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Costruirsi una storia

II.1 Il «musicomane passivo»

La collaborazione di Raboni con «Aut Aut» inizia nel 1958. Sulla rivista diretta dal filosofo Enzo Paci, importante esponente della scuola fenomenologica italiana, il giovane poeta pubblica articoli su temi molto diversi: riflette su un possibile parallelo tra la musica di Brahms e l’Ulisse di Joyce; tenta una lettura fenomenologica di Proust e Beethoven; affronta la questione, per lui cruciale, della situazione della poesia italiana nel dopoguerra. Per «Aut Aut» Raboni scrive anche molte recensioni a romanzi e saggi italiani e stranieri; segue i dibattiti sulle riviste (dal «Verri» e «Nuovi argomenti a «Officina» e «Il Menabò»); registra alcune personali scoperte, come il Pasticciaccio di Gadda, sul quale già nel ’57 aveva speso con Betocchi parole entusiaste. In questa prima fase la scrittura critica rappresenta per lui anche un modo per sistemare e riordinare idee, per dare corpo e significato a impressioni di lettura più o meno recenti, per riflettere su mutamenti e innovazioni, per fare (finalmente) i conti con testi e autori molto amati, che lo hanno a lungo accompagnato, attraversando e influenzando il suo modo di guardare alla letteratura e alle sue urgenze. Nella formazione di Raboni, al di là del peso (talvolta incalcolabile) delle letture di poeti classici e moderni (condotte – racconta lui stesso – «per conto mio, gelosamente, sulla base di un cifrario di cui io solo possedevo o credevo di possedere la chiave»),1 riveste un ruolo decisivo la passione per la musica. I riferimenti

all’universo musicale sono frequentissimi negli scritti critici giovanili di Raboni, e il primo dei suoi articoli su «Aut Aut» è dedicato proprio a un compositore molto amato, Brahms. La musica rappresenta per Raboni un linguaggio altro, un codice che – suo malgrado – gli resta in parte estraneo,2 ma che può diventare un prezioso specchio della

poesia, delle sue crisi e contraddizioni. Nelle prime lettere a Betocchi, Raboni racconta

1 Giovanni Raboni, Quell’estate del 1950, «Aut Aut», n.s., 214-215, luglio-ottobre 1986, p. 30.

2 Sull’abbandono dello studio del pianoforte e sulla musica come «amore da lontano», cfr. Raboni,

con entusiasmo i propri ascolti musicali, in particolare quelli degli ultimi quartetti di Beethoven. La musica gli appare superiore alla poesia non tanto sul piano della spiritualità e della purezza, quanto nella capacità di restituire l’umano, la verità. Così scrive a Betocchi nel febbraio ’54:

Non so dirLe come rimpiango di non aver mai studiato un po’ di musica. Ma pazienza! […] E chissà che la musica non abbia per i profani un incanto che non ha per gli iniziati: quella specie di dilatazione fantastica che assumono certe cose di cui non si riesce a cogliere la ragione formale. La musica io che ne sono così ignorante devo fare un vero sforzo per ricomporla in termini normali, in un discorso: ma da questo sforzo mi viene (se non m’illudo) una certa familiarità, un’abitudine quasi di vita con i musicisti che amo di più, Mozart, Vivaldi, Schubert, César Franck... A volte mi sembra di veder più chiaro nella musica di quanto non abbia mai visto nella poesia. Non è vero che nella poesia, anche nella più chiara, c’è sempre qualcosa che va al di là, al di là della misura umana, al di là addirittura della coscienza? O forse è un’impressione che mi viene dalla mia abitudine su certi testi e dalle mie preoccupazioni che sono state sempre quasi esclusivamente formali. Certo è che nella musica, pur con tutta la sua trascendenza, il suo incomunicabile, la sua purezza, io trovo sempre a sufficienza giustificazioni umane, presenze umane; un rifugio sempre per il cuore. E anche mi sembra che musica e poesia siano lontane, lontanissime. Lei penserà [...] che questa mia paura della poesia, questo cercar rifugio nella musica dipende da certe mie personali amarezze e sconfitte. Certo è così.3

Fin dagli anni ’50, la musica rappresenta per Raboni una sorta di specchio della poesia: un’arte sorella attraversata dagli stessi cambiamenti fratture e trasformazioni che interessano la letteratura, ma capace di lasciarli emergere con maggiore evidenza, in maniera più chiara ed essenziale. In Esempi per Brahms, pubblicato su «Aut Aut» nel ’58,4

Raboni tenta di analizzare le strutture del linguaggio del musicista: ne indaga le frasi, i temi, lo spessore, usando termini molto vicini a quelli degli scritti sulla poesia, e si spinge a paragonare la musica di Brahms a un’altra fondamentale esperienza linguistica della cultura occidentale, quella compiuta da James Joyce nell’Ulisse.

A distanza di qualche mese dalla pubblicazione, egli stesso ammetterà con Betocchi di considerare questo testo su Brahms un po’ stravagante e non perfettamente riuscito. In realtà, aggirata qualche tortuosità, l’obiettivo che il poeta si propone appare piuttosto chiaro: usando come «reagente» il romanzo di Joyce, Raboni vuole prendere in esame la «struttura esistenziale del linguaggio brahmsiano», ovvero individuare «il particolare angolo che la diagonale del linguaggio forma con il piano reale».5 Ancora una

volta egli affronta la questione centrale del punto di vista, ovvero del come, o meglio del

dove, lo strumento del linguaggio debba posizionarsi di fronte alla realtà. «Calcolare

quest’angolo – spiega infatti Raboni – vuol dire verificare quello che ci sembra il più 3 FB, lettera di Raboni del 14 febbraio 1954.

4 Giovanni Raboni, Esempi per Brahms, «Aut Aut», 48, novembre 1958. 5 Ivi, p. 326.

autentico dominio dell’espressione brahmsiana e cioè la trascrizione di una realtà comune, l’approfondimento e la pronuncia di un nucleo oggettivo molto radicato, di un’esperienza veramente fedele ai primi dati».6 Il vocabolario critico – «verificare»,

«trascrizione», «realtà comune», «esperienza», «dati» – è quello già adoperato per Pound, che verrà poi riutilizzato per Luzi, per Sereni, persino per Ungaretti, ed è, dunque, qualcosa ben di più significativo di una semplice eco di formule e categorie in voga. In Brahms, nota ancora Raboni, mancano «folgorazioni» e «soluzioni oniriche», e la lingua si limita a inseguire la realtà assumendo, proprio per questo, un particolare «spessore»:

dovendo rispecchiare e verificare una realtà infinitamente complessa […] la frase diventa tanto più sensibile, capillare, forse tortuosa; lo sviluppo prevale sull’enunciazione categorica, l’importanza letterale del tema si attenua di fronte al suo approfondimento analitico e alla sua capacità di adattamento nei confronti di una realtà che procede per variazioni continue e sottili.7

Come quello joyciano, il linguaggio di Brahms appare a Raboni autonomo rispetto alla realtà pronunciata: al di là dell’immagine del mondo che trasmette, esso diventa infatti una «acquisizione della nostra cultura», uno strumento efficace e riutilizzabile.8 Brahms

– che, come vedremo, Raboni associa frequentemente a Pound – rappresenta, dopo il poeta dei Cantos, un secondo maestro senza trascendenza,9 e viene contrapposto a

Beethoven, così come Eliot fa da contrappeso a Pound. Ancora una volta le lettere a Betocchi aiutano a chiarire un punto importante. Al poeta fiorentino, che come di consueto aveva ricevuto in lettura l’articolo e lo aveva commentato col giovane amico, Raboni indirizza infatti una significativa precisazione:

Mi sembra verissimo quello che Lei dice del mio pezzo su Brahms e, più in generale, della drammatica situazione di una cultura che gira in tondo vedendo in se stessa il proprio unico fine. Su un solo punto sento il bisogno di giustificarmi e di precisare le mie intenzioni: anche in questo pezzo, come nello scritto su Pound che lei forse in parte ricorderà, la mia analisi ha, seppure non proclamato (forse più evidente nel Pound), un punto di fuga, di convergenza, insomma una prospettiva che in sostanza mi sembra coincida con le ragioni della Sua critica: contrapponendo allora Eliot a Pound e adesso (in modo molto più indiretto) Beethoven a Brahms io intendevo appunto suggerire che l’impasse filologica si supera, si può superare in una visione dinamica che includa e trascenda, come uno spazio più vasto e finale, il mondo della realtà data e della cultura intesa unicamente (Pound, 6 Ibidem.

7 Ivi, p. 327.

8 Si veda, per contrasto, quello che Raboni scrive in una recensione all’opera del poeta Attila Jòzsef: «Jòszef è tutt’altro che un caso letterario interessante: come altri grandi poeti, sembra nutrire verso l’idolo della forma più rispetto che amore, una serena sicurezza che rasenta l’indifferenza. Non cercheremo nella sua poesia scoperte di spazi formali validi per sé, capaci di ricevere e creare diversi contenuti» (Segnalazioni, «Aut Aut», 49, gennaio 1959, p. 69).

9 Il caso di Brahms conferma, conclude suggestivamente Raboni, che proprio nello «spessore del linguaggio», nei «deliziosi abissi della pronuncia» si trova spesso il «supremo asilo di chi conduce una esperienza profondamente morale, ma senza altri soccorsi» (Esempi per Brahms, cit., p. 329).

Brahms) come l’approfondimento linguistico, la dimensione estetica di questa realtà. Certo, la mia non è una posizione critica ma appena una prospettiva, una colorazione spirituale, e lo sgomento che anch’io provo di fronte a un linguaggio che s’avvolge su se stesso ed è inchiodato al significato dell’esperienza fisica non m’impedisce di ammirare Pound come e più di Eliot e di amare Brahms forse più dell’infinitamente più grande Beethoven. Così anche a proposito di Brahms ho cercato di analizzare, tentando relazioni e accostamenti magari un po’ fantasiosi, le ragioni della validità linguistica e della novità del discorso brahmsiano, più che a mettere in luce quella che a me come a Lei (ma veramente non so se Lei condivide questo modo di intendere Brahms) appare come una vera e propria mutilazione spirituale.10

Se Raboni si schiera dunque istintivamente «dalla parte di Brahms» (e di Pound), egli non può non riconoscere in sé un intimo e radicato bisogno di un «punto di fuga»: di abbracciare cioè un’idea di scrittura che in qualche modo superi la pura e spasmodica

trascrizione del caos del mondo e si apra a un qualche spiraglio di speranza o anche

soltanto di fiducia nel valore di riscatto dell’arte stessa.

Come accade a molti poeti e scrittori, anche nel caso di Raboni l’interesse per la musica trascina con sé una fitta trama di letture e riferimenti culturali. Anzi, il più delle volte, gli ascolti musicali che nutrono il giovane poeta sono accompagnati e filtrati da ben precise esperienze e scoperte letterarie, che la musica contribuisce a illuminare, amplificare e rendere memorabili. In una sua breve autobiografia di «musicomane passivo», pubblicata nel 1999 sul «Corriere»,11 Raboni stesso è costretto ad ammettere

che «uno scrittore non può parlare del proprio amore per la musica – tanto meno per una musica – senza fare, bene o male, della letteratura».12 Più volte il poeta ha ricordato

la sua passione per il Doctor Faustus di Thomas Mann, e in particolare per il capitolo dedicato alle lezioni del maestro Kretzschmar su Beethoven. Sono proprio le pagine di Mann a propiziare a Raboni l’incontro con l’opera del musicista:

Non so come […] non m’era mai riuscito di ascoltare dal vivo l’ultima, l’estrema fra le sonate per pianoforte di Beethoven, l’op. 111 […]. In compenso, sapevo quasi a memoria le pagine stupende ad essa dedicate nel Doctor Faustus, il romanzo di Thomas Mann la cui traduzione italiana, pubblicata da Mondadori nel ’49, era diventata – e come avrebbe potuto non accadermi, in quegli anni? – uno dei miei livres de chevet. Mi ripetevo le frasi, al tempo stesso misteriose e lampanti, che il grande scrittore, con la complicità del suo «consulente» T.W. Adorno, aveva messo in bocca al goffo e geniale Wendell Kretzschmar per spiegare «perché Beethoven non ha aggiunto un terzo tempo alla sonata per pianoforte op. 111» e come proprio in questa assenza, in questa enigmatica e sublime mutilazione si celebri il commovente e in qualche modo terribile «addio» dell’intera musica occidentale alla lunga, gloriosa vicenda della forma sonata; e quasi quasi mi sembrava di sapere, di quella composizione sconosciuta, qualcosa di più che se la conoscessi, anche se naturalmente, riflettendoci, mi rendevo conto di saperne molto meno....13

10 FB, lettera di Raboni del 20 dicembre 1958.

11 Inebrianti incognite di un’incarnazione, cit., in TP2014, vol. II, pp. 232-236. 12 Ivi, p. 236.

Nei saggi critici, nei pezzi giornalistici e nelle interviste, sono frequentissimi i riferimenti al Faustus,14 letto e riletto, da ragazzo, assieme all’amico Arrigo Lampugnani Nigri nella

famosa estate del ’50 («Lì c’era tutto: la tragedia e l’intelligenza della tragedia, l’avanguardia e l’antidoto dell’avanguardia; e già Adorno, persino».)15 Nel 2002, in un

intervento destinato a un volume di omaggi al musicista Giacomo Manzoni,16 Raboni si

sofferma su una significativa coincidenza:

ricordo d’aver letto, non solo con grande interesse ma anche, a tratti, con commozione, [...] il racconto in terza persona del […] lungo percorso d’avvicinamento alla composizione del

Doctor Faustus che Manzoni pubblicò una quindicina d’anni orsono sulla rivista «Il Verri» e

che fu ripreso nel programma di sala quando [...] l’opera andò in scena alla Scala. E al di là del fatto, non poi così sorprendente, che anche su di me la scoperta del gran libro di Thomas Mann (avvenuta, mi sento di presumere negli stessi mesi, forse, chissà, nelle stesse settimane) aveva avuto un impatto fortissimo, per molti aspetti addirittura decisivo, a colpirmi fu soprattutto un particolare apparentemente secondario ma, per me, così sottilmente, così incantevolmente suggestivo da provocarmi quasi un brivido, una specie di soprassalto interiore. Manzoni racconta, a un certo punto, di essersi parzialmente ispirato alla descrizione d’una delle immaginarie composizioni di Adrian Leverkühn «per il finale di una sua operina in un atto destinata al saggio del conservatorio – 1955? – ma rimasta poi nel cassetto». Ebbene, pochi anni prima (anch’io potrei azzardare con qualche dubbio una data: 1952?) e comunque sicuramente a ridosso della lettura del Faustus, anche a me capitò di rifarmi a una di quelle composizioni – precisamente alla suite per burattini composta da Adrian dopo le sue Pene d’amor perdute e prima dell’Apocalipsis cum figuris – per il titolo, Gesta

Romanorum, della mia prima raccolta di versi, rimasta anch’essa per molti anni nel cassetto

prima che mi decidessi a pubblicarla, per così dire, a cose fatte, come testimonianza o rimorso giovanile…17

Nella memoria del poeta il romanzo di Mann appare legato a un momento di passaggio. Ciò che le pagine del Doctor Faustus raccontano è un congedo dal «vecchio» per approdare a un «nuovo» ancora non del tutto definito, una crisi del linguaggio che sembra portare alla rovina ma che forse – suggerisce Raboni – prelude semplicemente a un mutamento. È una situazione che, agli occhi del poeta, appare singolarmente vicina a quella attraversata dalla poesia del dopoguerra, alle prese con l’implosione (o, forse, esplosione) del linguaggio ermetico e con una profonda crisi di identità e di rappresentazione. Scrive Raboni:

14 Un primo esempio in Giovanni Raboni, Esempi non finiti della storia di una generazione, «Aut Aut», 61-61, gennaio-marzo 1961, p. 76: «Se fosse possibile e se fossimo capaci di descrivere questo libro, questo poeta come ha fatto Thomas Mann per le ipotetiche musiche seriali di Adrian Leverkühn, credo che il ritratto finirebbe con l’assomigliare moltissimo al Luzi dell’Avvento notturno».

15 Raboni, Quell’estate del 1950, cit., p. 32.

16 Giovanni Raboni, Primo frammento sulla redenzione, in Per Giacomo Manzoni, a cura di Carmelo Di Gennaro e Luigi Pestalozza, Quaderni di M/R Libreria Musicale Italiana, supplemento 2, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2002, pp. 191-193.

Dietro questo remoto intreccio di coincidenze […] c’è per altro, credo, qualcosa di più sostanziale, qualcosa che ha probabilmente a che vedere con un modo analogo di vivere il significato e la funzione e insomma, per dirla con Adorno, la «filosofia» del nuovo: nella musica come (mutato, s’intende, il non poco che è da mutare) nella poesia. Il vecchio, amatissimo Thomas Mann – e proprio Manzoni l’ha detto, nella sua prefazione al Doctor

Faustus dei Meridiani, con tanta semplicità e precisione da indurmi a ridirlo con le sue stesse

parole – «non poteva intendere il nuovo mondo musicale […] nel segno della positività... Con la sua ottica di uomo musicalmente legato all’Ottocento, egli non poteva che scorgere nei prodotti del suo personaggio […] i messaggeri di una musica angosciosa e sinistra…». In altre parole (parole, sempre, di Manzoni), Mann ha intuito il nuovo «quasi contro se stesso, lanciando un messaggio di redenzione autentica per la musica del futuro» – una musica in cui tutte le peculiarità del linguaggio, tutti i mezzi formali ed espressivi che nella prospettiva di Mann potevano essere usati solo per lanciare messaggi «angosciosi e sinistri» vengono usati, invece, «nel segno della positività» – che si inserisce in modo esemplare nella musica dello stesso Manzoni, compresa, ovviamente, la musica del «suo» Doctor Faustus.

Insomma, l’opera che Manzoni ha tratto dal romanzo di Mann chiude, mi sembra, con assoluta perfezione il cerchio di quel percorso di «redenzione» al quale il romanzo allude nel momento stesso in cui si propone o forse semplicemente presume di negarlo, ossia nel momento stesso in cui dà l’impressione di optare, sia pure a malincuore, per la tragica inevitabilità della dannazione. Ma (ecco il punto o, meglio, la domanda cruciale) qualcosa di analogo non è successo forse, durante il Novecento, anche nel campo della poesia? Non è forse vero che anche lì dei mezzi, degli strumenti linguistici ai quali sembrava preclusa qualsiasi possibilità di essere usati e intesi «nel segno della positività», che sembrano dover essere adibiti senza fine […] al ruolo di reperti (e provvisori puntelli) d’una catastrofica, irrimediabile rovina, si sono rivelati invece non soltanto passibili, ma addirittura portatori, veicoli, messaggeri di «redenzione» – di quella redenzione, magari, che sempre ci si nega o neghiamo, che da sempre viene bloccata o sfigurata o resa comunque, generazione dopo generazione, atrocemente impossibile altrove, nella società, nella vita? Personalmente, sono convinto che sia vero; ed è proprio su questo punto che si è incentrato, nei lontani anni Sessanta, il contenzioso fra il non-gruppo dei poeti del quale, nei limiti in cui si può far parte di un non-gruppo, facevo allora parte e il gruppo iperorganizzato dei poeti e teorici della cosiddetta neo-avanguardia, tanto convinti assertori e propugnatori del nuovo quanto prigionieri – se ne rendessero o, più probabilmente, non se ne rendessero conto e fossero anzi convinti di trovarsi ben in salvo, ben al riparo sulla sponda opposta – del fatale cortocircuito nuovo-negatività. Ma questo è, si capisce, un altro discorso, un discorso che mi propongo di fare, magari in occasione di una delle prossime ricorrenze comuni, con il mio amico Giacomo Manzoni, convinto come sono che in musica le cose importanti succedono spesso prima e in ogni caso si vedono quasi sempre più chiaramente, più limpidamente che in poesia.18

All’interno del panorama della poesia del Novecento, Raboni traccia una linea «positiva» che ha saputo fare dei nuovi «mezzi» e «strumenti linguistici», generati dalla crisi del linguaggio, non soltanto dei sismografi del caos e della rovina ma, come è accaduto in musica, dei «portatori, veicoli, messaggeri di “redenzione”». A distanza di molti anni dal periodo di «Aut Aut» e delle discussioni sulla poesia nell’età dell’industria, egli continuerà a essere fedele al tentativo di rompere l’aggancio tra «nuovo» e «negativo», di conservare almeno alla poesia (e forse a lei sola) uno spazio di «redenzione» e di riscatto. Poco importa se di fronte alla compagine «iperorganizzat[a] dei poeti e teorici della cosiddetta neo-avanguardia» sta un «non-gruppo» di poeti. Tra loro, nelle singole (e anche molto diverse) esperienze di quella che presto ribattezzerà la «poesia che si fa», al 18 Ivi, pp. 192-193.

riparo da manifesti scuole o programmi, Raboni comincerà a cercare i propri compagni di strada.

II.2 Ancora sulla biblioteca di Raboni

Nel marzo ’59 Raboni dedica un altro contributo su «Aut Aut» a un parallelo tra musica e letteratura. Tenta, questa volta, di accostare Beethoven a Proust, dando corpo a un’antica «fissazione».19 Lo dichiara nelle primissime righe, in un incipit che, tra l’altro, è

tutto proustiano: «Per molto tempo ho inseguito il rapporto tra la Recherche e gli ultimi quartetti per archi di Beethoven».20 Qual è, agli occhi di Raboni, l’elemento comune a

queste due esperienze? I quartetti 130, 131, 132 e 135 di Beethoven mettono l’ascoltatore di fronte a un «ribaltamento dell’immagine del mondo che le opere della maturità avevano faticosamente e vittoriosamente innalzato»: Beethoven vira infatti verso «una tematica completamente interna», restituita da un «linguaggio nudo e

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