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Costruzione identitaria e narrazione di un “io” collettivo

3. Memoria e narrazione in La femme sans sépulture e Cette fille-là

3.3 NARRAZIONE E COSTRUZIONE IDENTITARIA IN CETTE FILLE-LA

3.3.3 Costruzione identitaria e narrazione di un “io” collettivo

La storia di Malika si costruisce in absentia, all’interno di un luogo sottratto al mondo sociale, il pensionato, e senza punti di riferimento sull’identità biologica della narratrice. Il processo di ricostruzione identitaria affrontato da Malika prende forma a partire da un foglio bianco, dall’incapacità di sapere chi siano i suoi genitori biologici, da dove vengano i suoi capelli biondi che la rendono diversa rispetto al contesto in cui è immersa e quanto della sua storia passata sia imputabile a sé stessa e quanto alle circostanze contingenti. Ogni storia riportata innesca una riflessione sul passato di Malika, a sottolineare come la memoria collettiva della comunità femminile sottenda delle similitudini innegabili e comuni a tutte le vite dimenticate che alloggiano al pensionato.

La narrazione che Malika fa di sé stessa è in continuo mutamento, parte dal senso di rinnegamento con cui vive la condizione di orfana e la trasforma nell’occasione di plasmare la propria immagine per mezzo delle sue spiccate capacità affabulatorie:

Je suis l'héritière d'une histoire que je dois sans cesse inventer. Mais c'est peut-être cela ma richesse. Ma seule richesse.

Fille de rien. Fille de personne.227

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La carica simbolica della figura della bâtarde/farkha è data non solo dall’oscurità delle origini di Malika, ma anche dalle evidenze che la sua nebulosa storia porta con sé: nata alla vigilia dell’Indipendenza, Malika è una ragazza dai capelli biondi e gli occhi azzurri, abbandonata dai genitori; l’insieme di questi fattori rende evidente agli occhi di Malika che le condizioni della sua nascita derivino da una relazione condannata dalla morale, perché fuori dal vincolo coniugale e perché frutto di un’unione franco-algerina. Essere frutto di un’unione inconfessabile, forse violenta, forse solo tragica, pone Malika in una condizione di alterità rispetto al suo intorno.

J'ignore tout de ma filiation première. Je ne sais pas d'où je viens.

Je n'ai pas de racines. Je n'ai pas de repères généalogiques. Pour ceux qui, dans la rue, autrefois, me dévisageaient parce que trop visiblement autre, parce que délibérément autre, je ne voulais pas leur ressembler, je suis de sang-mêlé sans aucun doute. Une certitude. Leur certitude.

Avec ses cheveux clairs et ses yeux couleur d'un ciel d'ailleurs, elle n'est pas des nôtres.

Fille de la légion peut-être. C'est ainsi qu'on dit ici.228

Questa particolare disposizione ibrida le consente di colmare i silenzi della propria storia con un atto immaginativo e creativo, ovvero la scrittura. In questo senso, l’atto creativo, il ricorso alla fiction non è da intendersi in antitesi rispetto al reale ma a completamento della costruzione identitaria, della narrazione personale di sé. Questa narrazione del sé passa inevitabilmente per le radici culturali e la connessione con le altre donne con cui condivide la quotidianità. L’io della narrazione di Malika è un soggetto ibrido ma anche plurale e sfaccettato, strettamente legato alla storia recente dell’Algeria. Come sottolinea Samira Boubakour, il personaggio di Malika “symbolise cette part de l’identité

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algérienne sujette à l’exlusion et au soupçon après les mutations consécutives à l’action coloniale.229” Le identità di “fille de la légion” e di “bâtarde”, così come

l’internamento, la pongono inevitabilmente in una forma di svantaggio e di esclusione rispetto alla propria comunità e rispetto al discorso coloniale, ma le forniscono al contempo un punto di osservazione privilegiato per ricostruire la memoria collettiva femminile per mezzo delle storie di altre dimenticate. La reclusione all’interno del pensionato è essa stessa frutto di un desiderio di controllo e di catalogazione da parte della società in cui vive Malika. Ricorrere al dono innato della fantasia, congiunto alla sfortunata fatalità della pagina bianca della propria memoria di filiazione primaria, permette alla narratrice di smantellare le dinamiche di potere che passano per mezzo delle parole e delle categorizzazioni. Le descrizioni registrate dagli assistenti sociali e le motivazioni dell’internamento costituiscono una narrazione esterna e ingerente che vorrebbe limitare l’identità di Malika e definirla secondo criteri esterni e socialmente riconoscibili:

Ils disaient viol. Ils disaient folie. Ils disaient toutes sortes de mots qui ne me concernaient pas. Tous ces mots définitifs que l'on met sur les choses qu'on ne comprend pas.

Est-ce vraiment folie que de vouloir aller jusqu'au bout de soi?230

Liberarsi della parola impositiva della doxa, delle istituzioni o del discorso nazionale e coloniale è un processo collettivo innescato dalla parola del singolo, da un cambiamento della narrazione dell’io e del femminile più in generale. Questa ricerca di una narrazione alternativa è strettamente connessa alla decostruzione del discorso esistente per mezzo di un recupero della memoria collettiva o più nello specifico delle narrazioni alternative della memoria. Il ruolo della narratrice, che sembra prendere prepotentemente possesso dell’atto locutivo, è in realtà un’operazione di recupero e di messa in prospettiva.

229 S. Boubakour, “L’œuvre de Maïssa Bey : entre désir de liberté et sentiment d’abandon”, in H.

Hamdi (dir.), Maïssa Bey : deux décennies de créativité, Paris, L’Harmattan, 2019, p.121.

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Mostrare un altro punto di vista sulle vicende che sono passate sotto l’etichetta di follia, oltraggio alla morale o adulterio consente di moltiplicare la prospettiva del lettore e per conseguenza di richiedere una lettura critica e attiva del testo.

Malika polarizza le storie delle altre donne sotto un unico racconto collettivo che è quello di un’Algeria post-coloniale femminile in sofferenza che rischia di cadere nell’oblio. Ciò non diminuisce la potenza polifonica del romanzo, ma ne amplifica la portata. Lo stesso “io” narrativo si moltiplica e si trasforma in un “noi”, accoglie una narrazione sfaccettata, interpretabile da punti di vista differenti e in dialogo gli uni con gli altri. Per dire donna, all’interno di un’identità algerina post-coloniale, è necessario non solo dire “io”, ma raccontare anche un “noi” che cambi la narrazione del femminile e della memoria collettiva.

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