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La costruzione di un’unità politico-geografica in India: le ambivalenze intrinseche al processo di formazione nazionale e d

Capitolo 2: Le ambivalenze dei confini coloniali nel subcontinente indiano I processi alterizzanti nei rapporti tra Inghilterra e India

2.2 La costruzione di un’unità politico-geografica in India: le ambivalenze intrinseche al processo di formazione nazionale e d

decolonizzazione

Molti anni fa abbiamo preso un appuntamento col destino. Ora è giunto il tempo di onorare gli impegni presi. Allo scoccare della mezzanotte, mentre il mondo dorme, l’India si sveglierà alla vita e alla libertà. E’ un momento di quelli che raramente si presentano nella Storia, quando si lascia il vecchio per il nuovo, quando un’epoca finisce, quando l’anima di una nazione, a lungo oppressa, trova finalmente sfogo. Ed è proprio in questo momento solenne che ci impegnamo dunque a dedicarci al servizio dell’India e del suo popolo e a quello ancora più ampio dell'umanità.

Discorso di Jawaharlal Nehru all’Assemblea Costituente la notte tra il 14 e il 15 Agosto 1947205

Nel presente paragrafo, procederemo alla ricostruzione storica di quegli eventi che, attraverso la visione uniformatrice delle politiche espansionistiche operate nel subcontinente, dapprima dalla EIC, in seguito dal governo centrale di Londra, preludono alla conversione delle differenti realtà morfo-culturali dello spazio indiano nella frontiera politico- geografica apparentemente coesa di pertinenza del Raj. Come sottolineato precedentemente, la creazione di un’unità amministrativo-territoriale da parte del colonizzatore inglese costituisce il secondo presupposto che Reinhard ascrive alla decolonizzazione, in quanto essa si trova a collidere, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, con le ambizioni particolariste prodotte dalle ambivalenze identitarie, di cui sono oggetto- soggetto i colti Babu occidentalizzati. Questi ultimi iniziano, infatti, a percepirsi come legittima formazione culturale, non soltanto imprescindibile da, ma dialetticamente corrispondente a, un progetto di rivendicazione spazial-territoriale, concepito quale corollario della paradossale incongruenza derivante dall’applicazione dell’Arnoldian curriculum al contesto indiano. Questo perché secondo Viswanathan:

Indians receiving Western education were reading texts that taught them to be independent thinkers and leaders, but they had neither the independence nor the opportunity to lead. (Masks of Conquest p. 56)

Le politiche di modernizzazione fortemente volute dall’Amministrazione inglese cominciano a non rappresentare più, per le élites indiane più vicine ai dominatori, un modello di integrazione a cui aspirare. Il frustrante riconoscimento dell’inevitabile impossibilità di far coincidere intenzioni e obiettivi catalizza, al contrario, sentimenti di resistenza verso la presenza straniera, ora avvertita come elemento di profondo risentimento, antitetica ai loro interessi e al loro prestigio. Per di più, le crescenti discriminazioni che le filosofie razziali del tempo contribuiscono a instillare nell’immaginario collettivo occidentale, quando “during the middle years of the nineteenth century, ‘race’ like ‘civilization’ became one of the great catchwords of those Victorians who concerned themselves with events outside Britain”,206 rappresentano per queste classi un’ulteriore minaccia alla loro integrità identitaria individuale e collettiva.

Le proteste e gli assedi scoppiati in India nel 1857, meglio conosciuti come Indian Mutiny, sono valutabili sullo sfondo di tali sviluppi, in quanto costituirebbero, a parere di non pochi esperti, l’espressione del “burgeoning gulf between British authority and Indian subject”.207 Reinhard precisa, infatti, che:

Il Mutiny non fu assolutamente, come qualche volta si sente dire, la prima guerra di indipendenza dell’India, bensì l’ultima impennata dell’antica India, che sentiva minacciata la propria identità e le cui élites vedevano messo in discussione il proprio ruolo. (Storia del Colonialismo p. 196)

206 Antoinette Burton, At the Heart of the Empire: Indians and the Colonial Encounter in late Victorian

Britain, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1998, p. 28.

207 Levine, The British Empire cit., p. 77. Tutto ciò sarebbe ulteriormente confermato dall’interdizione

dello spazio letterario del subcontinente da parte degli inglesi. Nel suo studio sulla letteratura della Ribellione del 1857, R. Veena osserva che non soltanto la maggior parte delle opere sull’argomento è prodotta da britannici, ma che la produzione da parte di scrittori locali è censurata dalle autorità, in quanto considerata possibile veicolo di punti di vista sovversivi: “Shailendra Dhari Singh’s extensive study of the fiction on the Indian Mutiny includes some fifty novels on the subject, most of which were written prior to Indian Independence and none of which were authored by Indians. On the other hand, the National Archives, Delhi, have a handful of novels written by Indians in vernacular languages, before Independence, all of which are listed under the Proscribed Publications”. R. Veena, «The Literature on the Events of 1857: A Post-Colonial Reading», in Surya Nath Pandey (Ed.), Writing in a Post-Colonial

Forse non è troppo azzardato, dopo tutto, ricondurre all’odio e al risentimento culturale generati dalle violenze perpetrate su entrambi i fronti le origini di un antagonismo che, da questo momento in poi, caratterizzerà i rapporti fra dominati e dominatori, e che, in ultima analisi, porterà all’Indipendenza del 1947, quale risposta alle forme sempre più coercitive e alterizzanti imposte per far rispettare la pax britannica nel subcontinente. È dunque, ancora una volta, a partire dall’ottica delle ambivalenze culturali208 che proponiamo di analizzare gli eventi della Ribellione del 1857, con tutta probabilità, il primo importante momento di presa di coscienza delle classi occidentalizzate di un’opportunità di affermazione identitaria in relazione allo spazio del Raj. L’entità territoriale amministrata dagli inglesi diventerà, infatti, la posta in gioco, nonché il teatro delle azioni di riscatto storico-nazionale, delle nuove classi urbane che riarticoleranno nel poderoso movimento indipendentista indiano di fine Ottocento le discriminazioni e le esclusioni da loro subite nella zona frontaliera.

Proiettando, tuttavia, un’omogeneità identitaria immaginata come uniforme entro i confini di un’India costruita geograficamente e politicamente dal colonizzatore, i movimenti nazionalisti forzano una visione nazionale che non corrisponde alla complessità storica e alla varietà culturale del subcontinente. L’immagine di una nazione unita contro il dominatore straniero sarà infatti foriera, come vedremo in seguito, di ulteriori e rinnovate ambivalenze. Federica Zullo sostiene per l’appunto che:

208 Per Reinhard, il Mutiny è in gran parte riconducibile alla violazione di tabù culturali provocata

dall’introduzione, in campo militare, di pratiche ritenute inaccettabili da alcune componenti dell’esercito. Lo storico tedesco spiega, infatti, che: “Nel 1856 le reclute dovettero giurare di essere disposte a prestare servizio oltremare, cosa che per gli Indù, dalle cui caste più elevate molti provenivano, significava l’esclusione dalla società, che era appunto una società di casta. Ma soprattutto circolava la voce che le pallottole dei fucili in nuova dotazione, che dovevano essere staccate con i denti, fossero lubrificate con sego bovino e strutto di maiale: un animale era sacro per gli Indù, l’altro impuro per i musulmani”. Reinhard, Storia del Colonialismo cit., pp. 195-196.

Il fatto di rievocare una nazionalità perduta è riconducibile a ciò che Gayatri Spivak definisce come problema reale e immediato del soggetto coloniale, il quale, nella situazione di caos e mancanza di adeguamento storico del suo paese alle vicende della colonizzazione, richiama a sé la nazionalità in quanto metafora di referente identitario. (Il Cerchio della Storia p. 70)

Quando i primi commercianti inglesi arrivano nel subcontinente, nel diciassettesimo secolo, “India was not a single country or entity, but rather a collection of states ruled in different ways, and frequently with markedly different languages and customs”. 209 Gli inglesi realizzano sistemi mercantili in cui dominio e possedimenti sono finalizzati unicamente al servizio del commercio. Questo avviene nel pieno ossequio delle regole imposte dai governi locali, i quali non sono inferiori alle loro controparti europee quanto a prestigio e potere. Philippa Levine così descrive l’India al tempo in cui gli europei gettano le basi delle loro attività commerciali: By the eighteenth century much of northern and central India was ruled by the powerful Moguls. […] The last wave of Muslim Moguls had arrived in India from central Asia in the sixteenth century, cleverly forging alliances with powerful Hindu elites in India and rapidly establishing significant control. Mogul power and wealth was considerable and early British traders were obliged to pay homage to the Mogul rulers. In the seventeenth century European merchants typically traded in Asia by permission of local rulers whose power and military might were at least the equal of the Europeans. (The British Empire: Sunrise to Sunset p. 61)

Il principale interesse della EIC è quello di creare insediamenti – le cosiddette basi di appoggio o trading posts – per sfruttare al meglio le possibilità offerte dalla concessione di monopolio da parte della Corona. Ben presto, però, gli inglesi si rendono conto che possono volgere a loro vantaggio le ambivalenze generate dalle incongruenze del subcontinente. Soprattutto dopo la vittoria di Robert Clive a Plassey nel 1757, uno dei primi contrasti nel quadro di un conflitto conosciuto come Guerra dei Sette

Anni, la supremazia mercantile britannica è assicurata attraverso le azioni di uomini senza scrupoli, che gradualmente convertono, come già argomentato, un’impresa commerciale in un dirompente progetto di annessione e controllo territoriale incontrastato.210 Jens-Ulrich Davids fa notare che:

[…] the English pro-consuls in India unabatedly added territory after territory to their sway, plundered the countries they controlled, amassed fortunes that gave them the honorific title of “nabobs” in England and created enmity and hatred in India. (The Construction of Imperial Englishness: The Case of India p. 201)

Il più famoso fra i nabobs inglesi fu certamente Robert Clive, che stando a Levine, “won battles, commercial concessions and territory for the company. Always a controversial figure, Clive did much in the 1760s to steer the company towards its new role in India”.211 Sfruttando i conflitti storico-culturali all’interno del subcontinente, le debolezze di un impero Mughal sempre più frammentato, oltre che il desiderio di non pochi governanti indiani di trarre profitto da lucrative transazioni con gli inglesi, Clive viene meno agli accordi con i principi locali, fortificando Calcutta contro i francesi, alleati del nawab del Bengala. Allo scopo di ristabilire la sua autorità sulla città, nel giugno del 1756, Siraj-ud-Daula muove il suo esercito contro gli inglesi, ne imprigiona un numero considerevole in un’angusta cella a Fort William, causando la morte, secondo Reinhard non dimostrata, di un numero imprecisato di essi. Comunque siano andate in realtà le cose, il famoso Black Hole diventerà “il mito fondante

210 Ricordiamo a questo proposito che la prima carta geografica dell’India viene redatta nel 1752 dal

francese J.B.B. d’Anville. Questa Carte de l’Inde, argomenta Priyamvada Gopal, sarà determinante nel transformare una “fabled destination for early modern explorers such as Vasco da Gama and Christopher Columbus” in “a specific geographical and political entity named ‘India’ [which] began to emerge in European encyclopaedias and maps” nel corso del diciottesimo secolo. Priyamvada Gopal, The Indian

English Novel. Nation, History, and Narration, Oxford, Oxford University Press, 2009, p. 12.

dell’imperialismo britannico”,212 in quanto la controffensiva guidata da Clive porterà alla sconfitta del nawab del Bengala (nonostante questi potesse contare su forze quindici volte superiori a quelle degli inglesi), alla sua sostituzione con un governante gradito alla EIC, Mir Jafar, e alla conversione del Bengala in “the central power base of the company over the course of the century”.213

Per questa ragione, la Battaglia di Plassey è convenzionalmente riconosciuta come il momento di transizione verso l’affermazione del dominio coloniale in India214 attraverso l’operato della EIC, le cui velleità espansionistiche iniziano a essere strategicamente supportate da interventi politicamente mirati. Nel 1765, per esempio, Clive mette a punto una potente strategia di controllo, il diwani o revenue control, considerato “his most celebrated accomplishment apart from the victory at Plassey”.215 Anche conosciuto come Treaty of Allahabad, questo provvedimento affida alla Compagnia il diritto esclusivo di incassare le tasse per conto dell’imperatore nel Bengala, Bihar e Orissa. Successivamente, con il Permanent Settlement proposto da Lord Cornwallis nel 1793, gli inglesi creano una classe di ricchi proprietari terrieri dai cosiddetti zamindari o esattori,216 che si vedono ricompensati con terre e proprietà, ora sottratte a

212 Reinhard, Storia del Colonialismo cit., p. 188. Cfr. anche Levine, The British Empire: Sunrise to

Sunset cit., p. 64.

213 Levine, The British Empire: Sunrise to Sunset cit., p. 65.

214 Reinhard sostiene che la transizione al dominio fu l’evento propulsore dell’etnocentrismo inglese in

India, e non viceversa: “Il passaggio dal commercio al dominio ebbe come conseguenza un’intensificazione dell’etnocentrismo inglese, che non ne fu la causa, come qualche volta si sente dire”. Per maggiori approfondimenti, si rimanda a Reinhard, Storia del Colonialismo cit., p. 192.

215 Levine, The British Empire: Sunrise to Sunset cit., p. 66.

216 Segnaliamo, a questo proposito, il romanzo Hansuli Banker Upakatha (1947) dello scrittore bengalese

Tarashankar Bandopadhyay, da cui è stato tratto, nel 1962, l’omonomo film di Tapan Sinha. Spaccato di vita rurale indiana, la storia fornisce un’ampia analisi delle sperequazioni sociali, nonchè della mutata percezione sociale del tempo, provocate dall’istituzione del sistema degli zamindari nel Bengala. Meenakshi Mukherjee definisce Hansuli Banker Upakatha uno dei dieci migliori romanzi da inserire nella letteratura mondiale del XX secolo. Meenakshi Mukherjee, The Perishable Empire, New Delhi, Oxford University Press, 2007, p. 194.

coloro che da generazioni si vedevano riconosciuto il diritto di coltivare la terra:

[…] I tradizionali esattori o sgherri dell’epoca Moghul, gli Zamindari, venivano trasformati di punto in bianco in proprietari fondiari e i contadini – che fino ad allora per diritto consuetudinario non potevano essere cacciati facilmente – in fittavoli. (Storia del Colonialismo p. 190)

Le politiche di manipolazione del tessuto sociale, attuate per alterare gli equilibri commerciali a vantaggio dei britannici, si concertano così con le aggressive politiche di annessione territoriale, ulteriormente intensificate, dopo che lo zelo riformista invade l’India a fine secolo. La perdita delle colonie americane aveva cambiato il corso dell’imperialismo inglese, accentrando gli sforzi strategici del British Empire nel subcontinente indiano,217 che diventa, come abbiamo visto, il laboratorio principe in cui la visione espansionistica settecentesca legata alla preminenza commerciale della EIC si dissolverà gradualmente nell’ottica tutta ottocentesca di affermazione ideologica del potere egemonico e del prestigio legati all’imposizione coloniale. Said afferma, infatti, che:

Neither imperialism nor colonialism is a simple act of accumulation and acquisition. Both are supported and perhaps even impelled by impressive ideological formations that include notions that certain territories and people require and beseech domination. (Culture and Imperialism p. 8)

Il modello di dominio che l’Inghilterra si appresta a inaugurare nel corso del diciannovesimo secolo è, dunque, l’eclatante conferma dell’impatto che le coordinate culturali hanno nell’elaborazione epistemologica di un’intera civiltà, ragion per cui Levine sottolinea che:

217 A proposito delle ripercussioni della Rivoluzione Americana, Levine osserva che “the loss of America,

a major turning-point for the Empire’s future even if mainly in psychological terms, led Britain to explore more fully other regions of the world, while in the mid-nineteenth century the Jamaican and Indian uprisings took Britain’s leaders in a different direction, imposing more direct and autocratic forms of rule in some regions”. Levine, The British Empire: Sunrise to Sunset cit., p. 103.

The age of reform and of high morals was also quite palpably an age of rapacity. […] Colonial acquisition during the course of the nineteenth century was neither accidental nor reluctant, but a fundamental part of an aggressive expansionist policy designed to bolster Britain’s leading world role in politics and trade. Empire was about making money, it was about visible forms of power, and it was about the high moral ground. The civilizing mission was also the money-making mission, and both were trumpeted as elements of Britain’s heritage and history. (The British Empire pp. 76; 83-84)

Il ruolo svolto dalla EIC nel subcontinente diventa, così, sempre più ambiguo. E sempre più fluido e incerto risulta essere il confine tra le attività prettamente commerciali e gli interventi politico-egemonici perseguiti con grande tenacia all’interno di un progetto ideologico, che caratterizzerà la storia imperiale inglese nel suo insieme. La realtà dei fatti, secondo Jan Morris, è che:

By the early decades of Victoria’s reign […], the relationship between trade and dominion was becoming more complex. As Disraeli said of that traditional colonial commodity, sugar, all considerations now mingled in it: ‘not merely commercial, but imperial, philanthropic, religious; confounding and crossing each other, and confusing the legislature and the nation lost in a maze of conflicting interests and contending emotions’. (Heaven’s Command p. 115)

La Ribellione del 1857 non fu, quindi, propriamente una rivoluzione,218 quanto piuttosto il risultato di mondi culturali in forte collisione e in grande competizione tra loro, che, nella violenza degli scontri, hanno espresso le loro dinamiche evolutive e le loro velleità.219 Anche Morris concorda con

218 Non soltanto “it had no coherent strategy and no enunciated purpose”, ma l’ultimo dei Moghuls,

Bahadur Shah Zafar, non poteva seriamente fidarsi e allearsi con Nana Sahib, l’ultimo dei Maharattas; inoltre, i regnanti indiani erano, per lo più, diventati parassiti stipendiati o alternativamente favoriti dagli inglesi, cosicchè non vengono prese sul serio le aspirazioni di “hundreds of Indian soldiers, some on horseback, some on foot, in the grey jackets and shakoes of the Company service, dusty from a long journey, their horses lathered, waving their swords and calling for Bahadur” nel maggio del 1857. Sull’argomento, cfr. Morris, Heaven’s Command cit., pp. 227, 220.

219 La lettura postcoloniale dei romanzi sul Mutiny prodotti nel periodo postindipendenza evidenzia un

chiaro desiderio alla “integration”. Ciò che risalta maggiormente dallo spazio creato dal postcolonialismo è, infatti, la problematizzazione delle ragioni e dei sentimenti generati dalla Ribellione, ora espressi attraverso reazioni sfumate e contrastanti da entrambe le parti. Veena sottolinea lo sforzo inequivocabile da parte dei romanzieri “to achieve a retrospective, balanced perception of the uprising of 1857 taking

Reinhard nel sostenere che la Sepoy War “was not a national revolution at all. [But] one of the decisive events of British imperial history, [which] had been smouldering for years, as British intentions in India became more radical, more earnest and more ideological”.220 Radicalizzando in maniera drammatica la polarità esistente tra élites indiane e dominatori inglesi, le rivolte che scoppiano dapprima a Meerut, successivamente a Cawnpore, e infine a Lucknow (per citare gli assedi più traumatici) segnano il punto di non ritorno nelle già esasperate relazioni tra India e Inghilterra:

The cruelty of the British matched the cruelty of the Indians, and both sides fought equally from the heart. Though many Englishmen soon looked back to their revengeful passions with remorse, still the relationship between rulers and ruled never returned to its old pragmatism, Indians and British accepting the best and worst in each other as transient phenomena of history. After 1857 the Raj regarded itself as a ruling enclave, different in kind from its brown heathen subjects – an institution rather than a community, whose best intentions and most useful works were, for ever after, to be tinged ineradicably with distrust, disapproval or superiority. (Heaven’s Command pp. 245-246)

Secondo quanto sostiene Reinhard, l’esperienza del Mutiny ebbe per gli inglesi “l’effetto di uno shock”.221 I dominatori riflettono sul fatto che “not all the coloured peoples were capable of redemption, as had earlier been supposed”222 e giungono alla conclusione che, se gli indiani appartengono a una razza non perfettibile,223 allora sono bisognosi dell’intervento di una civiltà superiore, illuminata e guidata da Dio. Nel porsi con atteggiamento acritico verso le forme di resistenza a loro opposte, gli inglesi non fanno into consideration both the British and the Indian points of view”. R. Veena, «The Literature on the Events of 1857: A Post-Colonial Reading» cit., p. 3.

220 Morris, Heaven’s Command cit., p. 222. 221 Reinhard, Storia del Colonialismo cit., p. 196. 222 Morris, Heaven’s Command cit., p. 249.

223 Su questi argomenti, cfr. Rousseau e il dibattito sulla perfettibilità dell’uomo in Tzvetan Todorov,

Nous et les autres. La réflexion française sur la diversité humaine, Paris, Éditions du Seuil, 1989, trad. it.

Attilio Chitarin, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Torino, Einaudi Paperbacks,