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Dopo gli «elefanti bianchi», nascono le piccole e medie industrie

La crisi finanziaria del gruppo Liquichimica segnò un momento di svolta nella storia industriale della regione. Recenti interpretazioni storiografiche definiscono il processo di sviluppo del Mezzogiorno e l’attività della Cassa «come un impegno poderoso, a cavallo di due epoche economiche del tutto distinte tra di loro: la prima corrispondente, in linea di massima, all’età dell’oro del capitalismo europeo, con l’affermazione dell’industria di massa anche nel vecchio continente; la seconda, inaugurata con l’avvio delle crisi economiche e del primo shock petrolifero»263. La prima di ascesa, la seconda di declino264. Il passaggio da una fase all’altra, consumatosi a partire dai primi anni Settanta, segnò la fine dell’espansione industriale del Mezzogiorno per mezzo di grandi impianti petrolchimici, siderurgici e metalmeccanici e l’inizio di una lunga fase deindustrializzazione delle regioni meridionali. Parallelamente si consumò una torsione in senso assistenzialista e clientelare dell’intervento straordinario, un processo degenerativo delle politiche per il Mezzogiorno, che passando attraverso la gestione clientelare e speculativa dei fondi stanziati per la ricostruzione post-sisma del 1980, sarebbe continuato anche dopo lo scioglimento della Cassa265.

Proprio a ridosso di questo passaggio si consumò una stagione di particolare vitalità per il tessuto produttivo lucano, caratterizzata da un cambio di paradigma nel processo di industrializzazione della regione: non più grandi impianti di base, ma piccole realtà produttive, in alcuni casi di proprietà di imprenditori locali.

Val Basento, Le industrie minori dopo gli elefanti, così titolava un filone di articoli pubblicati da «La Gazzetta del Mezzogiorno» nel novembre del 1968 a firma di Vincenzo Viti, nel quale si descriveva il «terzo tempo dell’industrializzazione regionale»: la nascita di piccole e medie iniziative industriali finalizzate alla lavorazione delle produzioni degli stabilimenti chimici della Val Basento. L’attenzione era rivolta principalmente alla Valle del Basento, dove più evidente erano le differenze tra i caratteri della prima industrializzazione, quella degli anni Sessanta, e questa nuova, ma anche perché in Val Basento era possibile misurare la capacità dei grandi stabilimenti chimici di generare uno sviluppo industriale indotto.

263 A. Lepore, La Cassa per il Mezzogiorno e lo sviluppo economico italiano: una rivisitazione di lungo

periodo, dalla golden age a oggi, in La dinamica economica del Mezzogiorno. Dal secondo dopoguerra alla conclusione dell’intervento straordinario, a cura della Svimez, il Mulino, Bologna, 2016, p. 149.

264 Si veda E. Felice, Ascesa e declino, il Mulino, Bologna, 2015.

265 Salvatore Cafiero ha efficacemente definito questo periodo come: «la lunga agonia della Cassa»; S Cafiero, Questione meridionale e unità nazionale (1861-1995), La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997, p. 207.

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Gli «elefanti bianchi», infatti, erano l’Anic e la Ceramica Pozzi. La metafora di origine anglofona era usata in alternativa a quella più conosciuta delle «cattedrali del deserto»266, coniata da Luigi Sturzo e comunemente usata, in senso polemico, per indicare la scarsa capacità delle industrie di base di integrarsi con il tessuto socio-economico circostante e di dare avvio ad un reale processo di industrializzazione.

Negli articoli, Viti sottolineava la natura «poco proliferatrice» del settore chimico, ma senza fini giustificatori verso l’azione dell’assessorato regionale da lui ricoperto. L’intento era, anzi, di segno opposto. Si descriveva la nascita nell’area del Consorzio della Val Basento di iniziative imprenditoriali «capaci di sfruttare le inaudite possibilità» offerte dalla presenza dei due stabilimenti chimici, nonostante questi presentassero un’elevata integrazione verticale e una scarsa autonomia decisionale e operativa, caratteristiche comuni a gran parte dei nuovi impianti siderurgici e chimici del Mezzogiorno, che in diversi casi ne inibirono pesantemente le capacità di attivare processi territoriali di sviluppo industriale267.

Secondo le analisi riportate sulle pagine de «La Gazzetta», le ragioni di questa nuova vitalità imprenditoriale erano da ricercare nel superamento delle condizioni che storicamente avevano rappresentato un limite allo sviluppo del tessuto produttivo locale: carenza di infrastrutture viarie e difficoltà di accesso al credito. Il processo di infrastrutturazione della regione non poteva considerarsi completato, ma erano stati compiuti passi da gigante in tal senso, mentre la Cassa aveva risolto l’annoso problema della mancanza di capitali di investimento nelle regioni meridionali. Bisogna aggiungere, tuttavia, che determinanti furono anche il crescente impegno che l’Eni assunse nel settore tessile268, duramente colpito dalla crisi di metà anni Sessanta, e l’inaspettata nascita di una ridotta, ma dinamica imprenditoria locale.

A partire dagli anni Sessanta, in particolare nella seconda metà del decennio, l’Iri, l’Eni e l’Efim furono coinvolti in misura sempre maggiore nei salvataggi industriali269

, tra i quali molti interventi interessarono stabilimenti tessili. In Basilicata il gruppo pubblico rilevò il

266 V. Viti, Val Basento- Le industrie minori dopo gli «elefanti», in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 novembre 1968; Id, Val Basento-Con le infrastrutture il «disegno» di ciò che sarà, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 21 novembre 1968.

267 A riguardo si veda M. Franzini, A. Giunta, Grande impresa e Mezzogiorno: alcuni elementi di riflessione, in Grande impresa e sviluppo italiano. Studi per i cento anni della Fiat, a cura di C. Annibaldi, G. Berta, vol. II, il Mulino, Bologna, 1999.

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L’Eni aveva qualificato la sua presenza nel settore tessile a partire dal rilevamento del gruppo Lanerossi nel 1962. L’intento principale era di avviare un processo di integrazione a monte con il comparto chimico, ma vi erano anche finalità politiche e sociali, riassumibili nel salvataggio degli stabilimenti e dei livelli occupazionali. Cfr. Bilanci e Relazioni, in «Eni», n. 5, 1971.

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Lanificio Maratea. Tre anni di gestione Imi non erano riusciti a ridurre la sua consistente esposizione passiva con gli istituti bancari e a partire dal 1967 la Società Lanifici Maratea registrò crescenti perdite, che raggiunsero la cifra di 5 miliardi nel 1969270, determinando una situazione insostenibile271. Per salvare i livelli occupazionali, nel luglio del 1969, dopo una lunga trattativa con Stefano Rivetti272, l’Eni acquisì gli impianti e i macchinari del Lanificio per mezzo della Marlane Spa, società appositamente costituita nel maggio precedente con capitale di 500 milioni, sottoscritto per il 70% dalla società Sofid e il 30% dalla Lanerossi273. Come si legge in una relazione inviata da Franco Briatico ad Emilio Colombo, l’Eni intendeva evitare «una semplice operazione di salvataggio» e integrare la nuova società a monte con l’Anic e a valle con la Lanerossi274

. Si chiudeva, in tal modo, l’esperienza industriale di Rivetti tra Basilicata e Calabria, mentre cresceva l’impegno del settore pubblico.

La presenza delle industrie chimiche sul territorio materano rappresentò fin da subito uno stimolo per l’imprenditoria locale. Il coinvolgimento di ditte locali nella costruzione degli stabilimenti favorì consistentemente la loro crescita. Con l’avvio della produzione nacquero imprese dedite a servizi accessori non richiedenti particolari competenze tecniche e non importabili: gestione delle mense, attività di pulizia degli stabilimenti, facchinaggio, servizi di autotrasporto. Ma i segmenti più interessanti dell’indotto che si creò intorno all’Anic e alla Pozzi furono quelli relativi alle attività di trasformazione degli output dei due impianti chimici e alla fornitura di servizi richiedenti maggiore specializzazione e competenze tecniche.

Il primo si sviluppò a partire dalla fine degli anni Sessanta fino a metà degli anni Settanta.

Nel 1967 il gruppo lombardo Sapio, operante fin dal 1922 nel settore dei gas tecnici e medicinali, localizzò uno stabilimento nell’agglomerato industriale di Ferrandina. Prelevando acetilene dalla Pozzi, la Sapio avrebbe prodotto idrogeno, ossigeno e azoto. Lo stabilimento esteso su una superficie di 11 mila metri quadrati, iniziò la produzione alla

270 ASE, Eni, Presidenza Cefis, Appunti del Dr. Briatico per il Ministro Colombo, 23 luglio 1967, b. 50, fasc. IAFC.

271

Ivi, Analisi di Bilancio Lanificio Maratea al 28.2.1967, 19 gennaio 1968, b. 300, fasc. 4882.

272Le trattative tra i due gruppi si aprirono dopo reiterate richieste di incontro rivolte al presidente dell’Eni, Cefis, da parte della segreteria di Stefano Rivetti. Il 18 luglio 1967, Cefis incaricò Franco Briatico (suo assistente per le relazioni pubbliche) di ricevere Rivetti. ASE, Eni, Presidenza Cefis, Comunicazione incontro

con il Conte Stefano Rivetti, 18 luglio 1967, b. 50, fasc. IAFC.

273 Ivi, Eni, Relazioni esterne, Comunicazione del presidente Cefis al Ministero delle Partecipazioni Statali, 27 maggio 1969, b. 2, fasc. 66.

274 ASE, Eni, Presidenza Cefis, Appunti del Dr. Briatico per il Ministro Colombo 23 luglio 1967, b. 50, fasc. IAFC.

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fine del 1967 e per i primi anni occupò circa cinquanta unità lavorative, ma nella seconda metà degli anni Settanta subì un ridimensionamento occupazionale, attestandosi sulle 15 unità275.

Due anni dopo, nel 1969, nacque la Penelope Srl, azienda privata dal nome evocativo, finalizzata alla filatura e alla tintura di fibre acriliche. La Penelope fu un’interessante novità dal punto di vista dell’assetto societario: «era il frutto dell’iniziativa locale con limitati innesti di capitale e di esperienze esterni». Come riportava «La Gazzetta», «un gruppo di operatori locali aveva accumulato con sacrifici non lievi le somme necessarie per dar vita allo stabilimento»276 e il loro incontro con dirigenti provenienti dal nord Italia degli stabilimenti Anic e Pozzi aveva favorito la nascita dell’iniziativa. Particolarmente interessante, era anche la sua integrazione con il tessuto produttivo circostante, in quanto prelevava circa 3 tonnellate al giorno di fibre acriliche dallo stabilimento dell’Anic e, attraverso le fasi di filatura e di tinteggiatura, produceva filati per maglieria. La sua presenza sul territorio stimolò la nascita, nel 1972, della Euro Impex, azienda localizzata nel comune di Pomarico, che utilizzando i filati acrilici lavorati dalla Penelope produceva maglieria. La Penelope e la Euro Impex occuparono circa 150 addetti ognuna, per la gran parte donne277.

Nel 1975 entrò in produzione la Val Basento Fibre Srl. Si trattava di una piccola azienda, occupante 15 addetti, per la lavorazione dei cascami delle fibre sintetiche provenienti dall’Anic di Pisticci, ma anche da Bari e Napoli. Il suo mercato prevalente erano le industrie tessili di Prato. Lo stesso anno entrò in produzione anche la Manifatture del Basento Spa- Cucirini Internazionale, un azienda del gruppo Eni, nata da una joint venture tra l’Anic e la società statunitense Belding Heminway, che si collocava nel comparto tessile tecnologicamente più avanzato, Prelevava fibre poliestere dall’Anic di Pisticci e produceva 200 tonnellate annue di cucirini sintetici industriali, riuscendo a collocare il suo prodotto sul mercato internazionale.

A partire dalla metà degli anni Settanta si sviluppò anche il secondo segmento dell’indotto della Val Basento. La presenza dei due stabilimenti chimici e la fase di crescita industriale che viveva l’intera area del Consorzio, stimolarono la nascita di attività finalizzate alla costruzione, al montaggio e alla manutenzione di impianti industriali. Molte di queste attività nacquero per iniziativa di ex dipendenti degli stabilimenti Anic e

275

A. Ambruso, Le occasioni perdute, cit., p. 128.

276 V. Viti, Val Basento- Le industrie minori dopo gli «elefanti», in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 novembre 1968

277 A. Ambruso, Le occasioni perdute. Viaggio nell’industria dell’asse basentano e della Basilicata, cit., p.128.

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Pozzi. È questo il caso, ad esempio, di Giuseppe Aliuzzi, che dimessosi dallo stabilimenti chimico di Ferrandina, dopo che il passaggio alla Liquichimica non sembrava potesse risolverne i problemi, nel 1974 fondò la Tucam, azienda impegnata nella produzione di tubi e carpenteria metallica, e nel 1977 la Coparm Srl, azienda che sarebbe diventata leader sul mercato nazionale nella produzione e commercializzazione di impianti e macchinari per lo smaltimento di rifiuti solidi urbani.

Lorenzo Marsilio, ex dipendente dell’Anic, sempre nel 1974, fondò la Sudelettra, impresa occupante circa 300 addetti, impegnata nella realizzazione e nell’istallazione di quadri elettrici, mentre i fratelli Calciano e Francesco Soldo diedero vita rispettivamente alla Impes Srl e alla Someco Srl. La prima di dimensioni più grandi avrebbe progettato e realizzato quadri e impianti elettrici, arrivando ad occupare più di 400 addetti; la seconda di dimensioni molto più ridotte si sarebbe specializzata nella realizzazione e nel montaggio di condotte industriali.

Proprio i nuovi settori della meccanica strumentale, dell’elettromeccanica, della carpenteria e dell’impiantistica, assunsero presto una «valenza produttiva e di mercato svincolata dalla domanda pubblica e rientrante nel gioco delle imprese e del mercato»278, riuscendo a superare, meglio dei neonati impianti di lavorazione delle fibre, la crisi che si sarebbe consumata a partire dalla seconda metà del decennio. Inoltre, favorirono la nascita di un gruppo di nuovi imprenditori che si sarebbe distinto per un particolare dinamismo e volontà di protagonismo sociale, dando vita all’Associazione delle Piccole Imprese, alternativa alla tradizionale Unione Industriali e concretizzando, in tal modo, un processo di progressiva autonomia culturale della nuova imprenditorialità279.

Nel 1977 in tutta la Basilicata si contavano 90 stabilimenti industriali in senso stretto, 77,7% dei quali di proprietà di imprenditori meridionali, il 13,3% di gruppi privati nazionali e circa il 9% di gruppi pubblici, per un numero complessivo di 12.357 addetti. Le imprese localizzate nell’agglomerato industriale della Valle del Basento erano 18, per un totale di 4.935 addetti, mentre altre 4 aziende erano in costruzione e 5 in programma, con una previsione occupazione di 902 addetti aggiuntivi280. Proprio a partire dal 1977, tuttavia, il sistema industriale lucano, in linea con quanto avveniva nel resto del Paese, fu colpito da un fortissima crisi che provocò un suo consistente ridimensionamento e allo stesso tempo ne ridefinì l’assetto. I grandi impianti chimici entrarono definitivamente in

278

A. Giannola (a cura di), Crisi industriale e sistemi locali nel Mezzogiorno, Franco Angeli, Milano, 1985, p. 216.

279 Ivi, p. 217.

280 IASM, Documentazione sugli agglomerati delle aree e dei nuclei industriali del Mezzogiorno, Milano, 1978, pp. 72-79.

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crisi, trascinandosi dietro gli impianti integrati a valle e a monte del processo produttivo, mentre le piccole e medie imprese rientranti nei settori della metalmeccanica, elettromeccanica ed impiantistica, riuscirono, non senza forti difficoltà, a superare la difficile fase economica, costituendo la nuova ossatura del sistema produttivo lucano.

In altri termini, la crisi chiuse definitivamente la fase dell’industrializzazione per mezzo dei grandi impianti di base chimici e siderurgici finanziati con i soldi della Casmez, che nel periodo compreso tra il 1959 e la crisi petrolifera del 1973 destinò alla Basilicata 150 miliardi di mutuo a tasso agevolato e 20 miliardi di contributi in conto capitale281, dei quali circa 90 miliardi furono destinati all’industria chimica282

. Nonostante l’impegno di tali somme di denaro, non si raggiunsero i risultati sperati, dato che il numero di stabilimenti minori, nati per effetto indotto dalla presenza dei grandi stabilimenti industriali, e l’incremento occupazionale prodotto si mantennero al disotto delle stime e delle previsioni elaborate in fase di programmazione. Non mancarono, tuttavia, effetti positivi. In tutte le aree nelle quali vennero dislocati grandi impianti chimici si ebbe un aumento del reddito delle popolazioni locali comparativamente più alto di quello registrato in altre aree del Mezzogiorno e questo vale anche per la Val Basento283. I salari della grande industria generarono aumento dei consumi e di conseguenza favorirono lo sviluppo delle attività commerciali e dei servizi. La presenza delle industrie, inoltre, stimolò la realizzazione delle infrastrutture, in alcuni casi furono gli stessi gruppi industriali a realizzarle per anticipare i tempi lunghi della burocrazia dei Consorzi, favorendo una maggiore integrazione del territorio con il sistema di reti di comunicazione e una sua più veloce dotazione di reti fognarie e idriche rispetto ad altre aree della regione.

Sul piano socio-culturale, alla fine degli anni Settanta la Basilicata non si caratterizzava più per una cultura contadina e non esprimeva ancora una cultura industriale, presentandosi come un «esempio di processo di transizione da una società tradizionale ad una moderna», con al suo interno «isole arcaiche e comportamenti innovativi»284. Tra le diverse «componenti della soggettualità locale» il sindacato rappresentava «un patrimonio» frutto dell’esperienza industriale285

da ascriversi tra gli aspetti innovativi della società lucana.

281

A. Di Leo, Le vie dell’industrializzazione, cit., p. 370.

282 IASM, Documentazione sugli agglomerati delle aree e dei nuclei industriali del Mezzogiorno, Milano, 1978, pp. 72-77.

283 G. Zappa, Effetti degli investimenti dell’Anic nel Mezzogiorno, in «Documenti Isvet», n. 51, 1974, riportato anche in L. Mattina, A. Tonarelli, Lo sviluppo della chimica. Gruppi di interesse e partiti

nell’intervento straordinario, cit., p. 468 e in E. Cerrito, E. Cerrito, La politica dei poli di sviluppo nel Mezzogiorno. Elementi per una prospettiva storica, in «Quaderni di Storia Economica», n. 3, 2010, p. 43.

284 A. Giannola (a cura di), Crisi industriale e sistemi locali nel Mezzogiorno, cit., p. 223. 285

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Particolarmente interessante fu il processo di sindacalizzazione delle operaie lucane. In linea con quanto era avvenuto nel resto di Italia, il boom economico in Basilicata aveva avuto una netta connotazione maschile286. Come rilevato da un’analisi sull’occupazione femminile in Basilicata promossa dalla Regione nei primi mesi del 1976, la presenza femminile nel settore manifatturiero lucano era sempre stata relativamente bassa, attestandosi mediamente sul 10% dell’occupazione industriale totale287

. A partire dal 1969 si era poi registrato un calo e la percentuale di donne occupate nelle fabbriche lucane era passata dall’ 11, 8% del 1969 all’8,3% del 1974. In questo contesto la nascita di attività come la Euro Impex di Pomarico, con un organico interamente femminile, assumeva un valore particolare anche sul piano sociale. Proprio a Pomarico, infatti, venne costituita nel 1977 la lega delle lavoratrici a domicilio con l’intento di favorire una piattaforma di rivendicazioni comuni tra le 150 donne impiegate nello stabilimento Euroimpex e le donne impegnate in forme di lavoro domicilio288. La lega delle lavoratrici a domicilio di Pomarico testimonia allo stesso tempo l’incunearsi di una cultura e di una presenza femminile in un mondo sindacale segnato dall’egemonia maschile289

e il compimento di un processo politico e sociale capace di ridefinire i ruoli della donna nella società lucana.

286 Sulle trasformazione del mercato del lavoro femminile negli anni del boom economico femminile si veda: E. Betti, Il lavoro femminile nell’industria italiana. Gli anni del boom economico, in «Storicamente», n. 6, 2010, DOI:10.1473/stor86

287

ASCGIL, Coordinamento femminile, Analisi sull’occupazione femminile in Basilicata, Regione

Basilicata, L. Forenza, C. Ianniello, E. Nastasi, 26 marzo 1976, b. 20, fasc. 26.

288 Ivi, Lettera della Lega delle lavoratrici a domicilio al comitato regionale Cgil, 19 maggio 1977.

289 G. Chianese, La cultura sindacale nell’Italia del lungo dopoguerra, in Campo di grano con ciminiera. Il

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