di complessità non bastavano più a far fronte alla domanda di salute che si stava
sviluppando.
Ma a parte le “strutture intermedie” che si sono aggiunte inserendosi tra domicilio ambulatorio e ospedale il sistema portante “domicilio, ambulatorio, ospedale “è rimasto tale e ancora adesso costituisce la base operativa del sistema sanitario nazionale.
La sua invarianza non riguarda tanto la funzione che ovviamente va ribadita perché oggettivamente serve sia il domicilio sia l’ambulatorio e anche l’ospedale ma come viene agita e come viene organizzata.
Nello spirito originale della usl ad esempio domicilio ambulatorio e ospedale avrebbero dovuto integrarsi e questo nella maggior parte dei casi non è avvenuto. È solo da qualche anno che in alcune Regioni si parla di continuità della cura, di percorsi terapeutici, di case management, ma nella stragrande maggioranza dei casi domicilio, ambulatorio e ospedali restano momenti di cura autonomi e separati secondo la migliore tradizione tayloristica.
Molto tempo prima della riforma sanitaria esattamente nel 1968 la riforma ospedaliera prevedeva i dipartimenti cioè la possibilità di integrare le parti diverse di un ospedale al suo interno fino ai dipartimenti di organo e le parti dell’ospedale con i servizi extra ospedalieri. Nonostante siano passati ormai quasi 50 anni questa dipartimentalizzazione non è avvenuta e laddove è stata fatta è stata fatta nella logica dell’insieme cioè della somma di servizi non nella logica del sistema cioè dell’integrazione dei servizi. Cioè razionalizzando l’organizzazione tayloristica ma non già superandola. È quello che per certi versi sta avvenendo per le reti rispetto alle quali si fa fatica a concepire l’integrazione dei servizi con la logica interconnessionale restando ancora nella logica del taylorismo.
Quindi la prima invarianza riguarda i rapporti tra domicilio ambulatorio ospedale che sostanzialmente non mutano e se mutano non riescono ad andare oltre un’organizzazione che si riconferma tayloristica a parte quei casi nei quali a taylorismo invariante si aggiungono strutture intermedie o si adottano percorsi terapeutici o soluzioni del tipo case management.
La seconda invarianza è legata alla prima nel senso che sussistendo una organizzazione tayloristica alla fine prevale la logica dell’enclave cioè del servizio sostanzialmente autonomo quindi separato e giustapposto agli altri servizi del sistema. In particolare questo vale per la medicina di base, per la specialistica e per l’ospedale. La usl non diventerà l’unità delle tutele ma sarà nella maggior parte dei casi, salvo eccezioni, la somma delle tutele.
La terza invarianza deriva proprio dal modo di essere enclave del servizio e riguarda la prassi, l’operatività, lo stile di lavoro quindi gli operatori. Un conto è lavorare con modalità tayloristiche e un conto è lavorare con modalità interconnessionali. Per quanti sforzi si siano fatti per accrescere il grado di multidisciplinarietà del lavoro, il suo grado di integrazione interna il lavoro d’equipe, l’operatività reale resta nella maggior parte dei casi frammentata dando luogo a costi di transazione alti, a volte ingiustificati, a volte raddoppiati. L’operatività in concreto agisce quasi sempre nella logica della delega nel senso che il medico di base delega lo specialista il quale a sua volta delega l’ospedale, oppure più direttamente la medicina di base che delega all’ospedale.
La quarta invarianza riguarda l’atto clinico che agendo nel frammento del sistema e
non nel sistema si de-complessifica, cioè si limita al compito da esercitare in senso stretto, o meglio l’atto si riduce al compito inteso limitatamente ad un certo tipo di servizio da assicurare. Per cui un medico di base fa il medico di base come ha sempre fatto. La stessa cosa per lo specialista e per l’ospedaliero. Nel caso del medico di base con il rinnovo delle convenzioni alla classica visita medica nel tempo si aggiungono altre piccole funzioni ma sostanzialmente a modello professionale invariante.
Tutto questo anziché essere sottoposto ad un processo di riforma nel tempo è stato aggiogato ad un processo sempre più crescente di burocratizzazione, di amministrazione, di controllo, di restrizioni e di limitazioni, che ha ulteriormente appesantito l’attività professionale nei servizi.
Alla fine ritornando ai tre momenti principali del processo di cura, domicilio, ambulatorio, ospedale, le cose, cioè i loro pesi interni al sistema sono rimasti pressoché invariati. La scommessa della riforma era la “località” quindi il distretto cioè fornire alla soglia del malato ciò di cui aveva bisogno il che avrebbe dovuto significare un ruolo diverso del domicilio e un ruolo diverso dell’ambulatorialità e un ruolo diverso dell’ospedale.ma soprattutto ben altre prassi professionali.
La non riforma ha confermato e ingigantito nel tempo il ruolo dell’ospedale che oggi è diventato il principale capro espiatorio del de-finanziamento per cui stiamo assistendo ad una sua demolizione sistematica ma senza che vi sia di converso un’altra idea di domicilio, di ambulatorio, di distretto, di medico di famiglia o di specialista. Cioè oggi stiamo ributtando nel territorio quello che in questi decenni è finito a volte in modo ingiustificato in ospedale ma senza ripensare un alcunché meno che mai la medicina di base o quella specialistica.
Due enclave: medicina di base e medicina ospedaliera
Medicina ospedaliera e medicina di base in realtà sono due storie parallele perché due sono i sistemi sanitari in questione che da sempre procedono in modo giustapposto e separato.
La distinzione in enclave tra medicina di base e ospedale è antica e precede di gran lunga la riforma del ’78, nel senso che medicina di base e ospedale equivalgono a due universi paralleli concepiti fin dall’inizio come separati.
Dal 1938 cioè dal momento della prima riforma ospedaliera (Petrignani) ai nostri giorni il modello di ospedale e la sua organizzazione di base ma anche i criteri di funzionamento e di classificazione non sono mai fondamentalmente cambiati come modelli, quindi come struttura, mentre come sovrastruttura cioè rispetto ai criteri funzionali qualcosa in più si è fatto (si pensi ai reparti ad alta intensità di cura ma non solo ai monoblocco alle piastre, alla spedalizzazione diurna, ecc.).
L’unica cosa che per quanto riguarda l’ospedale è davvero cambiata ma ribadiamo in costanza di modello è la sua definizione giuridica. Fino al 1968 sono stati inquadrati come