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Fare impresa in Italia sta diventando sempre più difficile. Non siamo più compe- titivi in molti comparti per questioni strutturali che riguardano il sistema paese.

La delocalizzazione è certamente un modo per rafforzare le imprese italiane, rendendole più competitive nel mercato internazionale, consentendo un contenimento dei prezzi di vendita dei prodotti e una presenza diretta su mercati nuovi.

Un incremento della quota di produzione spostata all’estero (sia attraverso inve- stimenti diretti che mediante l’attivazione di rapporti di subfornitura e partnership) ge- nera un aumento netto dei margini aziendali ed accresce la redditività delle imprese. La strategia della delocalizzazione ha dato nuovo vigore alle imprese italiane negli anni ’90 facendo ritrovare loro la forza competitiva attraverso il decentramento della produzione in paesi a basso costo del lavoro.

Anche se nei paesi dove si delocalizza la produttività del lavoro è a volte più bassa di quella italiana, il costo del lavoro è pari ad un settimo o un ottavo e recupera ampiamente la minore produttività (in alcun paesi un operaio guadagna 300 euro al me- se e un ingegnere 500). Inoltre le aziende spesso spostano macchinari dall’Italia e invia- no in Italia per alcuni periodi il personale locale per formarlo adeguatamente.

Come detto, oltre a disporre di manodopera a basso costo, alcuni paesi adottano dei regimi fiscali sulle imprese molto più convenienti rispetto a quelli italiani (a volte con una tassazione sulle imprese al 10%), hanno leggi meno restrittive, meno burocrazia e energia a costo più contenuto.

Con la delocalizzazione delle produzioni si apre anche la possibilità di espandere il proprio mercato, penetrare nicchie e segmenti ancora inesplorati, dove la presenza di- retta diventa un fattore strategico per conquistare nuovi mercati non ancora saturi.

L’internazionalizzazione, e in particolare la delocalizzazione produttiva, vengo- no spesso considerati con preoccupazione per la possibile riduzione dei livelli di produ- zione nel territorio nazionale, con effetti negativi sull’occupazione nel paese di origine. Spesso però tali preoccupazioni risultano poco fondate.

termini di produttività, fatturato e occupazione appare migliore di quella di imprese si- mili che non si sono internazionalizzate. Inoltre l’effetto dell’internazionalizzazione sul mercato locale del lavoro genera un aumento della domanda di lavoratori più qualificati relativamente a quelli meno qualificati.

La delocalizzazione della produzione sta diventando sempre più una scelta che non riguarda soltanto la grande industria, ma anche la media e la piccola impresa.6

L’Italia è a metà classifica in un’Europa più divisa che mai dal costo del lavoro. È la fotografia scattata da Eurostat, l’Istituto di statistica dell’Unione europea, che ha appena diffuso i dati del 2014 dei 28 Stati membri Ue. Agli estremi opposti stanno Bul- garia, con meno di 4 euro l’ora, e Danimarca (40,3 euro).

In Italia un’ora di lavoro costa mediamente a un’impresa 28,3 euro, meno della media dell’Eurozona (29 euro) ma più della media Ue (24,6 euro), che comprende Paesi molto meno cari per le imprese e dove quindi si tende a delocalizzare, come Bulgaria (3,8 euro per ora) o Romania (4,6 euro per ora). L’Italia però segna un incremento del costo del lavoro che è inferiore alla media sia dell’Eurozona che della Ue. Tra il 2013 e il 2014, il costo del lavoro in Italia è cresciuto dello 0,7%, a fronte di un incremento dell’1,1% nell’Eurozona e dell’1,4% nell'Ue.

In Italia il 28,2% del costo del lavoro è determinato da fattori non legati allo sti- pendio dei dipendenti, come i contributi pagati ai lavoratori. In questo l’Italia sconta un gap competitivo nei confronti della Germania, dove i costi non salariali pesano solo per il 22,3% ma non della Francia (33,1%), che vanta un non invidiabile record europeo. Il nostro Paese è comunque il terzo più “caro” nell’Unione Europea per costi non salariali dei salari dietro appunto alla Francia, e alla Svezia (31,6%). Nei diciannove Paesi mem- bri dell’Eurozona i costi non salariali sono in media del 26,1%, e nei ventotto Paesi dell'Unione Europea del 24,4%: i più bassi sono a Malta (6,9%) e in Danimarca (13,1%).

Sono quattro i Paesi in cui lo scorso anno il costo del lavoro è diminuito:  Cipro, Portogallo, Croazia e Irlanda. Tre di questi sono Stati salvati dall’Unione Europea e non

6 cocchioni.com – “Come risolvere i problemi dell’alto costo del lavoro e dell’eccessiva burocrazia ita-

è un caso, perché hanno subìto un processo di svalutazione interna legato alle dure poli- tiche di austerità cui sono stati soggetti. La svalutazione interna è un modo di rendere più competitivo il proprio export attraverso un abbassamento dei salari e un aumento della produttività; è quindi un’alternativa alla classica svalutazione della moneta, che non è possibile all’interno di un’Unione monetaria come l’Eurozona. Il caso più em- blematico è la Grecia, dove il costo del lavoro orario era nel 2014 di 14,6 euro e sei anni prima di 16,8 euro.

Nella stessa Spagna, altro Paese duramente colpito dalla crisi ma che ora sta rialzando la testa con risultati oltre le aspettative, negli ultimi tre anni il costo del lavoro è rimasto praticamente invariato intorno ai 21 euro all’ora. I maggiori aumenti sono in- vece stati registrati in Estonia (+6,6%), Lettonia (+6%) e Slovacchia (+5,2%). L’Est Eu- ropa resta però molto lontano dalla vecchia Europa.7

Fiat ha tagliato oltre 15mila dipendenti in Italia per assumere negli Stati Uniti e

in Paesi dove la manodopera è più conveniente, mentre i call center di Telecom migrano verso la Romania. Perfino un’azienda con risultati eccellenti come la Brembo ha puntato sull’Europa dell’Est per la produzione di componenti Porsche e Mercedes. E’ la triste conferma che il vento della delocalizzazione soffia forte e sta cambiando la mappa dell’industria italiana, comprese le piccole aziende (come il caso della Firem di Mode- na, i cui 40 dipendenti rientrati dalle vacanze estive hanno trovato gli impianti in via di smantellamento).

Uno studio della Cgia di Mestre l’anno scorso ha fornito dati significativi: le so- cietà che hanno spostato la produzione all’estero per risparmiare su stipendi e tasse la- sciando a casa i lavoratori italiani sono aumentate dal 2000 al 2011 del 65%, arrivando a superare le 27mila unità. I motivi, spiegava Giuseppe Bortolussi, segretario dell’associazione degli artigiani mestrini, sono diversi: “Le imposte, la burocrazia, il co- sto del lavoro, il deficit logistico-infrastrutturale, l’inefficienza della pubblica ammini- strazione, la mancanza di credito e i costi dell’energia rappresentano ostacoli spesso in- superabili che hanno indotto molti imprenditori a trasferirsi in Paesi dove il clima socia- le nei confronti dell’azienda è più favorevole”.

Uno degli esempi più evidenti è la Fiat, che non perde occasione per minacciare di abbandonare l’Italia, e ha ridotto di 15.821 dipendenti la forza lavoro nel Paese dal 2007 al 2012 (il personale impiegato è passato da 77.679 a 61.858 unità), mentre il nu- mero di lavoratori negli Stati Uniti è lievitato da 11.364 a 73.713. Stesso andamento per gli stabilimenti, passati da 56 a 44 in Italia e da 22 a 48 negli Stati Uniti, e per i centri ricerca e sviluppo. L’azienda torinese assume sempre di più anche in Sud America, mentre taglia in Europa.

Un discorso a parte, invece, riguarda la produzione di auto italiane in Serbia.

Fiat Serbia, come ha recentemente notato il ministero delle Finanze di Belgrado, è risul-

tata di gran lunga al primo posto nella lista dei maggiori esportatori in Serbia nei primi otto mesi del 2012, con merci per un controvalore di 952,4 milioni di euro. La conferma è arrivata dai dati sull’export serbo pubblicati lo scorso maggio, con il settore dell’auto trainato da Fiat che contribuisce al 20% delle esportazioni e ha quasi triplicato la produ- zione nei primi tre mesi del 2013 rispetto allo stesso periodo del 2012. Ad accendere i riflettori sugli impianti di Fiat in Serbia era stato anche il gesto disperato di un operaio dello stabilimento di Kragujevac, che lo scorso maggio ha danneggiato 31 vetture, pro- vocando un danno da 50mila euro. L’uomo ha graffiato le carrozzerie scrivendo “italia- ni andatevene” e “aumentate gli stipendi”. Un episodio che ha fatto scendere in campo i sindacati locali, che hanno colto l’occasione per lamentarsi della paga mensile, pari a circa 320 euro.

A puntare sull’Est Europa sono anche le aziende più solide. Brembo, che ha chiuso i primi nove mesi del 2013 con un utile di 63,4 milioni di euro, con un incremen- to del 29,4% rispetto al corrispondente periodo del 2012, ha raggiunto alla fine di giu- gno un’intesa sindacale su 200 esuberi (47, non ancora intrapresi, riguardano dipendenti assunti a tempo indeterminato, mentre 153 riguardano contratti a tempo determinato scaduti). Le uscite sono motivate dalla decisione dell’azienda di trasferire nell’Est Eu- ropa alcune linee di produzione e riguardano soprattutto Curno e, in parte minore, la di- visione auto di Mapello.

“Stanno spostando all’estero la produzione di pinze per Porche e Mercedes”, spiega Eugenio Borella, segretario generale della Fiom-Cgil di Bergamo, sottolineando che “in Italia rimarrà pochissimo”. D’altronde, ha aggiunto, “nell’Europa dell’Est un operaio guadagna un terzo rispetto all’Italia (14mila contro 40mila euro l’anno) e

l’energia costa la metà”. L’azienda ci tiene tuttavia a precisare di avere aumentato la produzione nei Paesi dell’Est per questioni logistiche, in modo da essere più vicina alle case automobilistiche tedesche, che vanno sempre più a gonfie vele, mentre “nonostante tutti gli sforzi fatti, le attività italiane sono in perdita”.

I passi avanti del gruppo a Est, d’altronde, non sono una novità. Analizzando i bilanci del 2007 e del 2012, in questi ultimi compare un nuovo impianto produttivo in Repubblica Slovacca con 98 dipendenti e uno in Repubblica Ceca, costituito nel 2009, che ora può contare su ben 421 lavoratori. Aumenta negli ultimi cinque anni di 128 uo- mini la forza lavoro anche nello stabilimento di Dabrowa-Gòrnicza, in Polonia, mentre diminuisce leggermente nell’altro impianto produttivo del gruppo nello stesso Paese.

Un discorso a parte riguarda invece i call center, spostati sempre più all’estero, soprattutto in Europa dell’Est, per risparmiare sui costi. A partire da Telecom Italia. I posti di lavoro emigrano a Oriente, mentre quanto resta in Italia viene ridimensionato. L’azienda precisa che la delocalizzazione dei call center è effettuata dalle società a cui affida il servizio e non riguarda l’assistenza clienti, ma quella commerciale. Le difficol- tà che devono affrontare i dipendenti italiani, però, sono sotto gli occhi di tutti.

Telecom ha siglato con i sindacati lo scorso marzo un accordo che prevede con-

tratti di solidarietà per 32mila dipendenti e la collocazione in mobilità per altri 500. “L’accordo è una cambiale in bianco per Telecom, che sarà libera di delocalizzare ulte- riormente”, avverte Fulvio Macchi dello Snater (sezione delle telecomunicazioni del sindacato Usb), sottolineando che è solo una questione di tempo. “Le sigle confederali hanno accettato tutta una serie di ricatti”, aggiunge, “dalla chiusura di alcune sedi agli spostamenti sul territorio dei lavoratori, passando per l’aumento dei carichi di lavoro e l’obbligo per chi lavora da casa di installare una webcam per essere controllato”.

Il rischio di nuove delocalizzazioni è in una frase all’interno dell’accordo. “C’è scritto che Telecom rivaluterà la situazione tra due anni”, spiega Mattea Cambria della Cgil piacentina, prevedendo che “coglieranno sicuramente l’opportunità per spostare sempre di più l’attività in Romania e Albania, dove la paga oraria (secondo quanto sco- perto da alcune dipendenti italiane) non supera i due euro l’ora”. Lo spostamento del personale del gruppo all’estero, d’altronde, non è una novità. La percentuale di dipen- denti impiegati in Italia è calata dal 2007 al 2012 di 15 punti, dall’80,5% al 65,4 per

cento. Mentre le assunzioni all’estero sono salite dal 76,7% all’88,95%, soprattutto gra- zie alla crescita in Sud America.

C’è poi chi il vizio della produzione low cost l’ha sempre avuto. E’ il caso di

Geox, che già nel 2007 produceva ben poco in Italia: soltanto 898 dipendenti, contro

1.274 in Romania, 712 in Slovacchia e 659 in altri Paesi. Il gruppo, che attualmente ha il 37% della forza lavoro in Italia, ha trovato l’estate scorsa un accordo con i sindacati per 71 esuberi. Pesa la flessione dei ricavi, scesi nei primi nove mesi dell’anno a 618,1 milioni dai 701,5 milioni registrati nello stesso periodo dell’anno scorso.

Il fatturato cala, ma l’Italia rimane il mercato principale, con una quota del 35% delle entrate del gruppo. Segnale che la scarpa che respira è prodotta all’estero a basso costo per poi essere rivenduta agli stessi italiani. “La delocalizzazione è un male neces- sario imposto dal mercato”, ha dichiarato nel 2004 lo stesso Mario Moretti Polegato, presidente e fondatore del gruppo Geox, intervistato dal Corriere della Sera, sottoli- neando che “l’impresa del domani sarà quella intelligente: qui, in Italia, la creatività, l’organizzazione della produzione, il marketing; fuori, dove la manodopera costa meno, la produzione”.

Ma la sorpresa peggiore, parlando di delocalizzazione, riguarda i 40 dipendenti della Firem, storica fabbrica di resistenze elettriche di Formigine, in provincia di Mode- na. In agosto, mentre i lavoratori erano in ferie, ignari di tutto, i proprietari della società hanno fatto sparire il 90% dei macchinari, trasferendo l’impresa quasi interamente in Polonia. A fine agosto, grazie all’intervento delle istituzioni locali e dei sindacati, si era poi aperto uno spiraglio: il blocco della delocalizzazione, con il mantenimento di parte della produzione in Italia, e l’apertura di una nuova sede nell’Europa dell’Est. Ma per i dipendenti non è ancora tempo di cantar vittoria. L’azienda è infatti tornata recentemen- te sotto i riflettori per non avere pagato gli stipendi arretrati.8

8 ilfattoquotidiano.it (2013) – “Crisi, la grande fuga delle aziende italiane a caccia di manodopera low