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La crisi finale dell’Anic e la fine della chimica lucana

Nell’agosto del 1980, il Cipi affidò la gestione delle società Liquichimica e ex Sir al polo pubblico. Lo Stato per mezzo dell’Eni «si accollava le rovine fumanti del sogno chimico di Raffaele Ursini»348. I destini della chimica lucana si intrecciavano, definitivamente, nelle mani dell’Eni e dello Stato.

Anche lo stabilimento Anic di Pisticci, tuttavia, si trovava ormai in piena crisi. A differenza della Liquichimica, per la quale la crisi fu causata soprattutto dalla linea gestionale di Ursini, quella del gruppo Anic fu il frutto dell’azione congiunta di dinamiche economiche internazionali e delle scelte sbagliate che aveva effettuato negli anni precedenti, lasciandosi trasportare nella guerra chimica con i gruppi privati.

A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, gli effetti degli shock petroliferi si sovrapposero all’intreccio di recessione e inflazione che caratterizzava l’economia statunitense ed europea fin dalla fine degli anni Sessanta, determinando un mutamento di quadro, caratterizzato da profonde trasformazioni tecnico-produttive, una nuova divisione internazionale del lavoro, significativi cambiamenti nel rapporto capitale-lavoro e diverse modalità di intervento dello Stato nell’economia349.

Tale mutamento di quadro nel Mezzogiorno riguardò prevalentemente i settori che avevano maggiormente contribuito alla precedente fase di industrializzazione350, tra cui questi l’industria chimica. Se si osserva il dato aggregato della variazione occupazionale nelle regioni meridionali nel decennio 1961-1971, si nota, infatti, che il settore chimico e quello metallurgico contribuirono per oltre il 30% della crescita occupazionale totale351, con una percentuale ancora più alta in Basilicata. Gli impianti chimici della Val Basento garantirono da soli il 60% dei nuovi posti di lavoro creati nel settore industriale352.

Per quanto riguarda il particolare caso dell’industria chimica italiana, a partire dalla metà degli anni Settanta la crisi internazionale portò al pettine i suoi tanti nodi irrisolti, avviandone un veloce processo di smantellamento. I tentativi di riordino effettuati dal Governo non erano risultati efficaci, al contrario avevano aggravato la situazione. Nei primi anni Settanta le maggiori imprese chimiche italiane presentavano un forte

348 Ibidem.

349I. Masulli, Gli aspetti economico-sociali della crisi degli anni Settanta e le trasformazioni successive, cit., p. 4.

350 S. Prezioso, G. Servidio, Industria meridionale e politica industriale dall’Unità d’Italia a oggi, in «Rivista Economica del Mezzogiorno», n. 3, 2011.

351 R. Giannetti, Imprese e politica industriale. La petrolchimica italiana negli anni Settanta, cit., p. 499. 352

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indebitamento nei confronti degli istituti bancari; il loro volume di investimenti, «assolutamente ingiustificato rispetto alla loro capacità autonoma di autofinanziamento», era stato evidentemente condizionato dai flussi dei finanziamenti pubblici353. Gli investimenti competitivi, inoltre, generarono un eccesso di capacità produttiva: comuni erano i problemi di sovrapproduzione, soprattutto nel settore della chimica di base e nelle fibre, mentre, nonostante le indicazioni del Piano chimico, scarso era stato l’impegno nella ricerca e nelle chimica fine. Per usare le parole di Andreotti, a metà degli anni Settanta il settore chimico italiano si presentava «con una grossa testa petrolchimica e un corpo gracilissimo, cioè pochissimo sviluppato nei settori della chimica complessa, dove il valore aggiunto [era] più elevato»354.

Il 1973 era stato ancora un anno positivo grazie soprattutto al boom dei prezzi, ma già a partire dalla seconda metà del 1974 le cose erano precipitate. Tutte le grandi aziende del settore chiusero il 1975 in perdita355. Alla fine dell’anno il tasso di sviluppo in generale dell’industria chimica italiana stava crollando. I motivi erano il sensibile calo della domanda interna, l’elevato livello di stock e il rinnovo degli impianti che alimentavano le economie di scala a cui corrispondeva la caduta netta del grado di utilizzo356.

L’Anic registrò le prime perdite economiche nel 1975. Queste aumentarono poi nel biennio successivo e tra il 1976 e il 1977, le perdite del gruppo ascesero a 200 miliardi di lire. Il bilancio negativo del 1976 costò il posto al presidente del gruppo Pagano, sostituito da Pietro Sette, ma l’anno successivo le perdite si quintuplicarono. I primi segni di crisi si registrarono negli stabilimenti di Ottana e Pisticci. Nato dalla guerra chimica con la Sir di Rovelli357, lo stabilimento di Ottana avrebbe prodotto fibre poliestere con lo stesso

353 Ibidem.

354 E. Scalfari, Detto in confidenza, io farei così. Colloquio con Giulio Andreotti, in «L’Espresso», n. 9, marzo 1975, p. 82.

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V. Zamagni, L’industria chimica italiana e la crisi degli anni Settanta, in L’industria chimica italiana nel

Novecento, a cura di G.J. Pizzorni, cit., pp. 137-154;

356 Cfr. F. Briatico. Ascesa e declino del capitale pubblico in Italia, cit., p. 352.

357 Agli inizi degli anni Settanta, Rovelli fu protagonista dell’episodio più rappresentativo del fallito tentativo di programmazione nel settore chimico. Spinto da pressioni politiche, decise di dirottare i suoi investimenti industriali dall’area costiera a quella interna della regione, progettando la realizzazione di uno stabilimento per la produzione di fibre acriliche nel nuovo polo di Ottana, piccolo centro situato nella Barbagia. Tale scelta localizzativa, politicamente eterodiretta, rientrava nel tentativo di utilizzare l’industria chimica, e la carica modernizzatrice che essa portava con se, per trasformare profondamente il mondo pastorale sardo, ritenuto il contesto sociale e culturale che generava e alimentava il banditismo. Ad Ottana si scatenò uno scontro concorrenziale che coinvolse i principali gruppi del settore, Anic, Montedison e Sir. L’Eni presentò un progetto inerente alla localizzazione di uno stabilimento petrolchimico, che secondo alcune ricostruzioni era basato su fotocopie di quello di Rovelli. La “saga di Ottana” si risolse con una soluzione di compromesso poco razionalizzatrice e rivelatrice dell’incapacità dei grandi gruppi chimici di coordinare i propri investimenti e della classe politica di distinguere tra direzione politica e interessi economici. L’Anic creò una

joint venture con la Montedison che diede vita alla società Chimica e Fibre del Tirso e iniziò la costruzione di

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procedimento produttivo utilizzato a Pisticci. La sua entrata in attività generò, quindi, un eccesso di produzione proprio nel momento in cui in tutta l’Europa si registrava una crisi di sovrapproduzione delle fibre sintetiche358. I magazzini dei due stabilimenti si riempirono di merce invenduta e l’Anic fu costretta a mettere in atto un piano di risanamento del settore a danno soprattutto dello stabilimento materano.

L’accordo stipulato nel 1973 tra sindacati e Asap, che per lo stabilimento di Pisticci prevedeva la ristrutturazione degli impianti di fibre poliammidiche, la realizzazione di una nuova linea di fibre acriliche e la messa a punto di un centro di ricerca, fu in parte disatteso e il ruolo dello stabilimento lucano sembrò essere ridimensionato a quello di centro di ricerca e sperimentazione sulle fibre. Nel 1975, infatti, fu realizzato il centro ricerche e contemporaneamente fu eliminata la produzione del filato nylon ad alta tenacità.

Con l’inizio della crisi dell’Anic si determinò una svolta cruciale nella storia industriale della Basilicata. I segni di cedimento del settore chimico si inserivano in un quadro poco rassicurante anche per quanto riguardava gli altri settori produttivi. I grandi stabilimenti chimici privati si trovavano, ormai da anni, in una situazione di stallo, mentre le difficoltà dell’Anic e più in generale la complessa situazione che stava attraversando il settore delle fibre, generarono pesanti contraccolpi sugli impianti minori dell’indotto, da poco nati nella Val Basento. Nel corso dell’anno la Manifatture del Basento fu costretta a ricorre alla cassa integrazione guadagni, la Penelope ridusse l’orario di lavoro a 16 ore settimanali per tutti i dipendenti e la Val Basento fibre licenziò il 50% dei lavoratori. Anche la EuroImpex di Pomarico entrò in crisi. Negli altri settori produttivi il punto di maggiore criticità era la situazione creatasi alla Siderurgica Lucana, ma molti erano gli stabilimenti meccanici e metalmeccanici di piccole e medie dimensioni in crisi.

I sindacati per ogni stabilimento in crisi aprirono uno spazio di contrattazione con i gruppi industriali e di confronto con le forze politiche e i diversi livelli istituzionali interessati. Le trattative venivano accompagnate e sostenute da scioperi e manifestazioni, che non di rado coinvolgevano anche le popolazioni locali, e occupazioni degli stabilimenti.

Il 3 febbraio del 1976 i sindacati organizzarono uno sciopero generale che coinvolse le popolazioni dei comuni della Val Basento. L’attenzione dei sindacati e dei lavoratori era

Lula) per poter disporre di maggiori contributi. Sulla “saga di Ottana” si rimanda a F. Briatico, Ascesa e

Declino del capitale pubblico in Italia, cit., p. 307-310. Per un’analisi sulla localizzazione industriale in

Sardegna e sulla scelta politica di promuovere lo sviluppo industriale delle aree interne si veda P. De Magistris, Insediamento dell’industria chimica e utilizzazione delle risorse naturali in Sardegna, nel rispetto

dell’ambiente, in «La chimica e l’industria», n. 57, 1975.

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tutta rivolta alla situazione dell’Anic, che per effetto indotto generava conseguenze negative anche sulla tenuta degli altri stabilimenti del nucleo industriale. Una settimana dopo, in un incontro con le parti sociali, i vertici aziendali fornirono rassicurazioni in merito al fatto che per tutto l’anno non ci sarebbero stati licenziamenti e non si sarebbe fatto ricorso alla cassa integrazione nello stabilimento di Pisticci. Nel mese di settembre, però, i sindacati furono costretti a riconoscere la negativa situazione congiunturale che ormai caratterizzava il settore delle fibre sintetiche e dopo aver ottenuto le necessarie garanzie in merito al mantenimento dei livelli occupazionali, concordarono con il gruppo un periodo di cassa integrazione per 250 lavoratori, con lo scopo di favorire il processo di riconversione produttiva dello stabilimento. Il 1977 si aprì, quindi, con l’ombra della cassa integrazione. A metà gennaio il Pci lucano, presente nello stabilimento dell’Anic con una sezione di fabbrica che contava 41 inscritti359, diffuse un volantino con il quale si informavano i lavoratori della possibilità che l’azienda ricorresse alla cassa integrazione e si auspicava l’organizzazione di una conferenza di produzione con le forze politiche democratiche e sindacali per affrontare il problema della riconversione industriale della fabbrica360.

Rapidamente la questione investì l’assessore regionale alle Attività produttive. Per Viti «i problemi dell’Anic, vincolati ad un approfondimento del destino produttivo nazionale della fibra, [andavano] affrontati subito nel quadro di una razionalizzazione che significa[va] anche l’allargamento della base produttiva e dell’occupazione». Secondo le dichiarazioni da lui rilasciate alla stampa locale «occorreva chiedere alle aziende tessili operanti in Val Basento di utilizzare al meglio gli impianti e di produrre un maggiore sforzo per l’occupazione». Di fronte alla forte crisi occupazionale che viveva la regione, aggravata dal massiccio ricorso alla cassa integrazione delle imprese edili, l’assessore prospettava, quindi, un potenziamento del settore industriale esistente e la veloce realizzazione degli investimenti in programma, tra cui quello della Liquichimica in Val Basento361.

Nel mese di marzo i sindacati organizzarono la prima giornata di sciopero del 1977. Gli obiettivi erano la salvaguardia dell’occupazione e la diversificazione della produzione di tutti gli stabilimenti chimici, pubblici e privati, e degli stabilimenti dell’indotto362. Rispetto

359 AS PC BAS, Comunicazione notizie sulla presenza del partito negli stabilimenti Anic, 12 aprile 1976, b. Corrispondenza comuni 1973-1977.

360 Ivi, Problemi e qualunquismo, 14 gennaio 1976.

361 Occupazione e industrie: bilancio-crisi nel Materano, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 27 gennaio 1977.

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