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L’Inghilterra e il suo Altro indiano tra idealismo del centro e pragmatismo della periferia: Babu classes e fallimento del progetto

Capitolo 2: Le ambivalenze dei confini coloniali nel subcontinente indiano I processi alterizzanti nei rapporti tra Inghilterra e India

2.1. L’Inghilterra e il suo Altro indiano tra idealismo del centro e pragmatismo della periferia: Babu classes e fallimento del progetto

imperialista

To speak a language is to take on a world, a culture.

Franz Fanon, Black Skin, White Masks

Nella sua esauriente Storia del Colonialismo, Wolfang Reinhard identifica nei processi di contaminazione profonda, che coinvolgono colonizzati e colonizzatori nella contact zone periferica, una delle principali cause dello smantellamento degli imperi coloniali, stabilendo così una relazione di causa-effetto tra costruzioni culturali e Storia. Trattando il caso specifico del subcontinente indiano, lo storico tedesco individua nella proclamazione d’Indipendenza dell’India britannica del 1947, non soltanto l’elemento propulsore di tutto il processo di decolonizzazione che ridefinirà massicciamente e gradualmente gli assetti geopolitici mondiali, quanto piuttosto l’esempio probante del fallimento dell’ideologia imperialista stessa. Simultaneamente fondate sul rigoroso, ancorchè ambiguo, principio di separazione identitaria e sulla pregiudiziale retorica della mission civilisatrice, le politiche coloniali inglesi contribuiscono, nel corso del diciannovesimo secolo, alla nascita del discorso nazionalista indiano, che culminerà nell’affrancamento del subcontinente dal giogo coloniale. Per Reinhard, infatti:

155 Simon Gikandi si riferisce qui alla polemica che seguì la pubblicazione del romanzo di Salman

La decolonizzazione è […] in rapporto dialettico con il colonialismo, in quanto è quest’ultimo ad aver posto le necessarie premesse della decolonizzazione, da[ndo] l’avvio al proprio superamento e alla propria eliminazione. Per premesse si intende la creazione in primo luogo di moderne élites, che di per sé sarebbero state disponibili a cooperare con la potenza coloniale ma che, essendo state frustrate nelle loro richieste, si sono trasformate in avversarie della potenza coloniale stessa; e in secondo luogo la creazione di una nuova unità politico-geografica, da cui potesse nascere una nuova nazione indipendente. (Storia del Colonialismo p. 310)

In base a questa interpretazione, la dissoluzione del British Raj non sancirebbe soltanto la fine di una fase “gloriosa” della Storia inglese, ma assumerebbe, allo stesso tempo, un’elevata valenza simbolica, il cui significato si estende ben al di là del riconoscimento ufficiale dei nuovi confini territoriali tracciati, delle nuove sovranità proclamate o della rinuncia ai privilegi strategico-commerciali conquistati nei secoli. La perdita del più importante laboratorio156 di dominio politico-ideologico, quale è stata l’India britannica, all’interno del quale si consuma il passaggio identitario sostanziale per cui, nel corso delle loro frenetiche attività commerciali nel diciottesimo secolo “the British in India were evolving from traders to rulers”,157 metterebbe tragicamente a nudo “the supreme paradox of British power”,158 rimandando alla madrepatria l’ambivalente immagine di un conquistatore diviso tra illuminato idealismo al centro e perverso pragmatismo ai margini.159 Oltre che riflettersi nello

156 Christopher Pinney sostiene che il subcontinente indiano diventa molto presto uno spazio di

rappresentazione dominato da parametri tassonomici volti alla razionalizzazione del caos e del disordine che, agli occhi degli occidentali, regnava in Asia, per cui “India became the testing ground of a Western science whose power lay in its ability to transform the wonder and dazzlement of travel accounts into the ordered, normalized and objective”. Christopher Pinney, «Colonial Anthropology in the Laboratory of Mankind», in A. Bayly (ed.) The Raj: India and the British 1600-1947, London, The National Portrait Gallery, 1990, p. 258.

157 Jens-Ulrich Davids, «The Construction of Imperial Englishness: the Case of India», in Hans-Jürgen

Diller, Stephan Kohl, Joachim Kornelius, Erwin Otto, Gerd Stratmann (eds.), Englishness, Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag, 1992, p. 201.

158 Gauri Viswanathan, Masks of Conquest, New Delhi, Oxford University Press, 2004, p. 165.

159 In A Passage to India, per esempio, Forster non manca di rimarcare l’atteggiamento incoerente e

specchio distorto del myth of empire, l’aporia insita nel colonial discourse, egregiamente sintetizzata da Ania Loomba nell’affermazione: “One of the most striking contradictions about colonialism is that it both needs to ‘civilise’ its ‘others’, and to fix them into perpetual ‘otherness’”,160 imploderà ulteriormente, come si discuterà in seguito, nelle ripercussioni intrinseche ai processi di decolonizzazione e di formazione nazionale, innescando fenomeni di alterizzazione dalle conseguenze devastanti all’interno del subcontinente stesso. Questo perché il nazionalismo indiano si fonda su inconfutabili ambivalenze che, secondo Partha Chatterjee, “produced a discourse in which, even as it challenged the colonial claim to political domination, it also accepted the very intellectual premises of ‘modernity’ on which colonial domination was based”.161

Se dunque è vero quanto sostiene Homi Bhabha: “Consequently, the colonial presence is always ambivalent, split between its appearance as original and authoritative and its articulation as repetition and difference”,162 allora anche le riarticolazioni storico-culturali nel contesto delle relazioni coloniali non possono essere analizzate quali fenomeni storici unidirezionali, ma valutate piuttosto quale particolare risultato dialettico derivante dalla reiterazione di trasfigurati rapporti, al di là e al di qua dei confini geografici e temporali.163 Le complesse dinamiche che ideali di democrazia e tolleranza, vantati dagli inglesi per arrogarsi il diritto a civilizzare il mondo, l’appunto che Mrs Moore rivolge al figlio Ronny, poco dopo essere sbarcata nel subcontinente, può essere letto come la denuncia letteraria di tale incongruenza: “‘You never used to judge people like this at home.’ ‘India isn’t home,’ he retorted, rather rudely, but in order to silence her he had been using phrases and arguments that he had picked up from older officials, and he did not feel quite sure of himself.’” E.M. Forster, A Passage to India, Harmondsworth, Penguin Books, 1979, p. 54.

160 Ania Loomba, Colonialism/Postcolonialism, London, Routledge, 1998, p. 173.

161 Citato in Leela Gandhi, Postcolonial Theory. A Critical Introduction, Edinburgh, Edinburgh

University Press, 1998, p. 118.

162 Homi Bhabha, The Location of Culture, New York, Routledge, 2007, p. 153.

163 A differenza di Edward W. Said, che in Orientalism (1978) espone la tesi secondo cui l’Oriente

risulterebbe essere una produzione culturale letteralmente inventata dall’Occidente, Loomba sottolinea, al contrario, la natura relazionale delle costruzioni identitarie nel rapporto di subordinazione coloniale, ragion per cui, dal suo punto di vista: “Construction should not thus be understood as a process which

regolano l’incontro/scontro tra colonizzato e colonizzatore rifletterebbero, in sostanza, le ambiguità derivanti dalla sovrapposizione di modelli culturali antitetici e in tensione tra loro che, intaccando nel profondo le configurazioni storico-culturali pre-esistenti delle realtà inglobate e inglobanti, vanno a produrre nello spazio coloniale formazioni culturali del tutto nuove. Ne consegue che, la prospettiva dell’ambivalenza identitaria può offrire un contributo non trascurabile nel gettare nuova luce sulle opportunità interpretative della Storia attraverso le sue stesse contraddizioni, concorrendo così a smascherare quelle logiche che rimarrebbero altrimenti occultate nei contesti politico-ideologici da cui emanano.

La necessità effettiva di formare élites locali164 disposte a collaborare con i vertici della EIC alla fine del diciottesimo secolo è, di per sé, storicamente giustificabile in quanto, all’indomani della fine della Guerra dei Sette Anni, la realtà coloniale indiana ha ormai assunto per la madrepatria proporzioni tali da assurgere a simbolo di una nuova fase della colonizzazione. Innanzi tutto, le consistenti acquisizioni territoriali dopo la definitiva sconfitta della Francia nel 1763 incensano l’Inghilterra quale maggiore potenza mondiale. Inoltre, a seguito della Rivoluzione Americana del 1776, la perdita delle colonie che si affacciano sull’Atlantico sposta sostanzialmente l’asse degli interessi strategico-commerciali inglesi verso Oriente. Il sudest asiatico, spiega Levine, viene a svolgere da questo momento in poi un ruolo centrale, determinando la politica coloniale dell’Inghilterra nel resto del globo:

totally excludes the responses and reactions of those who were being represented”. Loomba,

Colonialism/Postcolonialism cit., p. 110.

164 A proposito delle élites locali, Levine sottolinea: “Much of urban India […] possessed an active elite

culture in the early nineteenth century with a lively literary and theatrical scene and a well-established musical and dance tradition. British interests lay with whether or not an English education would secure the long-term loyalty of this essential class of administrators. They were essential not only because, like all colonial ventures, success relied in part on a degree of collaboration and collusion, but also because there were insufficient numbers of Britons to keep the enterprise afloat”. Philippa Levine, The British

India was of growing importance among Britain’s colonies even beyond its commercial capacity. […] The loss of America was as much a psychological as an economic blow. […] Success in India acted as counterbalance to Britain’s inability to rein in the American revolt. India became more and more important not only for its products but increasingly as a symbol of Britain’s overseas power after the loss of America. India would occupy British attention until the middle of the twentieth century, strongly influencing other colonial decisions and acting as a training ground for scores of colonial officials. (The British Empire p. 62)

La supremazia acquisita, unitamente alla lezione appresa dalla pesante perdita dei white dominions americani, viene così convertita dagli inglesi in un nuovo modello di esperienza coloniale che prevede, come attesta Reinhard, il dominio di pochi su masse numerose di popolazioni autoctone quale mezzo di realizzazione di politiche egemonico-imperialiste, a discapito del precedente modello prevalentemente focalizzato sugli scambi commerciali e sulla dislocazione permanente di coloni, tipico delle settler colonies:

Nacque allora soprattutto nell’India britannica il nuovo tipo di dominio coloniale, dove l’interesse primario non era rivolto al commercio o all’insediamento coloniale, bensì al dominio di pochi Europei, che spesso non risiedevano stabilmente nel paese, su masse di «indigeni». […] Ora l’India britannica, come sua prima realizzazione su grande scala, divenne non solo il più importante possedimento europeo dopo la perdita dell’America, ma anche il modello di un nuovo genere di dominio coloniale europeo, che a ragione, tenuto conto del suo orientamento egemonico, può essere definito «imperialista». (Storia del Colonialismo p. 183)

Per ritornare a quella che fu, in Inghilterra oltre che in India, una dibattuta politica di formazione di moderne élites indigene conniventi con la cultura dei dominatori, che stando a quanto afferma Reinhard costituirebbe la prima premessa da ascrivere al fallimento della politica coloniale inglese, particolare attenzione meritano, dal nostro punto di vista, quei meccanismi ideologici che trasformano una reale esigenza storica in una delle

incongruità culturali più eloquenti prodottasi nell’ambito della Storia dell’Impero britannico. Imputabile non soltanto all’impossibilità di esercitare il controllo totale su ciò che avviene nella contact zone, ma anche e soprattutto a mirati interventi di hybridization che sfruttano, come vedremo, gli spazi obliqui della Storia, la contaminazione culturale nel subcontinente è un dato di fatto. Come specifica, per l’appunto, Loomba: Even as imperial and racist ideologies insist on racial difference, they catalyse crossovers, partly because not all that takes place in the ‘contact zones’ can be monitored and controlled, but sometimes also as a result of deliberate colonial policy. (Colonialism/Postcolonialism p. 173)

Conseguentemente, se contestualizziamo le relazioni intrattenute dall’Inghilterra con l’India nel più ampio panorama del dibattito culturale e politico che si sviluppa in madrepatria a proposito della produzione di colte classi di indiani anglicizzati, emerge in maniera inequivocabile in quale misura, a partire dalla prima metà del diciannovesimo secolo, i destini di dominati e dominatori si intrecciano e si intersecano lungo le linee ironiche del divenire storico.

Ma andiamo con ordine.

Jan Morris fa notare come, ancora nel 1837, quando la giovanissima Vittoria sale al trono, l’Inghilterra non sembra essere contrassegnata dalla chiara consapevolezza dell’importanza strategica dei suoi possedimenti d’oltremare. La regina è, infatti, principalmente assorbita dalle trasformazioni che stanno investendo la società inglese del tempo, e dalle impellenti riforme che si rendono necessarie a una società che sta regolando i suoi conti con i forti cambiamenti determinati dalle rivoluzioni del secolo precedente:

All in all the British were not thinking in imperial terms. They were rich. They were victorious. They were admired. They were not yet short of markets for their industries. They were strategically invulnerable, and they were preoccupied with domestic issues.

When the queen was crowned, shortly before her nineteenth birthday, we may be sure she thought little of any possessions beyond the seas. (Heaven’s Command p. 25)

Eppure, economicamente e culturalmente, l’Impero costituiva una realtà incontrovertibile, in larga misura se non altro, una faccenda lasciata all’intraprendenza di avventurieri, spesso senza scrupoli, il cui obiettivo era procurare vantaggi strategico-commerciali alla Corona, assicurandosi nel medesimo tempo ritorni economici e successi personali, conseguiti grazie a concessioni reali stipulate con royal charter. Confluendo in quel “fenomeno di lunga durata”165 che Reinhard definisce “costellazioni”,166 le singole e spiccate personalità dei cosiddetti empire builders si trovano a svolgere un ruolo cruciale nelle politiche di colonizzazione, come risulta evidente anche dalle seguenti parole di Morris:

The ideas and initiatives of men in the field governed its growth as potently as did the policies of Governments or the theories of economists, and many a stroke of imperial history depended originally upon a quirk of individual character, or the mood of a moment. (Heaven’s Command p. 175)

Quando John R. Seeley dichiara che il British Empire fu conquistato attraverso “a fit of absence of mind”167 è probabilmente a quello spirito individualista non coordinato, se non in misura limitata dal centro, cui intende sicuramente fare riferimento il famoso storico inglese.

Fondata da un gruppo di commercianti londinesi nel 1600, la EIC è senza dubbio da considerarsi la materializzazione più concreta dell’individualismo del tempo, le cui imprese riescono ciononostante a convertire on the spot “an inchoate collection of territories acquired in bits and pieces […] possessing no unity of purpose or sense of whole”,168 in

165 Wolfang Reinhard, Storia del Colonialismo, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2002, p. 11. 166 Ibid.

167 Citato in Levine, The British Empire: Sunrise to Sunset cit., p. 82. 168 Jan Morris, Heaven’s Command, London, Faber and Faber, 1998, p. 26.

una sistematica macchina di conquista e sfruttamento coloniale.169 Sul finire del diciottesimo secolo, tuttavia, le controverse figure che ruotano intorno alle attività della Compagnia cominciano a destare seria preoccupazione negli ambienti governativi di Londra, creando una tensione che, secondo Levine, “would become an enduring hallmark of British imperialism”.170

È interessante notare che i primi importanti processi di alterizzazione ufficiale della cultura e delle popolazioni indiane hanno luogo, paradossalmente, proprio in connessione con le dirompenti interferenze governative nella vita della EIC, per colpire gli eccessi di amministratori dal comportamento opinabile e immorale. Le misure adottate vanno, di conseguenza, esaminate in relazione alla storica conflittualità che caratterizza i rapporti tra la rete di commercianti-avventurieri- amministratori che operano in loco nel subcontinente e il Governo di Londra. Un maggiore controllo si rende per l’appunto necessario per ovviare agli abusi di potere perpetrati dai famosi nabobs,171 le cui azioni in India rappresentano, agli occhi degli inglesi in madrepatria, un degrado morale inaccettabile.172 Simultaneamente, la loro crescente popolarità inizia a essere percepita negli ambienti governativi di Londra come una reale minaccia alla solidità del potere della Corona nel mondo, da non sottovalutare soprattutto dopo che nel continente americano la situazione

169 Reinhard richiama l’attenzione sul fatto che “[…] la presenza di uno stuolo di avventurieri politici,

sorta di «nuovi Conquistadores» (Parry), che seppero sfruttare la situazione in movimento per arricchirsi, fare carriera nell’esercito e promuovere l’espansione nazionale, non di rado in contraddizione con il più prudente atteggiamento dei dirigenti della propria compagnia, orientato verso guadagni a breve termine”, spiegherebbe, unitamente all’acerrima rivalità globale tra Francia e Inghilterra, l’enorme sviluppo dell’imperialismo inglese in Asia rispetto ad altre aree geografiche. Reinhard, Storia del Colonialismo cit., p. 187.

170 Levine, The British Empire: Sunrise to Sunset cit., p. 67.

171 Viswanathan definisce i nabobs come “wealthy Europeans whose huge fortunes were amassed in

India”. Viswanathan, Masks of Conquest cit., p. 24.

172 Cfr. al riguardo il racconto di Kipling dal titolo The Man Who Would Be King e l’omonimo film

era sfuggita totalmente di mano solo pochi decenni prima, a causa di coloni considerati arroganti e indomiti. In base alle indagini di Viswanathan, infatti:

British greed was a reality of the Company’s presence in India that was too embarrassing for Parliament to ignore without appearing to endorse Company excesses. [...] Moreover, the English Parliament itself was becoming alarmed by the danger of having a commercial company constituting an independent political power in India. (Masks of Conquest pp. 24, 27)

Allo scopo di giustificare le difficoltà finanziarie e gli scandali che contraddistinguono l’amministrazione di cui è chiamato a rendere conto, Lord Cornwallis, governatore-generale173 in India dal 1786 al 1793, introduce misure alterizzanti ai danni, sorprendentemente, delle popolazioni autoctone. Subentrato alla cosiddetta Orientalist phase incarnata dal precedente governo di Warren Hastings, 174 la cui “administration was distinguished by a tolerance for the native customs and by a cultural empathy unusual for its time”,175 Cornwallis adduce alla filosofia orientalista la principale responsabilità del declino morale degli amministratori inglesi, che avrebbero a suo parere trasculturato pericolosi atteggiamenti dal nefasto esempio del dispotismo orientale. Nel 1791 viene varato il Native Exclusion Act con l’obiettivo di scongiurare il pericolo di contaminazione dei principi morali occidentali e, così facendo, salvaguardare l’integrità identitaria dei dominatori.176 Cornwallis decide conseguentemente di estromettere la popolazione indigena dalle comunque

173 La figura del governor-general viene istituita nel 1773 dal Regulating Act voluto dall’allora Primo

Ministro Lord North con l’intento di ricondurre le attività sempre più compromettenti della Compagnia sotto l’egida del Governo di Londra.

174 Warren Hastings fu il primo governor-general in India dal 1774 al 1785, nominato a seguito del

Regulating Act di Lord North del 1773.

175 Viswanathan, Masks of Conquest cit., p. 28.

176 Il Native Exclusion Act “debarred Indians from higher administrative posts, relying in part on the

reasoning that this was a subject race prone to mendacity and exaggeration”. Priyamvada Gopal, The

limitate forme di collaborazione con l’amministrazione britannica accampando, fa notare Viswanathan, motivazioni culturali:

Convinced that contact with natives was the root cause of declining European morals, he resolved to exclude all Indians from appointment to responsible posts, hoping by this means to restore the Englishman to his pristine self and rid him once and for all of decadent influences. (Masks of Conquest p. 31)

Sarebbe ingenuo presupporre in Hastings un genuino riconoscimento della cultura indiana e un sincero rispetto per la diversità, come evidenziano peraltro gli scritti in nostro possesso.177 Ciononostante rimane il fatto che la cosiddetta fase anglicista di Cornwallis comprometterà gravemente gli equilibri delle relazioni coloniali,178 contribuendo a tracciare, come mai prima in India, confini identitari netti e irreversibili, che avrebbero determinato atteggiamenti discriminanti fino a quel momento sconosciuti nel subcontinente, in quanto “la generazione di antica data di dominatori inglesi fino a Warren Hastings conosceva e apprezzava la cultura indiana”,179 mentre ora il nuovo governatore “turned to English principles of government and jurisprudence […] determined to run a government that would remain free of corrupting influences from the native society”.180

177 Viswanathan osserva, infatti, quanto accentuata sia la consapevolezza espressa in questi scritti

riguardo i vantaggi legati alla relazione dialettica che intercorre tra conoscenza e potere. Hastings ne fa esplicita menzione in una lettera datata 1784, dove afferma che “every accumulation of knowledge, and especially such as is obtained by social communication with people over whom we exercise a dominion founded on the right of conquest, is useful to the state: it is the gain of humanity”. Citato in Viswanathan,

Masks of Conquest cit., p. 28.

178 Ricordiamo, a questo proposito, che Lord Cornwallis è anche l’ideatore del Permanent Settlement,

attraverso il quale vengono alterati gli equilibri socio-economici legati alla produzione agricola, creando la figura del latifondista. Nel 1793, infatti, i famosi zamindari sono convertiti in “a new landowning class of local wealthy Indians who had functioned previously as tax collectors”. Levine, The British Empire: