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Mostrare la corda della parola

III.1 Raboni lettore di Gadda

Nell’autunno del 1960, mentre lavora al saggio sui «poeti di mezzo»,1 Raboni

prepara anche un articolo dedicato a un autore che da anni segue con profondo interesse: Carlo Emilio Gadda.2 Come di consueto, il primo ispiratore di questo lavoro è

Betocchi: già nell’estate del ’57, colpito dagli appassionati commenti del giovane amico sulle pagine del Pasticciaccio, il poeta fiorentino gli aveva suggerito di tentarne una sua lettura critica.3 Il primo saggio gaddiano di Raboni esce, però, soltanto tre anni più tardi,

nel novembre del 1960.4 Si intitola Principio di una discussione su C. E. Gadda, ed è uno

scritto importante, pieno di calore, profondamente meditato. Come accade con altri autori che Raboni sente particolarmente vicini, anche le pagine su Gadda nascono da una intensa consuetudine di lettura, da una lunga fedeltà all’opera dello scrittore, che Raboni affronta nel suo complesso, tentando di scardinare i luoghi comuni critici che, a suo parere, ne condizionano più acutamente (e ingiustamente) l’interpretazione. Più che ad aprire ulteriori piste di indagine e ricerca, egli mira a suggerire una nuova e diversa chiave di lettura di Gadda: propone, cioè, di spostare il baricentro dell’attenzione ermeneutica dal semplice piano della forma a quello, ben più ampio, del significato globale dell’indagine conoscitiva compiuta da Gadda attraverso la scrittura. Detto in parole più semplici: limitarsi a rilevare le sottigliezze della baroccaggine gaddiana pare a Raboni un’operazione infruttuosa se non si tenta anche di comprendere quale specifica

1 Giovanni Raboni, Esempi non finiti della storia di una generazione, «Aut Aut», 61-62, gennaio-marzo 1961. 2 Il carteggio con Betocchi offre numerose prove dell’attenzione di Raboni per Gadda. Dell’autore del

Pasticciaccio, Raboni aveva apprezzato molto uno scritto sui Promessi Sposi, apparso sul «Giorno» del 26

luglio 1960 (si trattava di una risposta alla nota introduzione al romanzo firmata da Alberto Moravia per l’edizione Einaudi del 1960). Nel gennaio ’59, inoltre, aveva recensito il volume di saggi I viaggi la

morte, uscito l’anno precedente per Garzanti (Segnalazioni, «Aut Aut», 49, gennaio 1959, p. 68).

3 FB, minuta di Betocchi del 1 ottobre 1957: «In questi giorni ho letto altre pagine di Gadda [...] su PALATINA, n. 2 […]. Io credo che Gadda sia scrittore molto migliore degli interessi ristretti attraverso i quali viene interpretato da critici suoi ammiratori sviscerati ma del tipo di De Robertis: è come un prisma infinitamente sfaccettato di tutti i complessi interessi che ci circondano. Sarebbe molto interessante, penso, date certe tue inclinazioni, leggere un tuo saggio su questo autore». 4 Giovanni Raboni, Principio di una discussione su C. E. Gadda, «Aut Aut», 60, novembre 1960.

verità e immagine del mondo quella stessa baroccaggine voglia comunicare. Un cambiamento di prospettiva, che distolga lo sguardo dalla superficie della pagina e lo allarghi al senso più profondo dell’opera di Gadda, gli sembra dunque affatto urgente e necessario.

Certo nel ricchissimo panorama della bibliografia critica su Gadda il saggio di Raboni, a tratti appesantito anche da qualche tortuosità sintattica, potrà apparire trascurabile; è però di estremo interesse per ricostruire il suo percorso di critico, di lettore e, come sempre, di poeta. Anche dal punto di vista metodologico, queste pagine si rivelano preziose. Raboni vi mette in campo infatti, in modo quasi esemplare, tutto l’armamentario critico assorbito dalla fenomenologia, ravvivato da una capacità argomentativa e da un piglio inquisitorio, che sono probabilmente il frutto anche dei lunghi anni di studio e pratica giuridica. Quello che il giovane critico inscena è un vero e proprio processo letterario, che vede sul banco degli imputati proprio le interpretazioni più comuni, i topoi critici più diffusi sul conto di Gadda. In omaggio agli insegnamenti della scuola di Paci, l’incipit del saggio è una constatazione di quanto sia necessario, prima di accostarsi alla lettura di un testo, imporgli (e imporsi) una salutare epoché:

Di solito, se pensiamo di riaccostarci a uno scrittore – e ancora di più se è con l’intenzione di farne poi parte a terze persone, di proporne, diciamo pubblicamente, una certa lettura – uno dei primi scopi che dovremmo perseguire è di riuscire a leggerlo «come nuovo», a liberarlo del maggior numero possibile di luoghi comuni e di incrostazioni. Questo non vuol dire che si debba per forza, ogni volta, contraddire tutti gli schemi e le approssimazioni che sulla sua opera sono stati tentati in precedenza, né che si debba arrivare per forza a delle conclusioni critiche diverse: anzi, può darsi benissimo che si finisca con il constatare che molti di quei luoghi comuni sono dei luoghi critici obbligati, necessari. L’importante è di non partire da essi, ma dall’opera; di creare intorno all’opera una certa sospensione, un certo silenzio, mettendo fra parentesi tutte le definizioni e le proposte che siamo abituati, quasi per inerzia, a ricollegare.5

Il metodo critico del processo al luogo comune è familiare a Raboni: il suo primissimo scritto per la «Chimera» era dedicato proprio a una messa in discussione dei «luoghi comuni sul cinema»,6 e nei saggi sulla poesia del dopoguerra egli spende lunghi paragrafi

per verificare, in tutte le sue implicazioni, la validità dell’ormai consolidata etichetta di «ermetismo». Stavolta l’immagine critica con cui egli deve fare i conti è la «più comunemente diffusa» a proposito di Gadda: quella di «un Gadda essenzialmente stravagante e asimmetrico, barocco, neoavanguardista o perlomeno precursore e

5 Ivi, p. 370.

autorizzatore di nuove avanguardie».7 Si tratta di uno stereotipo che non mette in gioco

soltanto la corretta interpretazione della figura gaddiana, ma anche quello che Raboni chiamerebbe il suo valore strumentale: il significato, cioè, che gli spazi formali aperti dalla scrittura di Gadda rivestono per chi, dopo di lui, vorrà appropriarsene, riutilizzandoli a sua volta.

In varie lettere a Betocchi, Raboni manifesta insofferenza per le formule critiche più in voga e per la loro limitatezza. Qualche mese prima dell’uscita del pezzo su Gadda, egli aveva dedicato una (insolitamente lunga) recensione a una raccolta di scritti di Giuseppe Raimondi, Lo scrittoio.8 Betocchi l’aveva apprezzata particolarmente, e Raboni

si era dimostrato assai felice degli elogi. Scrivendogli nell’ottobre ’60, gli spiega che a quel pezzo «nato occasionalmente», per motivi «forse un po’ difficili da spiegare», teneva davvero molto, e nel finale della stessa lettera aggiunge un riferimento anche al saggio su Gadda in preparazione:

il libro recensito [Lo scrittoio di Giuseppe Raimondi] [...] era anche un po’ un pretesto per girare intorno a un argomento – la complessità o, se si vuole, l’ambiguità della cultura letteraria italiana anteguerra – che non finisce mai d’appassionarmi. Forse sarà per reazione: perché altri, molti, l’hanno già definita (nel senso di liquidata) – o almeno credono d’averlo fatto – da un pezzo, ma è un fatto che ogni volta che mi avvicino ad un aspetto di quella situazione sento l’insufficienza, la rigidità delle formule critiche, sia d’allora che di dopo, d’adesso – la disparità, davvero drammatica, fra la statura degli attori e quella degli spettatori-professionisti, dei critici. Ma qui mi sto imbarcando in un discorso un po’ troppo ambizioso... (Di questa mia disposizione ho cercato un’altra applicazione, un po’ particolare, in un pezzo su Gadda che ho finito in questi giorni e che uscirà su «Aut Aut» di novembre, cioè in dicembre: e che avrà subito, naturalmente).9

Nella sua severa critica a formule ed etichette, raramente Raboni si limita alla pars

destruens. Anche nel caso di Gadda – com’era già accaduto nella discussione, sopra

ricordata, sulla categoria di «ermetismo» – prima di demolire e accantonare del tutto il 7 Raboni, Principio di una discussione, cit., pp. 370-371.

8 La recensione esce su «Aut Aut», 59, settembre 1960, pp. 342-343 (sezione Recensioni). Fedele al suo consueto procedere per opposizioni, Raboni paragona Raimondi, scrittore rondista, al prosatore d’arte per eccellenza, Emilio Cecchi. Rispetto a quest’ultimo, rintraccia in Raimondi una coscienza più «lacerata», dovuta al contrasto tra l’aspirazione alla limpidezza del linguaggio e la percezione di «una serie di verità tanto più basse e confuse» (ivi, p. 343). Alla complessità tutta intellettuale di Cecchi oppone dunque la complessità «morale» di Raimondi, evidente nell’uso «doloroso» della punteggiatura, ben distante dalla frase salda ed elastica di Cecchi (ibidem). Le intuizioni critiche di Raimondi, conclude poi Raboni, non tendono mai «ad una vera compiutezza e autosufficienza» ma sfociano «sempre in un appello […] alla parte pesante e oscura, oscuramente profetica di ogni incarnazione poetica» (ibidem).

9 FB, lettera di Raboni del 12 ottobre 1960. Grazie a questa recensione, e alla mediazione di Betocchi, Raboni allacciò con Giuseppe Raimondi un breve ma significativo scambio epistolare, di cui resta un’interessante testimonianza: quattro lettere di Raboni e una minuta di Raimondi sono conservate presso il Fondo Giuseppe Raimondi della Biblioteca del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna; tre lettere e una cartolina di Raimondi sono custodite nell’Archivio privato dell’autore.

luogo comune messo sotto accusa, cerca di sfruttarne il più possibile quello che chiama il «contraccolpo attivo»:10 dallo stereotipo, dalla formula insoddisfacente tenta insomma

di trarre, quasi per reazione, qualche spunto di riflessione, qualche appiglio concreto da cui tentare un’impostazione più corretta ed equilibrata del problema.

Come la categoria di «poesia ermetica», anche l’immagine del «Gadda barocco» sembra a Raboni un «feticcio» o meglio addirittura un «contro-feticcio» poiché risulta prodotta da un’altra convenzione critica, ovvero dall’identificazione della prosa d’arte dell’entre deux guerres con un ideale di purezza, nitore, equilibrio e misurata musicalità. Spiega Raboni:

la convenzione critica sulla prosa d’arte […] ha contribuito a formare e condiziona dall’esterno la convenzione critica su Gadda. Questo condizionamento agisce ed è visibile, mi sembra, in almeno in due direzioni: 1) nel senso che costringe la lettura di Gadda in una dimensione prevalentemente formale, nell’ambito di un’attenzione quasi esclusiva alle figure sintattiche, alle scelte linguistiche ecc. intese come valori assoluti, come strutture autonome e autosignificanti (o perlomeno come termine principale di un rapporto in cui all’altro termine – diciamo, riassuntivamente, il materiale, la sezione reale investita dalla rappresentazione – non è riconosciuto che un ruolo secondario e subordinato); 2) nel senso che – all’interno di tale dimensione formale – ispira a contrario la lettura di Gadda e i relativi schemi definitori ponendosi come l’oggetto esemplare a cui riferirsi, magari inconsciamente […]: ispira cioè l’immagine di un Gadda asimmetrico per quanto un Cecchi, un Baldini, un Praz o un Cardarelli tendono più o meno indirettamente a una finale simmetria di disegno compositivo e di discorso: ricco di escrescenze, divagazioni e digressioni, luoghi specifici, arricchimenti estemporanei per quanto quelli osservano un predestinato rigore; sfrenato e involuto, barocco, per quanto quelli rappresentano […] l’intento di una restaurazione neoclassica […].11

Le due immagini – la «prosa d’arte» e il «barocco gaddiano» –, spesso usate per esorcizzarsi l’un l’altra, finiscono per produrre effetti deformanti; proprio dal loro cozzare, tuttavia, risulta evidente secondo Raboni l’errore di fondo, lo «sbaglio da evitare»: condurre la lettura di Gadda «ad un solo esclusivo livello, quello della superficie della pagina, della scrittura». Da qui parte il rovesciamento prospettico che egli propone. La serrata messa in discussione dei pregiudizi critici su Gadda, basati su un’attenzione eccessiva alla «pagina» intesa come stile, come forma, fa infatti emergere per contraccolpo tutta l’urgenza di avviarne una lettura «libera», «totale», «capace di esplorare con imparziale efficacia tutte le dimensioni nelle quali il testo può e deve essere percepito, e che con la loro presenza simultanea identificano lo spazio dove si realizzano e possono essere raccolte la sua complessa geometria e la sua “verità” organica».12

10 Principio di una discussione, cit., p. 371. 11 Ivi, p. 373.

Raboni – lo si è sottolineato più volte – considera la forma, la «superficie della pagina», come uno strumento, un mezzo usato per la trasmissione di una verità. Le complicate «macchine stilistiche» della prosa gaddiana gli appaiono così «apparecchi igroscopici», «trappole verbali» che hanno la funzione di catturare notizie, dati, cause e circostanze. È utile rileggere per intero anche questo paragrafo del saggio:

Io credo che una lettura […] che riuscisse a tenere un conto specifico e originario, oltre che della qualità assoluta, irriferita della prosa gaddiana, anche dell’attitudine di ogni suo luogo, di ogni sua singola macchina stilistica a essere una specie di apparecchio igroscopico, di trappola verbale per catturare nel modo apparentemente più ozioso e indiretto una quantità enorme di notizie ambientali, condizioni, antefatti e circostanze che non mancano poi mai di apparirci indispensabili a un giusto intendimento, anzi alla decifrazione stessa dei fatti rapportati; nonché del particolare disegno secondo il quale Gadda concepisce e attua la funzione narrativa (più nello spazio, direi, che nel tempo: come un congegno che anziché scandire una serie di successioni temporali, è destinato a propagare un certo grumo esistenziale di casa in casa, di quartiere in quartiere... fino «a casa del diavolo»: cfr. L’incendio

di via Keplero, ultima riga); nonché della storia in qualche modo irreversibile del suo umore,

della lenta metamorfosi sociologica del suo pessimismo (dal risentimento alla pietà, dall’alta e media borghesia alla piccola borghesia burocratica e al sottoproletariato: dall’Adalgisa al

Pasticciaccio: benché con infiniti avvolgimenti e anticipazioni); ecc. ecc. […]: credo, dicevo,

che una lettura di questo genere ci procurerebbe di Gadda tutt’altra figura, un’immagine completamente diversa per non dire, in un certo senso, addirittura opposta.

Qualche riga più avanti, con un’altra efficace metafora, Raboni paragona la scrittura di Gadda a una sonda:

una mostruosa sonda capillare capace di portare a livello di percezione i sussulti più interni, segreti e magari vergognosi, inconfessabili, dello spessore sociale investigato.

Agli occhi di Raboni, Gadda si mantiene ben lontano da qualsiasi sperimentalismo formale: le sue soluzioni stilistiche non provengono mai da esperimenti compiuti a freddo, a priori, e poi riadattati a un qualsiasi oggetto; al contrario essi risultano perfettamente funzionali alla «accanita esperienza conoscitiva», alla «continua implacabile esplorazione di uno spazio storico-geografico» compiuta attraverso la scrittura.13

Già nel settembre 1957, mentre leggeva per la prima volta il Pasticciaccio, Raboni si era lamentato con Betocchi di alcuni superficiali paragoni: «ma come fa Cecchi a dire (sul Corriere) che Gadda è vicino a Joyce? Credo che Joyce avrebbe potuto scrivere un capitolo di un libro con una scrittura del genere: ma Gadda scrive così da sempre, e solo così (non dico che non sia difficile)».14 Lo stile di Gadda, riflette Raboni, è tale perché

egli non potrebbe esprimersi in altro modo. Nel saggio su «Aut Aut», con un felice gioco

13 Ivi, pp. 375-376.

di metafore, il poeta paragona la struttura narrativa dei romanzi di Gadda a un complesso meccanismo di «congegni» messi a punto «per aumentare la superficie tramite la quale il discorso comunica con lo spazio reale, e quindi per accrescerne il potere assorbente, il grado attivo di captazione».15 La stessa lingua impiegata dall’autore del

Pasticciaccio – e arriviamo qui ai paragrafi più interessanti del saggio – ha, agli occhi di

Raboni, un valore straordinario per il suo «potere assorbente», per la sua «spugnosità», particolarmente evidente nell’uso delle parole dialettali, capaci di restituire da sole interi universi e atmosfere:

basta pensare a come nello schizzinoso eloquio milanese dei vari Cavigioni e Cavenaghi dell’Adalgisa si depositi, come in un filtro, l’odore di muffa-incenso, di ipotetico ma riposante comfort borghese e di lontani stufati che aleggia nelle stanze spaziose e semibuie dei loro appartamenti, fitte di mobili di noce sui pavimenti di legno lucidato a cera; o a come la parlata romanesca che costituisce la base e il connettivo del labirinto linguistico del

Pasticciaccio si gonfi, proprio come una spugna, per accogliere via via la presenza di infiniti

ambienti e oggetti, dagli squallidi scrittoi del commissariato alle bancarelle dei pescivendoli.16

Proprio in questa apertura, pressoché totale, della lingua di Gadda nei confronti della realtà, si gioca per Raboni la sua distanza da uno scrittore come Joyce. Da critico che ama i confronti, i ritratti per contrasto – e ripensando forse all’insoddisfazione provocatagli dal vecchio articolo di Cecchi –, Raboni decide di ridiscutere, nel suo saggio, anche il paragone tra Gadda e Joyce, tentando di chiudere definitivamente i conti sulla questione. Egli riconosce come entrambe le scritture (quella di Joyce e quella di Gadda) nascano da una «impossibilità di conoscere separatamente, senza falsare assurdamente ogni prospettiva, uno solo dei piani, una sola delle dimensioni che compongono lo spazio in cui l’opera respira e può essere conosciuta».17 Tuttavia,

rintraccia tra loro una differenza sostanziale:

mi sembra, anche a prima vista, innegabile che proprio all’interno di quello spazio l’intenzione delle stratificazioni linguistiche joyciane è di presentificare uno spessore e una complessità culturali prima e più che uno spessore e una complessità esistenziali; e che la lingua la cui fondazione costituisce uno dei punti limite, degli estremi di tensione di tutta l’opera di Joyce è […] un organismo autonomo e tirannico la cui ipotesi-base è la distruzione di tutte le lingue preesistenti, o meglio la riduzione di tutte le lingue storiche o viventi allo stesso luogo di lingue morte, di lingue legate all’esistenza ormai fantomatica di altrettante civiltà distrutte, presenti ormai solo come momenti di un flusso onirico in cui l’umanità ripensa confusamente se stessa. Non si potrebbe davvero essere più lontani dal significato e dalla funzione delle stratificazioni linguistiche e dialettali di Gadda. Queste ultime tendono […] a includere nello spazio della rappresentazione quanto più è possibile delle varie sezioni reali, a tirarsi dietro, immettendoli nel sempre aperto ciclo fantastico, il

15 Principio di una discussione, cit., pp. 376-377. 16 Ivi, p. 377.

maggior numero possibile di oggetti la cui attualità e presenza sono appunto connesse alle strutture, vive o state vive, di quella singola convenzione linguistica o di quel singolo dialetto.18

Di romanzo in romanzo, conclude Raboni, emerge nelle pagine di Gadda il filo di una storia, che è quella della graduale metamorfosi del suo pessimismo, dall’iniziale «risentimento» alla «pietà». Anche questa evoluzione – spiega Raboni – è, a conti fatti, una conseguenza del rapporto, che Gadda non cessa mai di inseguire, con la realtà e i suoi grovigli di storie:

data la spugnosità, l’inclusività della prosa di Gadda, dati insomma i particolari rapporti che l’opera inventiva di Gadda intrattiene con il tempo e lo spazio ideali in cui è immersa […] possiamo esser sicuri che non si tratta di un incontro casuale, di una pura coincidenza ma di una vera e propria – e naturale – maturazione, passata, si direbbe, per contagio dall’oggetto al soggetto, di una nuova e sottile attualità del modo in cui si corrispondono spazio reale e coscienza, insomma di un altro effetto (che è insieme un’altra prova) dell’attitudine captatoria, del grado attivo di assorbimento verso un oggetto totale posseduti da quella gigantesca trappola della realtà che è il «barocco» gaddiano.19

Per descrivere la prosa di Gadda, Raboni usa espressioni del tutto simili a quelle che aveva adoperato nei saggi sulla poesia del dopoguerra: parla di una costante tensione della lingua all’«arricchimento del proprio catalogo oggettivo», di una «continua amplificazione e penetrazione dello spazio reale nel quale si aggira»,20 ma anche della

«maturazione»21 del soggetto a contatto con un oggetto mutato. Chiarisce, insomma,

come gli apparenti virtuosismi stilistici della scrittura di Gadda non siano altro che progressivi sforzi di appropriazione, da parte della sua coscienza, di porzioni sempre più ampie dello spazio reale. In questo saggio, il linguaggio critico di Raboni si infittisce di metafore e termini legati alla sfera della caccia e dell’esplorazione terrestre e subacquea, alla chimica dell’assorbimento e della propagazione (la «trappola», la «sonda capillare», l’immersione, l’«attitudine captatoria», la «spugnosità», il «grado attivo dell’assorbimento»), ma anche alla meccanica (si parla di «congegno», «sistema di ingranaggi», «macchine verbali», «apparecchi» fino al paragone con «una fortificazione rinascimentale, o meglio ancora [con] una macchina per catturare un’energia cosmica»).22

18 Ibidem. 19 Ibidem. 20 Ivi, p. 377.

21 Ivi, p. 379. «Maturazione» è una parola chiave del paragrafo Betocchi e la maturazione dell’oggetto, contenuto in Giovanni Raboni, Esempi non finiti della storia di una generazione, «Aut Aut», 61-62, 1961,

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