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2 – Effetti sul paese di origine 79

L’attenzione all’analisi dell’impatto dell’attività multinazionale delle imprese sul proprio paese di origine è più recente ma ha conosciuto soprattutto nell’ultimo decennio un forte impulso rispetto al passato. In particolare, la relazione tra l’attività produttiva all’estero delle imprese e l’occupazione interna al loro paese di origine è tra quelle che hanno suscitato maggiore interesse da parte degli studiosi.

Argomenti al quanto popolari sostengono la tesi secondo cui le imprese che sta- biliscono o espandono la produzione all’estero, in paesi a basso costo del lavoro, tendo- no a sostituire lavoratori presso la casa-madre con lavoratori presso le affiliate localiz- zate nei paesi ospiti. In particolare, le imprese attuano investimenti di natura verticale, ovverosia destrutturano la propria catena del valore, riallocando le attività produttive a più alta intensità di lavoro unskilled sui mercati a più basso costo della manodopera. La conseguenza di un siffatto processo è il mutamento della tipologia della produzione domestica che vede aumentare l’intensità si capitale e/o di lavoro high-skilled. Inoltre, a parità di altre condizioni, l’effetto sul mercato domestico del lavoro sarà la caduta, in termini assoluti, dell’occupazione. Tuttavia, la clausola coeteris paribus è in questo ca- so del tutto fuori luogo, poiché quest’ultimo risultato può essere modificato dall’agire di vari altri effetti, anche più compensativi.

L’incremento di efficienza associata alla nuova struttura della catena del valore può migliorare la competitività della casa-madre, allargare la sua quota di mercato, in patria e non, agendo positivamente sulla produzione e sulla domanda domestica di lavo- ro. Inoltre, si possono instaurare complementarità tra produzione all’estero e produzione domestica, anche grazie ai flussi commerciali con l’estero, soprattutto qualora la pre- senza in loco agisca da fattore che facilita la penetrazione commerciale sui mercati este- ri.

La delocalizzazione verticale delle attività può avere effetti non solo e non tanto sull’occupazione presso la casa-madre dell’impresa investitrice o su altre affiliate, ma anche sul contesto di interazione di quest’ultima. In particolare, risultano interessate le relazioni di sub-fornitura e le esternalità generate localmente dalla domanda attivata dal- le imprese multinazionali per input specializzati, quali beni, servizi, skills manageriali ed operativi (Rodriguez-Clare, 1996). Infatti, la produzione delle affiliate estere potreb-

vochi la cancellazione di precedenti relazioni di subfornitura at home e riduca la do- manda locale di beni e servizi, oppure complementari, ad esempio grazie al rafforza- mento delle esternalità generate dall’incremento della domanda locale di input specia- lizzati, a sua volta dovuta all’eventuale miglioramento dell’innovativa e della competi- tività dell’impresa multinazionale.

In generale, l’interpretazione canonica prevede che, nel paese di origine dell’investimento, l’effetto dell’aumento della produzione all’estero in paesi a basso co- sto del lavoro sia nel senso della riduzione dell’intensità del lavoro della produzione. Nulla, invece, si può affermare sulle conseguenze in termini di livello assoluto dell’occupazione domestica.

Argomentazioni alquanto diverse vengono proposte dalla letteratura per gli inve- stimenti diretti esteri indirizzati verso i paesi avanzati. In tal caso, gli investimenti riflet- tono principalmente strategie di crescita orizzontale e market-seeking. Vari meccanismi possono operare in questo caso nel senso di un aumento dell’intensità del lavoro della produzione, presso sia la casa-madre dell’impresa multinazionale, sia il contesto di inte- razione di quest’ultima nel paese di origine. In particolare, l’espansione sui grandi mer- cati internazionali implica un aumento dei compiti di supervisione, coordinamento e controllo delle attività disperse geograficamente, un’estensione qualitativa e quantitativa delle funzioni di R&S, di marketing ed in genere di attività che sono principalmente centralizzate presso la casa-madre (Blomström et al., 1997; Fors e Kokko, 1999). La conseguenza è un incremento del fabbisogno di lavoratori non direttamente impiegati in produzioni e high skilled (colletti bianchi e manager) presso gli insediamenti di origine della impresa multinazionale. Tale effetto potrà inoltre estendersi all’area economica di interazione della casa-madre, attraverso le esternalità generate da una rinnovata doman- da di input specializzati e ad alto contenuto di lavoro qualificato. Infine, il livello asso- luto di occupazione presso il paese origine potrà essere incrementato grazie ad una serie di attività complementari indotti dagli investimenti diretti esteri, più o meno compensa- tive degli eventuali effetti di sostituzione tra produzione all’estero ed esportazioni dalla casa-madre.

Il caso di investimenti orizzontali verso paesi avanzati solleva tuttavia un’altra questione, che ci consente di introdurre la seconda categoria di effetti derivanti dall’attività delle imprese multinazionali al paese di origine delle stesse. Si tratta infatti

tipicamente di investimenti diretti che sostituiscono le precedenti esportazioni verso quel paese, con ricadute evidentemente negative sulla produzione e dunque sull’occupazione domestica.

La relazione tra investimenti diretti esteri ed esportazioni risulta piuttosto com- plessa. Mentre investimenti verticali (resource based o export platform) tendono a pro- muovere il commercio, al contrario investimenti di natura orizzontale (market oriented

o import-substituting) inducono effetti di natura sia trade-replacing sia trade-creating e

non è facile individuare a priori quale di questi avrà la meglio. Sebbene il primo tipo di effetti sia quello più intuitivo, il commercio non risulta necessariamente rimpiazzato dalla produzione locale, in quanto possono generarsi anche effetti di tipo trade-creating per una serie di ragioni ed in un certo numero di modi: direttamente, se la parent com-

pany o i suoi fornitori domestici esportano componenti che verranno processati

dall’affiliata estera, e altri prodotti complementari a quelli creati dalla sussidiaria che possono essere venduti in loco, oppure indirettamente, qualora la presenza dell’affiliata estera stimoli la domanda per altri prodotti provenienti dallo stesso paese (Lipsey e

Weiss, 1984).

Il terzo tipo di investimento diretto estero, quello cosiddetto rationalized o inter-

nationally integrated, mostra la relazione più complessa con i flussi commerciali. Infat-

ti, nella misura in cui realizza una divisione internazionale del lavoro risulta trade-

creating (in termini sia di import che di export) per entrambi i paesi coinvolti, ma

l’effetto netto risulta assai difficile da individuare (anche in relazione al fatto che, come visto, le implicazioni in termini commerciali sono assai diverse a seconda della forma di integrazione internazionale prescelta: l’integrazione verticale, per definizione, è associa- ta con flussi commerciali che avvengono nell’ambito della stessa impresa (intra-firm

trade), mentre l’integrazione orizzontale può essere associata ad intra-firm trade se le

affiliate sono responsabili della distribuzione oltre che della produzione in loco, ma non in caso contrario.3

Vediamo adesso gli effetti:

o Effetti sulla forza lavoro. Il dibattito sull’impatto dell’attività multinazionale sul- la forza lavoro si è principalmente focalizzato su tre aspetti:

§ La natura sostitutiva o complementare della produzione delle affiliate estere nei confronti della produzione della casa-madre e delle altre im- prese domestiche. In questo caso, l’aspetto occupazionale d’interesse concerne il livello assoluto, cioè il numero di addetti. Esiste una relazio- ne di sostituibilità tra l’occupazione della casa-madre e delle affiliate estere quando vengono effettuati investimenti di tipo orizzontale, ovvero diretti verso paesi ad alta intensità di reddito. Ad una riduzione media di 10 punti percentuali dei costi del salario nelle consociate straniere è as- sociata una riduzione media della forza lavoro presso la casa-madre pari al 1,5-2%. Nel caso invece di investimenti verticali nel lungo periodo possono prevalere effetti indiretti positivi determinati dagli incrementi di efficienza e quindi dei volumi produttivi. Con riferimento al caso italiano anche se l’internazionalizzazione ha causato una riduzione del numero di occupati nelle imprese che hanno aperto nuovi stabilimenti all’estero, ta- le riduzione non è così significativa e risulta comunque a volte inferiore di quella che avrebbe dovuto sostenere se non avessero investito all’estero. Quindi, gli investimenti esteri, anche se diretti verso i paesi in via di sviluppo e a basso costo del lavoro, sono paradossalmente una buona strategia per salvaguardare l’occupazione domestica. Il trasferi- mento di attività all’estero influisce anche sull’ambiente economico di ri- ferimento dell’impresa, dando luogo ad una riorganizzazione dei rapporti di filiera. Il sistema locale e la filiera produttiva risentiranno positiva- mente dell’internazionalizzazione nel momento in cui, ad esempio, ven- gono salvaguardati i posti di lavoro delle imprese fornitrici domestiche che approvvigionano le affiliate straniere o le imprese straniere con cui si hanno rapporti di produzione. Inoltre, in seguito alla delocalizzazione (investimenti di tipo verticale), la filiera produttiva/sistema locale po- trebbe posizionarsi su segmenti di mercato a maggiore valore aggiunto e più alto grado di qualificazione con il conseguente sviluppo di un settore terziario collegato di qualità. Viceversa, il trasferimento di attività all’estero potrà determinare una riduzione degli occupati in determinati

profili mansionistici a livello di filiera produttiva/sistema locale e la chiusura di imprese fornitrici. Inoltre, la delocalizzazione di attività pro- duttive all’estero non comporta solo la riduzione degli ordinativi per i fornitori, ma implica un rischio meno evidente ma non meno significati- vo e cioè la perdita di occasioni di apprendimento e di crescita legate alla relazione in sé. La graduale sostituzione di piccole e medie imprese ita- liane con fornitori esteri si verifica prevalentemente nel caso in cui la de- localizzazione sia effettuata verso i paesi a basso costo del lavoro. La de- localizzazione internazionale, intesa come investimento di tipi verticale, ha un impatto significativo sulla crescita dell’occupazione nel settore dei servizi e, in particolare, dei servizi più tradizionali (commercio, trasporti e servizi finanziari). Una relazione inversa emerge invece nel caso dei servizi avanzati alle imprese (ingegneria, R&S, servizi informatici), che tendono ad essere internalizzati dalle imprese delocalizzatrici.

§ L’impatto delle attività industriali svolte all’estero sulla composizione dell’occupazione domestica e sui differenziali salariali. In tal caso gli ef- fetti riguardano lo skill upgrading delle mansioni a livello dell’impresa madre, cioè un aumento dei lavoratori qualificati sul totale dell’occupazione. Gli investimenti di tipo verticale dovrebbero determi- nare un aumento del livello medio di qualifica dei dipendenti nella casa madre poiché, in generale, le attività della sede principale dell’impresa sono a più alta intensità di qualificazione rispetto alle attività produttive. Inoltre, le sedi amministrative offrono alle consociate straniere servizi specializzati in aree altamente qualificate quali R&S, design, marketing, finanza, strategic management. L’analisi condotta da Head e Ries (2002) sulle imprese multinazinali giapponesi conferma questa ipotesi: alla cre- scita dei livelli produttivi delle consociate straniere localizzate in paesi a basso costo del lavoro si associa un aumento della domanda di lavoro qualificato dal parte della casa madre. Risultati simili sono ottenuti da

Hansson (2004) per la Svezia: la delocalizzazione di attività produttive

in paesi a basso costo del lavoro e, in particolare, in quelli dell’Europa dell’est, ha contribuito ad innalzare il livello medio di qualificazione del- la manodopera utilizzata dalle imprese multinazionali domestiche. I ri-

sultati, tuttavia, cambiano in modo significativo quando gli autori consi- derano i dati a livello settoriale. Head e Ries, così come Slaughter (2000) per gli Stati Uniti, trovano infatti che la produzione estera non ha effetto sulla composizione occupazionale domestica. Viceversa, per il caso ita- liano, Falzoni e Grasseni (2003) hanno condotto un’analisi a livello di settore produttivo e dimostrano come il trasferimento di fasi produttive all’estero abbia contribuito allo skill upgrading delle imprese madri, in- dipendentemente dal paese di destinazione degli investimenti. Si evince, quindi, come i risultati delle analisi sull’impatto dell’attività delle impre- se multinazionali sulla qualità dell’occupazione siano spesso contraddito- ri; molta ricerca deve essere ancora svolta, sia sul piano della teoria che dell’evidenza empirica.

§ L’impatto delle attività industriali svolte all’estero sull’intensità di lavoro della produzione domestica. Gli studi relativi all’impatto dell’attività del- le imprese multinazionali sull’intensità di lavoro della produzione dome- stica (Blömstrom et al., 1997; Mariotti et al., 2003) dimostrano che la crescita dell’occupazione all’estero riduce l’intensità di lavoro della pro- duzione domestica nel caso di investimenti indirizzati verso i paesi meno sviluppati e caratterizzati da basso costo del lavoro (investimenti vertica- li). L’impatto risulta viceversa positivo nel caso di investimenti indiriz- zati verso i paesi avanzati (investimenti orizzontali).

o Effetti sul commercio. Come per i precedenti, anche in questo caso, gli studi so- no rivolti al caso statunitense, con particolare riferimento alla relazione tra atti- vità internazionale delle imprese degli Stati Uniti ed esportazioni statunitensi nello stesso settore e verso lo stesso paese di destinazione. Bergsten et al. (1978) analizzano la relazione tra investimenti diretti esteri ed esportazioni statunitensi utilizzando dati panel disaggregati per settore e paese di destinazione, e trovano una correlazione positiva che tuttavia decresce all’aumentare del livello di inve- stimento estero. La spiegazione risiede nel fatto che, in prima battuta, la produ- zione internazionale può sostituire le esportazioni domestiche di prodotti che so- no assemblati localmente; tuttavia, questo viene più che bilanciato da un incre- mento nelle esportazioni dei prodotti intermedi e di altri beni finali; nel lungo periodo, tuttavia, le affiliate estere imparano e sviluppano competenze locali che

sono meno dipendenti dai legami e dalle forniture della casa madre. Analoga- mente Lipsey e Weiss (1981) analizzando la relazione tra esportazioni statuniten- si e vendite delle affiliate all’estero (regressioni cross-country per ciascun setto- re produttivo) trovano che l’attività di queste ultime tende a promuovere le esportazioni degli Stati Uniti ma ad influenzare negativamente le esportazioni da altri paesi; l’attività delle affiliate non statunitensi promuove invece le esporta- zioni da altri paesi terzi. La produzione internazionale viene interpretata come un mezzo tramite il quale le grandi imprese oligopolistiche competono per le quote di mercato e, pertanto, stimola le esportazioni dal paese di origine mentre influenza negativamente quelle derivanti da altri paesi. Più recentemente, Brai-

nard (1997) ha testato e verificato una relazione positiva tra investimenti diretti

esteri in uscita (misurata dalle vendite delle affiliate estere di imprese multina- zionali statunitensi) e le esportazioni statunitensi, su dati cross section al 1989 relativi a 63 settori e 27 paesi. Sono invece assai rari gli studi condotti a livello di singola impresa, principalmente a causa della difficoltà di reperimento dei da- ti. Tra questi, merita menzione quello di Lipsey e Weiss (1984), che analizza la relazione tra le esportazioni della parent company statunitense in un certo settore e le vendite della propria affiliata estera nello stesso settore. In particolare, gli autori osservano che la produzione internazionale è correlata positivamente alle esportazioni di beni finali dagli Stati Uniti, e che il legame è ancora più forte nel caso di beni intermedi. In modo analogo, Mucchielli et al. (2000), con riferimen- to a 421 imprese multinazionali francesi, ottengono un risultato positivo di com- plementarietà tra le esportazioni complessive e l’investimento diretto all’estero (misurato dal numero di addetti nelle affiliate estere). Tuttavia, distinguendo tra commercio intra- ed inter-firm (cioè con le proprie affiliate, piuttosto che con al- tre imprese locali), essi concludono a favore di una forte complementarietà nel primo caso, e di un effetto di sostituzione nel secondo caso. Più recentemente,

Head e Ries (2001), utilizzando un campione panel comprendente 932 imprese

multinazionali giapponesi lungo un periodo di 25 anni (1966-1990), trovano che le imprese che incrementano i propri investimenti esteri registrano anche incre- menti nelle esportazioni. In sostanza, dunque, produzioni internazionale e com- mercio sembrano concorrere insieme: l’investimento estero amplia la quota di mercato dell’impresa, ne rafforza la capacità/potenzialità di apprendimento su

(Cantwell, 1994). Va peraltro segnalato che anche la decisamente ridotta evi-

denza relativa alle altre forme di delocalizzazione della produzione mostra un impatto positivo sulle performance esportative dell’impresa. L’evidenza propo- sta in Baldone et al. (2002), ad esempio, rivela come la delocalizzazione tramite traffico di perfezionamento passivo (TPP) consente alle imprese di ridurre i pro- pri costi e di essere dunque i più competitive anche sui mercati internazionali. o Effetti sulla produttività. In questo caso le analisi sono condotte a livello di sin-

gola impresa. Un’impresa che diventa multinazionale ottiene benefici in termini di produttività? In questo campo la ricerca è ancora lacunosa a causa dei pochi dati a livello di impresa e disponibili per stringhe temporali sufficientemente lunghe, tuttavia si ritiene che ci siano effetti più positivi che negativi.

Quanto appena affermato non ci consente di trarre conclusioni nette ed inequivocabili circa l’impatto della presenza ed attività di imprese multinazionali. Tuttavia, verificate certe condizioni, tale impatto tende ad essere più positivo che negativo.

V – CASO DI STUDIO: PIQUADRO

Piquadro, brand che opera nel settore della pelletteria caratterizzata

dall’orientamento al design e all’innovazione, nasce nel 1987 a Riola di Vergato (BO) dall’intuizione di Marco Palmieri, attuale Presidente e Amministratore Delegato della Società. 1

Nei suoi primi dieci anni (fino al 1998), produce in conto terzi per le più presti- giose aziende italiane di pelletteria di lusso, sviluppando soluzioni e tecnologie innova- tive ed esclusive.

L’ingresso sul mercato del marchio Piquadro è del 1998: design, comfort e tec- nologia sono, fin da subito, gli elementi su cui la Società, specializzata in articoli pro- fessionali e da viaggio, punta per distinguersi sul mercato.

Piquadro viene lanciato come marchio ad alto contenuto “aspirazionale”, fattore

che completa ed arricchisce il puro contenuto “funzionale” del prodotto offerto. Proprio l’aspirazionalità costituisce un fattore altamente differenziante della Società nell’arena competitiva, che permette di associare al marchio qualità percepita superiore, innova- zione e performance maggiore.

Gli elementi di design e innovazione dei prodotti Piquadro conferiscono alla maggior parte dei prodotti della Società un ciclo di vita più lungo e duraturo, rispetto ai prodotti di pelletteria con contenuto esclusivamente moda e permettono inoltre agli stes- si di conservare una presenza incisiva e visibile sul mercato per più stagioni.

Gli stessi elementi hanno inoltre consentito a Piquadro di ottenere una forte dif- ferenziazione da aziende con lo stesso tipo di posizionamento di prezzo.

Piquadro produce un’ampia gamma di prodotti che spaziano dalle borse profes-

sionali uomo e donna alla valigeria, fino ad articoli di piccola pelletteria, agende, porta- blocchi e ad una ricca selezione di accessori. Ad oggi Piquadro si caratterizza per una tipologia di clientela di fascia medio-alta compresa in una ampia fascia d’età, dai 26 ai 50 anni, composta per il 60% circa da uomini e il rimanente 40% da donne e con moti-

vazioni all’acquisto costituite principalmente dall’unicità del design e dalla funzionalità dei prodotti Piquadro.

Piquadro distribuisce attualmente i propri prodotti in oltre 50 paesi nel mondo,

attraverso una rete di distribuzione composta, da 245 Piquadro Station in Italia e 49 all’estero, 7 Shop-in-shop in Italia e 1 all'estero, 17 punti vendita monomarca in Italia e 12 punti vendita monomarca all’estero.

Gli acquisti delle materie prime a maggior valor aggiunto, sia estetico, sia tecni- co, sono effettuati direttamente dal Gruppo e prevalentemente sul mercato italiano. La produzione è interamente delocalizzata in Cina. Il 40% della produzione è realizzata in- ternamente nello stabilimento produttivo di Zhongshan, nella Cina meridionale, che os- serva standard etici e qualitativi occidentali. Il restante 60% è realizzato in outsourcing nella medesima area geografica.

L’attività logistica e di riassortimento, di fondamentale importanza per prodotti dal ciclo di vita lungo, come la maggioranza di quelli Piquadro, è svolta internamente, nello stabilimento di Gaggio Montano, attrezzato con un magazzino automatizzato in grado di evadere ordini in 24/48 ore, con grande efficienza.

All’interno della nuova sede vengono gestite tutte le fasi chiave, quindi non solo la logistica, ma anche Ricerca & Sviluppo, design, ingegnerizzazione, pianificazione degli acquisti, controllo qualità, marketing e comunicazione, distribuzione.

La strategia di Piquadro è sempre stata quella di posizionare il marchio Piqua-

dro come una realtà giovane, dinamica, attenta alle proposte più innovative e all’utilizzo

di materiali e soluzioni tecnologiche d’avanguardia. Piquadro intende sviluppare la sua presenza sul mercato domestico e internazionale attraverso un piano di crescita basato